domenica 16 novembre 2008

La "psicoterapia focalizzata sul transfert" di Kernberg per i borderline: in che senso si può definire autenticamente psicoanal

di Paolo Migone


Nella mia rubrica del numero scorso del Ruolo Terapeutico (81/1999) avevo fatto alcune riflessioni su un aspetto della tecnica di Otto Kernberg per i pazienti borderline, e precisamente sul contratto, a mio parere uno degli aspetti più interessanti di questo approccio (che non a caso è anche definito, come recita il titolo di un libro di Yeomans, Selzer & Clarkin del 1992, un "approccio basato sul contratto" [A Contract-Based Approach]). Adesso voglio invece parlare di un’altra caratteristica di questa tecnica, altrettanto interessante, quella che io ho chiamato una sua qualità "autenticamente psicoanalitica" (questi due aspetti della tecnica di Kernberg sono quelli che, come ho detto nella rubrica scorsa, avevo discusso al convegno di Reggio Emilia del 15-5-99 "Percorsi di vita o percorsi di malattia? I disturbi di personalità nella pratica dei servizi"). Accennerò anche brevemente alla teoria di Kernberg, per permettere una maggiore comprensione da parte di coloro che non la conoscessero bene.


Uno dei motivi per cui l'approccio ai disturbi di personalità formulato da Kernberg è una delle tecniche a mio parere più interessanti oggi sulla scena psichiatrica in questo settore è forse il fatto che si propone di mantenere viva una prospettiva autenticamente psicoanalitica, e per di più per una patologia tra le più difficili oggi da curare, quella dei disturbi di personalità. In un periodo in cui, soprattutto negli Stati Uniti, le terapie psicoanalitiche hanno subìto una notevole crisi in termini di finanziamenti e di formazione dei giovani terapeuti, questo approccio si propone come uno degli ultimi baluardi della utilità di una tecnica basata su principi psicoanalitici utilizzabile per pazienti gravi nella pratica dei servizi di salute mentale. Questa tecnica, grazie al manuale che è stato approntato, intende confrontarsi con altre tecniche tramite ricerche sperimentali controllate, in questo caso soprattutto con la Dialectical Behavior Therapy (DBT) di Marsha M. Linehan, una terapia cognitivo-comportamentale relativamente breve (un anno) che sta avendo una certa rinomanza grazie alla sua dimostrata efficacia in alcuni studi [si vedano i due libri della Linehan, Cognitive-Behavioral Treatment of Borderline Personality Disorder, e Skills Training Manual for Treating Borderline Personality Disorder. New York: Guilford, 1993 - il primo è stato tradotto: Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline. Milano: Cortina, 2001]. Kernberg è un autore molto colto, essendo stato esposto a diversi sviluppi del pensiero psicoanalitico, e ha sempre fatto un sforzo per rimanere agganciato ai problemi della psichiatria accademica, senza isolarsi in una concezione della psicoanalisi relegata alla cura dei cosiddetti nevrotici o senza fare i conti con la patologia grave, con gli aspetti biologici e con i problemi della diagnosi anche descrittiva. In questo senso ritengo che Kernberg continui la tradizione dell'orientamento psicodinamico o psicosociale che fin dai primi decenni del secolo ha sempre caratterizzato la psichiatria del nuovo continente differenziandola dalla nostra.


Vediamo innanzitutto come si colloca la concezione della psicopatologia in Kernberg, che poi in senso lato è la concezione della psicopatologia psicoanalitica. Se, con Civita [Psicopatologia. Un'introduzione storica. Roma: Carocci, 1999], concepiamo la psicopatologia come suddivisibile in due concezioni o due dimensioni di fondo con le quali si identifica anche un particolare atteggiamento conoscitivo, quelle della psicopatologia descrittiva e della psicopatologia strutturale, è ovvio che Kernberg si colloca all'interno della seconda, cioè di una psicopatologia strutturale. Questo significa che la psicopatologia viene concettualizzata non come una serie di sintomi descritti fenomenologicamente, ma come espressione di una struttura sottostante, ipotizzata come responsabile dei sintomi stessi, struttura alla quale rivolgiamo al nostra attenzione anche allo scopo di cercare di modificarla terapeuticamente. Il termine struttura è anche il termine sempre usato non solo da Kernberg ma anche da tutta la psicopatologia psicoanalitica (si pensi al concetto di "struttura psichica", alla annosa questione del "cambiamento strutturale", e così via) .


Sebbene non sia questa la sede per descrivere in dettaglio la teoria e la tecnica di Kernberg per i disturbi di personalità, in particolare per quella che lui chiama "organizzazione" borderline di personalità (e non "disturbo" di personalità, che corrisponde alle categorie dell'asse II del DSM-IV), accenno, come ho detto, ad alcuni aspetti per facilitare coloro che non hanno familiarità con essa (per una trattazione più dettagliata dell'approccio di Kernberg, rimando alla mia rubrica nel n. 56/1991 del Ruolo Terapeutico, e al mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995, pp. 146-152).



L'approccio di Kernberg



Kernberg, così come i teorici delle relazioni oggettuali, concepisce che la struttura psichica sottostante a cui dobbiamo rivolgere la nostra attenzione sia costituita dalle cosiddette "relazioni oggettuali interiorizzate", cioè strutture ipotetiche (naturalmente basate su un preciso substrato neuorbiologico o mappe neurali, che appunto si modificano con la terapia) che non sono altro che rappresentazioni di una immagine del Sé in relazione a una immagine dell'oggetto (cioè dell'altro), legate l'una con l'altra da un determinato affetto, cioè da uno stato emotivo che cementa e colora queste unità di rappresentazione di interazione. Queste unità vengono dette relazioni oggettuali interiorizzate perché rappresenterebbero la interiorizzazione delle relazioni avute fin dai primi anni di vita con le figure genitoriali, una sorta di specchio interno di questi rapporti. Ma, nella concezione di Kernberg, non si tratterebbe di una banale interiorizzazione di esperienze senza un contributo specifico dell'individuo, così come ad esempio sembra postulino certi autori intepersonalisti o relazionali radicali, come se il bambino fosse una tabula rasa sulla quale vengono impresse le tracce delle prime esperienze. Un contributo importante a queste relazioni oggettuali interiorizzate verrebbe dato dall'assetto biologico e motivazionale innato, dalle cosiddette "pulsioni" (quello che nella tradizione psicoanalitica viene chiamato "Es"), assetto biologico che, come è nel caso dei borderline, secondo Kernberg potrebbe essere dotato di una "eccessiva aggressività innata" che impedirebbe una normale "integrazione" delle suddette relazioni oggettuali (questa attenzione agli aspetti costituzionali è un esempio della considerazione che Kernberg ha sempre avuto verso la psichiatria biologica, si veda ad esempio l'associazione tra aggressività e basso livello di serotonina - l'alterazione neurotrasmettitoriale però, non dimentichiamolo, può non essere primaria ma indotta essa stessa da esperienze traumatiche).


Per comprendere appieno la teoria di Kernberg occorrerebbe aprire una parentesi e entrare nei particolari della sua spiegazione metapsicologica dello sviluppo psichico che porta alla formazione di queste relazioni oggettuali interiorizzate, spiegazione metapsicologica con la quale si propone di integrare la teoria psicoanalitica tradizionale. Dato che non è possibile in questa sede approfondire questi temi, rimando ai lavori prima citati. Per riassumere, si può dire che i comportamenti tipici del borderline, i suoi stati affettivi caotici, le sue oscillazioni, la sua instabilità emotiva, la sua identità non integrata, ecc., insomma tutto quello che vediamo nei nostri pazienti affetti da questo disturbo, sarebbero la manifestazione esterna, cioè i "derivati", di un tipo di struttura intrapsichica costituita da relazioni oggettuali scisse, non integrate, alternanti in immagini "tutte buone" o "tutte cattive", le une separate dalle altre per motivi "difensivi". Una delle difese più utilizzate dai borderline, come abbiamo visto, sarebbe la scissione (splitting), che avrebbe lo scopo di proteggere la rappresentazione diadica Sé-Oggetto buona (cioè una immagine del Sé e una dell'oggetto legate tra loro da un affetto positivo) dalla distruzione da parte di quella cattiva, e all'opposto, forse avrebbe lo scopo di proteggere anche quella cattiva dalla contaminazione di quella buona. Questa ultima formulazione, di sapore kleiniano (quella secondo la quale anche una immagine cattiva potrebbe essere difensivamente tenuta scissa da una buona), può a prima vista apparire poco comprensibile, ma secondo Kernberg una compattazione negativa può dare un sollievo a un individuo affetto da una altrettanto dolorosa diffusione di identità. In altre parole, una qualunque identità, anche se negativa, può essere meglio di nessuna identità, di uno sgradevole e forse angosciante senso di vuoto e di frammentazione. Volendo non utilizzare qui il concetto di difesa, e quindi prescindendo dalla metapsicologia psicoanalitica, potremmo pensare che l'individuo dispone solo di un modo di funzionamento cognitivo, quello "dicotomico" (senza chiaroscuri, senza grigi, che funziona sempre per dicotomie), mancando di adeguate strutture psichiche che gli permettano una maggiore modulazione delle sue percezioni e dei suoi vissuti.


Ebbene, il lavoro del terapeuta, secondo l'approccio di Kernberg, consisterebbe nell'evidenziare al massimo queste modalità relazionali così come si manifestano in seduta, e nel metterle sempre più in luce con continue interpretazioni di transfert, cioè mostrando il meccanismo intrapsichico che continuamente determina il comportamento e le emozioni del paziente. Non a caso si è deciso di chiamare la tecnica di Kernberg "psicoterapia focalizzata sul transfert" (Transference-Focused Psychotherapy [TFP]), perché è questa la caratteristica principale che la differenzia dalle altre tecniche. Per fare questo lavoro è indispensabile prestare la massima attenzione al mantenimento del setting terapeutico, grazie a un atteggiamento molto fermo, basato su un contratto instaurato all'inizio della terapia (rimando alle mie riflessioni sulla tecnica del contratto contenute nella mia rubrica scorsa). Si postula che è grazie a questa fermezza, a questo limit setting, che il paziente viene maggiormente spinto a manifestare la sua patologia all'interno della terapia, e soprattutto in parole e in sentimenti più che in azioni, interrompendo le sue tipiche manipolazioni o gli acting out, che verrebbero inibiti sul nascere. Con continui cicli di chiarificazione, confrontazione e interpretazione il paziente viene sempre messo di fronte al suo modo di funzionare, in modo che col tempo (almeno un paio d'anni di psicoterapia intensiva) diventerebbe maggiormente padrone dei suoi meccanismi mentali e controllerebbe meglio i suoi comportamenti e stati affettivi. Una delle abilità del terapeuta è quella di saper cogliere, nelle mille sfaccettature cliniche, nelle nuances dei pensieri e degli stati affettivi, i derivati di queste immagini interne scisse o contradditorie. Si pensi ai tanti esempi in cui il paziente ci parla in modo caricaturale, esagerato ed estremizzato, di sé, degli altri e dei suoi stati affettivi, senza essere capace di avere una percezione più moderata, equilibrata, realistica di sé e del mondo (trovo molto efficace il termine "caricatura", usato da Kernberg per descrivere i personaggi dei racconti del paziente, come se fossero attori di una commedia di avanspettacolo). Il terapeuta deve subito notare queste "caricature" che il paziente fa di se stesso, degli altri e della realtà in generale, e soprattutto cogliere la qualità oscillante di queste immagini, nel senso che tipicamente per i borderline gli stessi oggetti (l'analista o un'altra persona) o il Sé (il paziente stesso) assumono qualità tutte buone o tutte cattive in momenti diversi. E' in questi casi che, con continue confrontazioni, l'analista aiuta a vedere come le diverse immagini appartengano alla stessa persona.


Ma non voglio procedere oltre nella descrizione dell'approccio di Kernberg perché, come ho detto, occorre qui darlo per scontato, e mi limito a rimandare non solo ai vari libri di Kernberg (1975, 1976, 1980, 1984, 1992, 1998, ecc.), ma ai manuali già pubblicati, il primo del 1989 [Kernberg O.F., Selzer M., Koenigsberg H., Carr A. & Appelbaum A., Psicoterapia psicodinamica dei pazienti borderline. Roma: EUR, 1996], e il secondo, del 1999, in corso di traduzione [Clarkin J.F., Yeomans F. & Kernberg O.F., Psychotherapy for Borderline Personality. New York: Wiley; trad. it.: Psicoterapia delle personalità borderline. Milano: Cortina, 2000; Edizione Internet delle pp. 31-39 del cap. 1: Strategie nella psicoterapia delle personalità borderline: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/clarki99.htm]. Mi ero proposto essenzialmente di fare una riflessione riguardo a quella che ho chiamato una qualità autenticamente psicoanalitica dell'approccio di Kernberg, e vorrei spiegare cosa intendo.



Il "supporto" non deve essere ricercato in quanto tale, ma deve essere un effetto del lavoro interpretativo



L'approccio di Kernberg si differenzia da altri indirizzi psicoterapeutici per i borderline (tipicamente da quello di Gerald Adler, Borderline Psychopathology and Its Treatment. New York: Aronson, 1985) perché sottolinea la inutilità, anzi il potenziale pericolo, di un approccio basato sul "supporto". Mentre Adler postula che è importante fornire al paziente l'immagine di un terapeuta supportivo, essendogli mancata la possibilità di interiorizzare tale immagine a causa di carenze genitoriali, rotture empatiche ripetute, abusi ecc. (ad esempio Adler a questo scopo caldeggia comportamenti supportivi da parte del terapeuta, come telefonare al paziente in momenti di difficoltà, mandargli una cartolina dalla vacanza per testimoniargli la sua continua presenza affettiva, ecc.), Kernberg ritiene che non sia così facile comportarsi in questo modo perché continuamente il paziente mette alla prova con aggressività questi atteggiamenti supportivi del terapeuta. Non solo, ma Kernberg ritiene sbagliato fornire supporto in quanto non esiste, anche concettualmente, un supporto privo degli aspetti cognitivi. In altre parole, il paziente legge ogni cosa alla luce del suo transfert, per cui può percepire come persecutorio anche un atteggiamento benevolo. Occorre distinguere due tipi di supporto, molto diversi l'uno dall'altro: una cosa è il supporto come effetto di un intervento espressivo, ad esempio come effetto di interpretazione, e questo è proprio quello a cui si mira, e un'altra cosa è il supporto ricercato in quanto tale, e questo è quello che non andrebbe fornito. Addirittura Kernberg ritiene che il desiderio, da parte del terapeuta, di fornire supporto al paziente possa già rappresentare un dato controtransferale da analizzare, un indicatore di una dinamica relazionale, una potenziale trappola tesa inconsciamente dal paziente, una possibile controidentificazione proiettiva, una spinta ad abbandonare quella che Kernberg chiama "neutralità tecnica" dell'analista (per il concetto di "identificazione proiettiva", vedi il mio articolo sul Ruolo Terapeutico, 49/1988, pp. 13-21). In questo senso dunque Kernberg è autenticamente psicoanalitico, in quanto ritiene che quello che conta è dare informazioni al paziente, trasmettere conoscenza, secondo il noto Junktim freudiano, il "legame molto stretto fra terapia e ricerca" o "legame inscindibile", che prevede che la conoscenza sia ipso facto curativa [Freud S., Il problema dell'analisi condotta da non medici. Conversazione con un interlocutore imparziale. Poscritto. Opere, 10, p. 422. Torino: Boringhieri, 1978].


Qui Kernberg sembra far riemergere la sua mal sopita anima kleiniana, segnando un distacco netto dalla tradizione della Mennninger Foundation, tradizione dalla quale lui stesso era provenuto (e dove era giunto dopo l'emigrazione dal Cile, in cui si era formato in una atmosfera culturale kleiniana). Alla Mennninger Foundation di Topeka (Kansas), da alcuni chiamata "la piccola Atene della formazione e della ricerca psicoanalitica", oltre a Kernberg erano passate varie generazioni di analisti americani che poi sono diventati figure guida della Psicologia dell'Io (Wallerstein, Luborsky, Holt, Holzman, Rapaport, Rubinstein, Gill, Schafer, Karl e William Menninger, ecc.). Fu in quella tradizione che erano nati i concetti di "espressivo" e "supportivo", proposti nel 1953 da Knight [Stati borderline. Psicoterapia e Scienze Umane, 1999, 1: 119-135], non casualmente uno dei primi autori ad usare il termine "borderline", che si riferiva a quei pazienti difficilmente analizzabili che sempre più incominciavano a essere visti negli studi degli psicoanalisti in quegli anni a causa del successo sociale della psicoanalisi e del conseguente ampliamento delle sue indicazioni terapeutiche, lo widening scope di cui ci ha parlato Leo Stone nel 1954 [The widening scope of indications for psychoanalysis. J. Am. Psychoanal. Ass., 1954, 2: 567-594]. Secondo questa concezione del continuum supportivo-espressivo, il terapeuta doveva oscillare tra questi due poli a seconda dei bisogni del paziente. Gli interventi supportivi sarebbero quelli che mirano alla rassicurazione, o al rinforzo dell'alleanza terapeutica, mentre quelli espressivi mirerebbero ad allargare la espressività del paziente, la consapevolezza sui suoi contenuti inconsci. Ma, a ben vedere, esiste una aperta contraddizione nella concettualizzazione della terapia psicoanalitica intesa come un continuum tra tecniche supportive ed espressive, contraddizione già evidenziata dallo stesso Luborsky che nel suo noto manuale manuale del 1984 aveva tentato tale operazione [Princìpi di psicoterapia psicoanalitica. Manuale per il trattamento supportivo-espressivo. Torino: Boringhieri, 1989, p. 72 ed. or.]. Luborsky aveva cercato di separare descrittivamente gli interventi supportivi da quelli espressivi, allo scopo di costruire un manuale per sottoporre la psicoanalisi a un tipo di ricerca sperimentale, spinto dalle case assicuratrici e dalle agenzie governative e dietro le pressioni dell'"era della accountability" (in questo senso si può dire che il suo tentativo di catalogazione descrittiva si può considerare un po' come il "DSM-III della psicoanalisi"). Ma - e qui è la contraddizione - in psicoanalisi un intervento è definito dal modo con cui viene vissuto dal paziente, dal suo transfert, non dagli aspetti descrittivi o dalla prospettiva "obiettiva" dell'analista. Non solo, ma la teoria vuole che la interpretazione, intervento espressivo per eccellenza, abbia tipici effetti supportivi (secondo un nodo adagio della psicoanalisi, la interpretazione rafforza l'Io), e questo mette in scacco la classificazione di Luborsky e in generale la dicotomia espressivo-supportivo espressa dalla Menninger Foundation. Catalogare gli interventi psicoanalitici seguendo solo un criterio descrittivo quindi non ci aiuta a comprendere quello che veramente accade in seduta.


Infatti, se guardiamo al tipo di ricerca empirica sulla psicoterapia condotta con questi criteri descrittivi, come sono anche quelli adottati nel noto Psychotherapy Research Project della Menninger Foundation, la prima ricerca sulla psicoterapia a lungo termine attuata con metodologia rigorosa, emergono risultati contraddittori. Wallerstein [Forty-two Lives in Treatmemt: A Study of Psychoanalysis and Psychotherapy. New York: Guilford 1986], dopo aver fatto un follow up di 30 anni in 42 pazienti di questo campione, rilevò che, contrariamente alle aspettative, il successo terapeutico era relativamente indipendente dalle tecniche impiegate, nel senso che le psicoterapie erano altrettanto efficaci delle psicoanalisi, e che in ogni caso in molte psicoanalisi si notava un crescente impiego di tecniche supportive, non spiegabile unicamente con la severità della patologia [International Journal of Psycho-Analysis, 1989, 70, pp. 586-589]. Per Kernberg (che tra l'altro figura come primo autore del rapporto finale di questo studio, pubblicato nel Bull. Menninger Clinic, 1972, 36: 1-275) invece emerse che i borderline traggono maggiore vantaggio non da un approccio meramente supportivo (e neppure dalla psicoanalisi classica), ma da un atteggiamento espressivo, che permetta loro di aprirsi e di trarre giovamento da una riflessione sul loro funzionamento mentale. Al contrario Knight, prima citato, e la Zetzel [Am. J. Psychiatry, 1971, 127: 867-871] ritenevano che la terapia più indicata per i borderline fosse un approccio strettamente supportivo. Come si è detto, questa apparente diversità di vedute si può spiegare (oltre che con probabili fraintendimenti diagnostici), col fatto che uno studio meramente descrittivo non rende conto della diversità degli interventi, cioè dell'effetto che essi hanno sul paziente. E' per questo che, a mio modo di vedere, Kernberg molto correttamente risolve la questione eliminando, per così dire, gli interventi supportivi in quanto tali, e considerando il supporto come parte integrante della tecnica, dato per scontato. Se il paziente ha vissuti persecutori o aggressivi, e quindi non collabora alla terapia, il modo migliore secondo Kernberg è quello di interpretargliene esplicitamente i motivi. Secondo una sua nota massima, "E' sempre meglio interpretare, anche se erroneamente, piuttosto che tacere" (vedi la quarta videocassetta del corso intensivo di tre giorni tenuto da John F. Clarkin all'Università di Parma il 14-15-16 aprile 1997, "La personalità e i disturbi di personalità", recensito da Rita Sciorato sul Ruolo Terapeutico, 75/1997, pp. 50-51 - per chi fosse interessato, il videotape del corso è ancora in vendita). E infatti, vedendo la videoregistrazione di sedute condotte da Kernberg, si può notare quanto egli sia attivo, quanto nella seduta le sue parole spesso occupino molto più spazio di quelle del paziente.


Questo modo di risolvere la questione permette dunque di superare dicotomia supportivo-espressivo, in quanto le tecniche espressive (come la interpretazione) vengono concepite come ipso facto supportive, per cui i due tradizionali fattori curativi - la interpretazione e il supporto, che avevano caratterizzato la storia del dibattito sui fattori curativi della psicoanalisi (vedi la mia rubrica sul n. 52/1989 del Ruolo Terapeutico) - vengono finalmente intrecciati. E' in questo senso che intendevo "autenticamente psicoanalitica" la tecnica di Kernberg, nel senso della sua fede nella verità dell'interpretazione allo scopo di operare il cambiamento strutturale. Come ho detto, l'anima kleiniana di Kernberg qui riemerge in modo molto evidente.




domenica 27 luglio 2008

Psicanalisi intersoggettiva

da Wikipedia


La rivoluzione relazionale in psicoanalisi


In questi ultimi anni si è svolta ed è ancora in atto una svolta nel modo di teorizzare l'esperienza psicoanalitica che taluni per la sua radicalità hanno battezzato con il nome di "rivoluzione relazionale" e che consiste principalmente nel sostituire le obsolete teorizzazioni dell'esperienza psicoanalitica che facevano perno sul concetto di "pulsione" con un nuovo paradigma che fa invece perno su quello di "relazione".

La conquista di questo posto centrale da parte del concetto di relazione nell'elaborazione teorica psicoanalitica dovrebbe sventare sin dall'inizio che possano essere misconosciuti i fondamenti sociali e interattivi degli accadimenti psicoanalitici.



I referenti teorici, gli iniziatori e gli esponenti principali della psicoanalisi intersoggettiva [


Sviluppatasi soprattutto a partire dagli anni 80, in questi ultimi venti anni e ancora poco conosciuta tra i non addetti ai lavori comprende tra i suoi maggiori rappresentanti psicoanalisti come:



  • Heinz Kohut, psicoanalista di Chicago. La sua impostazione di pensiero psicoanalitica viene definita più propriamente "Psicologia del Sé" di cui egli è il caposcuola. Purtuttavia Kohut si può considerare uno degli ispiratori della più recente corrente di psicoanalisi intersoggettiva. Kohut che intendeva con il concetto di "Sè" l'Io riflessivo come quell'Io in grado di fare, ponendosi come soggetto, dell'Io stesso l'oggetto della sua conoscenza, spostò il suo interesse principale dall'indagine sulle strategie di gestione della libido o dell'aggressività addottate dal singolo individuo, alle strategie inventate e adottate da questi per salvaguardare la sua immagine unitaria, il Sé appunto. Si è occupato conseguentemente quindi principalmente dei disturbi dell'autostima e della personalità narcisistica.

  • Robert D.Storolow psicoanalista di Los Angeles di formazione fenomenologica subisce influenze della psicoanalisi del Sé, relazionale e interpersonale prima di pervenire ad una visione teorica e pratica psicoanalitica più accentuatatamente intersoggettiva. Le sue pubblicazioni in questo senso risalgono al 1979.

  • George E.Atwood psicoanalista dell'Istituto di Psicoanalisi Intersoggettiva di New York.

  • Jessica Benjamin psicoanalista di New York e docente di psicoterapia e psicoanalisi alla New York University. Nel suo pensiero la psicoanalisi si amalgama, grazie proprio alla prospettiva intersoggettiva, con il pensiero elaborato dai movimenti femministi. La psicoanalisi intersoggettivista che professa è tale ch'essa ritiene gli stessi Stolorow e Atwood più propriamente interpersonalisti e che quindi a torto li si qualifichi come intersoggettivisti.

  • Stephen A. Mitchell psicoanalista di New York e docente alla New York University. Ha guidato la scuola di psicoanalisi interpersonale fondata negli anni '30 da Harry Stuck Sullivan, tuttavia taluni autori lo inseriscono nell'elenco dei nuovi psicoanalisti di impianto teorico intersoggettivista.

  • B. Brandchaft, J. Fosshage, Donna M.Orange, Arnold Modell, Thomas Ogden, Owen Renik, Harold Searles, Colwyn Trewarthen, Levenson, Greenberg, Ritvo, B. Beebe, Lachmann, Rosenfeld, e Ste




La concezione relazionale della mente


La teoria psicoanalitica di cui si fanno assertori si caratterizza per la loro affermazione circa la concezione della mente come relazione. Da quì anche il riferirsi all'insieme dei loro studi e ricerche come "Psicoanalisi Relazionale".



Una revisione del concetto di inconscio


Pur non negando la validità del concetto di inconscio che è il cardine del pensiero psicoanalitico sin dalle sue origini e che è ciò che contraddistingue la psicologia psicoanalitica propriamente detta da altri sistemi di pensiero psicologici, ritengono tuttavia che l'immagine dell'inconscio elaborata da Freud risente ancora di una concezione della mente d'influenza cartesiana. Per gli intersoggettivisti anche l'inconscio è relazionale, il che significa che nasce nella relazione, è un prodotto della relazione e rimanda costantemente alla relazione. Questa nuova impostazione dovrebbe sventare una possibile reificazione dell'inconscio in quanto, all'interno di una concezione relazionale della mente, sarebbe contraddittorio concepirlo come un oggetto reale.



La critica del mito della mente isolata


La critica del mito della mente isolata condotta dagli intersoggettivisti è rivolta non solo ma soprattutto alla psicoanalisi classica o pulsionale o meglio a quel che di essa ancora rimane dopo le revisioni teoriche operate negli anni dalla psicologia psicoanalitica dell'Io prima e poi dalla psicoanalisi delle relazioni oggettuali.

Essi partendo da una critica radicale e conseguente a livello sia teorico che pratico di quello che a loro modo di vedere considerano soltanto un mito e che pertanto definiscono sinteticamente appunto con il termine di "mito della mente isolata" mettono l'accento soprattutto ai vissuti relativi al transfert e al controtransfert del paziente e dell'analista ovvero ai veri due termini della relazione psicoanalitica che considerano di primaria importanza rispetto ad ogni altra considerazione psicoanalitica. Nello stesso tempo il criterio operativo che adottano è relativo appunto all'intersoggettività che emerge e si dispiega in questa relazione duale ch'essi cercano di risvegliare e di prommuovere senza più alcuna delle vecchie preoccupazioni di oggettività che erano invece tipiche della psicoanalisi delle origini con quelle sue ambiziose pretese di scientificità che fa il vanto delle scienze naturali soprattutto e che in psicoanalisi sono risalenti allo stesso Sigmund Freud per il quale era irrinunciabile un'allineamento della disciplina psicoanalitica al metodo scientifico.

Questa loro critica al mito della mente isolata è ciò che li ha caratterizzati principalmente rispetto ad altre scuole e correnti della psicoanalisi più recente e che li ha fatti conosciere presso un più vasto pubblico.

Storicamente gli intersoggettivisti rinvengono nel filosofo francese Cartesio e nella sua peculiare concezione della mente il momento in cui tale mito si origina e comincia a propagarsi facendo proseliti anche al giorno d'oggi. Il dualismo gnoseologico e ontologico che ne deriva è una inevitabile conseguenza di una concezione della mente non relazionale.

Dal punto di vista filosofico l'orientamento intersoggettivista in psicoanalisi risente del pensiero filosofico ermeneutico e in particolare dell'ermeneutica ontologica di Hans-Georg Gadamer che affonda le sue radici nella fenomenologia di Edmund Husserl ma soprattutto di Martin Heidegger

Melanie Klein

da Wikipedia


Melanie Reizes nacque a Vienna il 30 marzo 1882, ultima di quattro figli. I genitori erano stati allevati come ebrei ortodossi, ma non erano praticanti. L'ambiente familiare era culturalmente vivace: il padre aveva intrapreso gli studi di medicina, la madre e il fratello maggiore erano appassionati di letteratura e di musica. L'infanzia di Melanie fu turbata da due lutti: sua sorella Sidonie morì a soli 9 anni, suo fratello Emmanuel a 25 anni. Melanie intraprese gli studi di medicina ma si ritirò pochi anni dopo. Si sposò poco più che ventenne con Arthur Klein, un chimico industriale, dal quale ebbe due figli maschi (Hans ed Eric) ed una femmina (Melitta).


Nel 1910 seguì il marito a Budapest e lì venne in contatto con la teoria freudiana. Iniziò l’analisi con, cosi come Imre Hermann, Sándor Ferenczi, fratello di un collega del marito, il quale la incoraggiò ad applicare all’infanzia la tecnica analitica, fino ad allora rivolta esclusivamente a pazienti adulti. Nel 1919 lesse il suo primo lavoro: Lo sviluppo di un bambino (pubblicato successivamente in International Journal of Psycho-Analysis) davanti ai membri della Società Psicoanalitica di Budapest, fondata da Ferenczi nel 1913, e della quale lei stessa era divenuta socia.


Al congresso dell’Aja del 1920 conobbe Karl Abraham, fondatore del celebre Politecnico psicoanalitico di Berlino e pioniere dell’applicazione della psicoanalisi alle psicosi. Nel 1922 Melanie divorziò da Arthur e si trasferì con i figli a Berlino. Nel 1924 Melanie intraprese l’analisi con Abraham, che però morì pochi mesi dopo. Il pensiero dello psichiatra tedesco si rivelerà determinante nell’impostazione della teoria kleiniana.


In quegli stessi anni, Anna Freud, la minore delle figlie di Sigmund, era diventata membro prima della prestigiosa Società psicoanalitica di Vienna e poi del Comitato di coordinazione, un organismo fondato da Jones per preservare l’ortodossia della psicoanalisi. Sia la Freud che la Klein si erano dedicate alla psicoanalisi infantile e retrodateranno l’applicabilità della psicoanalisi, ma mentre la prima riteneva che non si potesse operare il transfert perché le relazioni con i genitori per il bambino sono storia attuale, per la Klein la tecnica del gioco era in grado di sostituire le libere associazioni e di svelare il mondo fantasmatico infantile. Le due metodologie di analisi e le teorie sottostanti erano palesemente conflittuali. Tale conflitto determinerà una frattura nell’ambito della giovane disciplina psicoanalitica e porrà le basi per la nascita della Psicologia dell’Io e della Psicologia del Sé. La Società Psicoanalitica tedesca era nettamente schierata con Anna Freud, ma le idee della Klein trovarono accoglienza presso la Società Psicoanalitica Inglese, presieduta in quegli anni da Ernst Jones. Nel 1926, su invito dello stesso Jones, Melanie si trasferì a Londra. Qui sviluppò e consolidò il suo sistema psicodinamico, pubblicando, tra l’altro, Invidia e gratitudine, uno dei suoi testi più innovativi. Morì nel 1960 all’età di 78 anni. Il suo pensiero influì in modo determinante sugli sviluppi della teoria psicodinamica, in particolare sulla scuola delle relazioni oggettuali i cui rappresentanti più illustri, oltre alla stessa Melanie Klein, sono Ronald Fairbairn, Michael Balint e Donald Winnicott. Il pensiero della Klein verrà sviluppato dopo la sua morte dando vita alla scuola kleiniana: Hanna Segal, Herbert Rosenfeld, Donald Meltzer, Roger Money-Kyrle, Wilfred Bion, Ignacio Matte Blanco e Franco Fornari.



La teoria


Il nucleo centrale della teoria kleiniana è la relazione: i contenuti sui quali viene investita (oggetti parziali e totali), il conflitto energetico che ne regola il dinamismo (pulsione di morte e pulsione di vita, invidia e gratitudine), le tappe evolutive lungo le quali si forma (la posizione schizzoparanoide e la posizione depressiva) e le sue patologie (le psicosi e le nevrosi). In particolare, nel pensiero della Klein la relazione con la madre riveste un ruolo centrale e determinante per lo sviluppo psichico del bambino e, quindi, dell’adulto. Nel passaggio da un’organizzazione patologica della psiche ad un pensiero ambivalente (che, cioè, vive in modo maturo la coesistenza di qualità opposte nell’oggetto) si dimostrano fondamentali i concetti kleiniani di riparazione e invidia.






Melanie Klein e Sigmund Freud


Pur non abbandonando l'impianto teorico di base, che poneva l'accento sul primato della pulsione, Melanie Klein introdusse, forte anche della propria esperienza diretta con i bambini, alcuni concetti che si distanziarono dalla teoria psicoanalitica classica in materia di sviluppo psichico.


Una prima distinzione riguarda la metapsicologia: mentre per Freud le istanze psichiche esposte nella seconda topica (EsIoSuper Io) hanno un valore metaforico, nella teoria kleiniana assumono un valore concreto. La formazione stessa delle istanze psichiche è differente: mentre per Freud l’Io si "forma" in un secondo momento, nella Klein l'Io esiste già dalla nascita, anche se in modo poco integrato. Proprio la presenza di questo Io primitivo rende possibile la relazione oggettuale. Nel descrivere l’Es, la Klein si pone in continuità con l’ultima formulazione del concetto di libido da parte di Freud descrivendolo caratterizzato dalle pulsioni di vita e di morte e da energie libidiche ed aggressive. Anche il complesso di Edipo e la conseguente formazione del Super-Io come istanza morale e giudicante sono anticipati rispetto alla teoria freudiana: per Freud l'Edipo avviene intorno ai 4-5 anni e permette l’interiorizzazione del Super Io paterno (istanza morale), mentre la Klein pone la nascita dell’Edipo tra i 6 e i 12 mesi, come frutto della posizione depressiva (ammissione del "terzo" nella relazione duale).


Un secondo punto di distacco dalla teoria freudiana classica consiste nel fatto che in Freud tutto l’impianto dinamico poggia sul meccanismo della rimozione, mentre nella Klein è fondamentale la triade scissione – introiezione – proiezione. Il bambino, infatti, fin dalla nascita vive la drammatica conflittualità tra pulsione di morte e pulsione di vita. L’angoscia provocata dalla pulsione di morte viene separata dalla pulsione di vita (scissione) e proiettata sull’oggetto (proiezione), mentre la pulsione di vita invece viene riferita a sé (introiezione), dinamica che sta alla base dell’Io buono e dell’Io cattivo e che porta a quella che la Klein chiama posizione schizoparanoide.


Una terza differenza va posta sul piano evolutivo: la Klein considerò troppo statico il termine fase che Freud aveva utilizzato per definire le tappe dello sviluppo psicosessuale (orale, anale e fallica). Inoltre, avendo costruito un sistema teorico nel quale sono centrali le relazioni con il mondo fantasmatico durante il primo anno di vita, la Klein preferì adottare il termine posizioni proprio per enfatizzare la qualità relazionale dello sviluppo della psiche.



La relazione oggettuale


Secondo la Klein, il mondo interno del bambino è abitato dalle pulsioni di vita e di morte e popolato di oggetti: rappresentazioni interne sulle quali avviene l’investimento pulsionale. Tali rappresentazioni sono fantasmatiche, cioè preesistenti e indipendenti dalla percezione del mondo esterno, e servono ad orientare le pulsioni istintuali. L’oggetto parziale. Nei primi giorni di vita il bambino vive in simbiosi con la madre e non distingue il proprio corpo dal suo. Le relazioni oggettuali a questo livello sono esclusivamente intrapsichiche. Il bambino percepisce il seno materno come parziale a sé, cioè come prolungamento di sé stesso, e come "parziale" rispetto alla madre, un oggetto cioè dotato di caratteristiche proprie ed onnipotenti. L’oggetto totale. Nel passaggio dalla fase schizoparanoide a quella depressiva gli oggetti da parziali diventeranno totali, cioè separati e indipendenti dalla percezione che il bambino ha di sé. La relazione oggettuale, quindi, è l’interazione tra le pulsioni e gli oggetti parziali e totali. Avviene principalmente a livello fantasmatico e anche nella vita adulta la relazione con gli oggetti totali verrà sempre condizionata dalla modalità con la quale si è vissuta la relazione con gli oggetti parziali.



Le posizioni


Nella teoria psicoanalitica classica, le fasi dello sviluppo psicosessuale consistono in uno spostamento dell’investimento libidico dall’una all’altra zona erogena (la bocca, gli sfinteri e i genitali). Tale spostamento avviene in modo endogeno, secondo un determinismo fisiologico innato. Per la Klein, invece, l’Io si trova coinvolto fin dalla nascita in un drammatico conflitto tra la pulsione di vita e la pulsione di morte. Poiché la natura dell’Io è fondamentalmente relazionale, la mente adotta una posizione nei confronti degli oggetti interni che la abitano (che, come abbiamo detto, sono preesistenti e indipendenti dalla percezione esterna), investendoli dei portati della posizione di vita, della posizione di morte o di entrambe.


Posizione schizo-paranoide (da 0 a 4-5 mesi). In questa fase di sviluppo, le relazioni oggettuali si fondano sui meccanismi di difesa della scissione e della identificazione proiettiva. Come abbiamo visto relativamente agli oggetti parziali, il seno viene interpretato come riassuntivo di tutte le esperienze gratificanti: alimentazione, calore, sensazioni tattili, sazietà, benessere. Il neonato però vive l’angoscia della pulsione di morte, le malattie, la fame, il differimento della gratificazione. Poiché però nei primi mesi il mondo interiore del bambino è un tutto, il seno diventa contemporaneamente sia buono che cattivo, per cui non essendo in grado di integrare le due qualità dell'oggetto, il seno buono ed il seno cattivo vengono separati l’uno dall’altro come se si trattasse di due oggetti distinti (scissione). Il neonato, però, vive la relazione con l’oggetto come se l’interazione avvenisse dentro di sé (fantasia inconscia), per cui si identifica con il seno buono e il seno cattivo percependo sé stesso come Sé buono e Sé cattivo (identificazione). Il soggetto, in altri termini, vive una situazione tipica della schizofrenia in cui l’identità è diffusa e vive il sé e le relazioni come buone e cattive allo stesso tempo. Terrorizzato dalla pulsione di morte, il bambino teme che il seno cattivo perseguiti il Sé buono e allo stesso tempo teme che il proprio Sé cattivo possa aggredire e danneggiare il seno buono. Questa situazione fa nascere la angoscia di persecuzione di tipo paranoide, più arcaica e radicale della angoscia di castrazione di Freud e comune tanto al maschio che alla femmina.


Posizione depressiva (da 5 a 12 mesi). In questa fase dello sviluppo sono centrali i concetti di integrazione, lavoro del lutto e riparazione. Il seno onnipotentemente buono e cattivo non viene più scisso in due oggetti separati, come accadeva nella posizione schizoparanoide, ma viene sperimentato come oggetto totale, nel quale sono integrati, cioè, sia gli elementi gratificanti che quelli frustranti (integrazione). Si passa così da un mondo oggettuale totalmente fantasmatico ad una conciliazione delle percezioni interiori con gli attributi reali dell’oggetto. Il pensiero da onnipotente diventa ambivalente. Tale posizione coincide con il periodo dello svezzamento. Il bambino si scopre dipendente dalla madre per la soddisfazione dei propri bisogni, ma allo stesso tempo sperimenta l’impotenza perché non può trattenerla sempre con sé. Sviluppa così un atteggiamento depressivo. Tale depressione, come già aveva scritto Freud, è la stessa che caratterizzerà il lutto: il bambino interpreta lo svezzamento come perdita del seno buono, dal quale deve necessariamente separare la propria identità, se vuole sopravvivere, allo stesso modo in cui chi perde una persona cara deve disinvestire i legami libidici per reinvestirli in altri o in altro. La Klein colloca in questa fase la nascita del simbolo inteso come sostituto dell’oggetto sul quale il bambino può scaricare le pulsioni libidiche ed aggressive senza temere di danneggiare il seno buono. In questa fase, quindi, il bambino inizia a percepire non solo che il seno è altro da sé ma anche che è presente un terzo, ovvero il padre. Nella teoria kleiniana il ruolo del padre è fortemente relativizzato. Il Super Io, infatti, nasce da questo riconoscimento della dualità e dell’indipendenza della madre da sé e non dall’antagonismo con il padre. Anche la formazione stessa di questa istanza si configura come il portato della riparazione. Il bambino, che durante la fase schizoparanoide ha aggredito e tentato di distruggere il seno cattivo, riconosce ora che il seno buono coincide con quello cattivo, per cui viene sopraffatto dal senso di colpa che lo spinge a riparare l’oggetto che prima ha sciupato e danneggiato. Interiorizzando le norme che regolano la distruttività interiore il bambino si assicura che l’oggetto amato non verrà più sciupato. nasce così il Super Io.



Invidia e psicopatologia


La Klein sviluppò i concetti di invidia e gelosia negli ultimi anni della sua vita (Invidia e gratitudine, 1957), e in essi è possibile leggere una sintesi originale del suo pensiero. Tali concetti le costarono non poche critiche nell'ambiente psicoanalitico. Innanzitutto va distinta l’invidia dalla gelosia: la gelosia si fonda sull’amore (pulsione di vita) che vorrebbe l’oggetto gratificante tutto per sé e, conseguentemente, desiderera la distruzione di tutto ciò che si frappone a questo possesso. L’invidia, invece, è un portato della pulsione di morte: non potendo possedere le caratteristiche ambite dell’oggetto, il bambino ne desidera la distruzione. L’invidia, afferma la Klein, è un’energia distruttiva la cui quantità è biologicamente determinata. Nella fase schizoparanoide il seno è ritenuto onnipotentemente buono (gratificazione) ma anche onnipotentemente malvagio (frustrazione). Quando l’oggetto nutre e sostiene i bisogni del bambino, il bambino prova gratitudine, quando invece si nega scatena il sentimento dell’invidia. L’armonizzazione dei due sentimenti è alla base di un Io integrato e stabile. Bisogna ancora una volta sottolineare che, per la Klein, la relazione oggettuale, sana o patologica che sia, avviene a livello fantasmatico, cioè indipendentemente dalle qualità reali della relazione con la figura materna. Se è vero che un ambiente di deprivazione affettiva predispone alla patologia, non è detto però che la patologia nasca da una reale madre incurante o malvagia. Donald Winnicott riprenderà questi concetti kleiniani sviluppando la teoria di reale deprivazione o ambivalenza da parte della madre come fattore determinante la patologia psichica.


Dal conflitto tra la pulsione di vita e la pulsione di morte, dunque, dipende la sanità psichica o l’insorgenza della psicosi nel soggetto. Se prevalgono le esperienze di amore (gratitudine) il bambino svilupperà un Sé integrato ed equilibrato. Se invece le angosce persecutorie e l’invidia non vengono controbilanciate da esperienze positive, il bambino svilupperà una psicopatologia. Più precisamente, se fallisce il passaggio dall’oggetto parziale all’oggetto totale, il bambino vivrà in un mondo di oggetti scissi, terrorizzato dall’oggetto persecutorio, non sarà capace di mentalizzare e svilupperà quindi una psicosi. Se invece fallisce l’elaborazione del lutto e la riparazione durante la posizione depressiva il bambino potrà sviluppare o una nevrosi o, se adotta la difesa maniacale e riattiva le dinamiche della posizione schizoparanoide, una psicosi.



L'eredità kleiniana


Le innovazioni apportate al pensiero psicoanalitico dalla Klein scatenarono in breve tempo una disputa fra scuole di pensiero, rappresentata da due opposte fazioni: da un lato c'era Anna Freud che, oltre a "difendere" l'eredità paterna, contestava l'idea di una "analizzabilità" in senso adulto dei bambini molto piccoli; dall'altra parte c'era la Klein che, avendo "anticipato" le principali fasi e competenze dello sviluppo infantile, sosteneva una piena analizzabilità dei bambini e proseguiva per una visione nettamente relazionale della psicoanalisi. Seppur troppo enfatizzato dagli storici, questo dibattito portò ad una scissione netta nella scuola psicoanalitica. A seguire direttamente la Klein furono molti giovani studenti, ai quali era richiesto di scegliere come "supervisore" uno di orientamento kleiniano o freudiano. Indirettamente (grazie all'incontestabile forza delle sue teorie), il pensiero kleiniano influenzò molti altri autori, definiti dalla Storia della Psicologia come "Scuola di Mezzo" (Fairbairn, Winnicott, Balint), nel senso che non si schierarono né da una parte, né dall'altra nella propria formazione, anche se è evidente l'eredità lasciata dalla Klein nella loro impostazione teorica, soprattutto metapsicologica.






Non c'è pulsione senza oggetto


Il grande merito di Melanie Klein sta senza dubbio nell'accento posto sulla natura relazionale della pulsione: Freud aveva sviluppato l'idea di una pulsione prettamente autoerotica, nella misura in cui l'individuo si "serviva" dell'ambiente per ricevere piacere o gratificazione. Per la Klein la pulsione senza oggetto non esiste, neppure il narcisismo ne è esente, dal momento che si tratta di una relazione con oggetti interiorizzati. Gli affetti primari dell'amore, dell'odio, dell'angoscia, sono perciò relazionali ab initio (Klein, 1952), poiché è la relazione, la presenza reale o fantasmatica di un oggetto, l'obiettivo principale della pulsione (anziché l'appagamento di per sé). Questa concettualizzazione fu preziosa per i futuri sviluppi della psicoanalisi, che si "spostò" rapidamente da una concezione pulsionale ad una totalmente relazionale, a volte "dimenticando" completamente la pulsione così come era intesa anche dalla stessa Klein. L'eredità Kleiniana è così osservabile nelle teorie di Fairbairn, Donald Winnicott e altri, nonché nelle teorie sistemiche, in quelle dell'attaccamento di John Bowlby e in altri approcci più o meno psicoanalitici che apparentemente scavalcarono l'intero impianto teorico di questa autrice.



Il mondo interno


Spostando l'attenzione dalla pulsione come autoerotismo alla relazione oggettuale, Melanie Klein propose un originale modello di "mente", ben più complesso di quello freudiano, anche se sostanzialmente sovrapponibile. Relazionandosi con oggetti esterni, la mente si popola di oggetti (parziali o totali) di tutti i tipi, intesi come simboli dell'oggetto e delle sue qualità affettive. La mente, dunque, diventa un contenitore di oggetti simbolizzati che danno origine a pulsioni e sentimenti via via più complessi, e che spiegano l'origine del pensiero. Quest'ultimo aspetto è stato ampiamente e genialmente sviluppato da un allievo della Klein, Wilfred Bion, a tutt'oggi considerato uno dei più originali teorici della mente

martedì 22 luglio 2008

Lutto e malinconia

da www.psicanalisicritica.it


Dopo che ci siamo avvalsi del sogno come normale prototipo dei disturbi psichici narcisistici [als Normalvorbild der narzißtischen Seelenstörungen], vogliamo tentare [wollen wir den Versuch machen] di chiarire l'essenza [Wesen] della melanconia confrontandola con il normale affetto del lutto. Questa volta però dobbiamo fare un'ammissione preliminare che ci ponga al riparo dal rischio di esagerare il valore delle nostre conclusioni. La melanconia, la cui determinazione concettuale [Begriffbestimmung] risulta oscillante perfino nella psichiatria descrittiva, si presenta in forme cliniche differenti, la cui riunione in vista dell'unità non appare certa [deren Zusammenfassung zur Einheit nicht gesichert scheint]; inoltre, alcune di queste forme fanno pensare più ad affezioni di tipo somatico che psicogeno. Il nostro materiale, a prescindere dalle impressioni cui ogni osservatore può accedere liberamente, si limita a un piccolo numero di casi la cui natura psicogena non poteva esser messa in dubbio. Lasceremo quindi cadere fin dall'inizio ogni pretesa [Anspruch] di universale validità per le nostre conclusioni, e ci consoleremo col pensiero che, dati gli strumenti di indagine di cui disponiamo attualmente, assai difficilmente potremmo scoprire qualcosa che non sia tipico, se non di un'intera classe, almeno di un piccolo gruppo di disturbi.

L'accostamento del lutto e della melanconia pare giustificato dal quadro d'insieme di questi due stati. Anche le loro cause occasionali derivanti dalle influenze dell'ambiente, se e quando ci è dato di discernerle, sono le stesse. Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via. La stessa situazione produce in alcuni individui - nei quali sospettiamo perciò la presenza di una disposizione patologica - la melanconia invece del lutto. È peraltro assai rimarchevole il fatto che nonostante il lutto implichi gravi scostamenti rispetto al modo normale di atteggiarsi di fronte alla vita, non ci passa mai per la mente di considerarlo uno stato patologico e di affidare il soggetto che ne è afflitto al trattamento del medico. Confidiamo che il lutto verrà superato dopo un certo periodo di tempo e riteniamo inopportuna o addirittura dannosa qualsiasi interferenza.

La melanconia è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno [
Aufhebung] dell'interesse per il mondo esterno, dalla perdita [Verlust] della capacità di amare, dall'inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell'attesa [Erwartung] delirante di una punizione [Strafe]. Questo quadro guadagna in intelligibilità se consideriamo che il lutto presenta gli stessi tratti [dieselben Züge], ad eccezione di uno [einzigen]; il disturbo del senso di sé va per la sua strada [die Störung des Selbstgefühls fällt bei ihr weg]. Ma per il resto è lo stesso. Il lutto profondo, ossia la reazione alla perdita di una persona amata, implica lo stesso doloroso stato d'animo, la perdita d'interesse per il mondo esterno - fintantoché esso non richiama alla memoria colui che non c'è più -, la perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d'amore (che significherebbe rimpiazzare il caro defunto), l'avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria. Comprendiamo facilmente che questa inibizione e limitazione dell'Io esprime una dedizione esclusiva al lutto che non lascia spazio ad altri propositi e interessi. In verità questo atteggiamento non ci appare patologico soltanto perché lo sappiamo spiegare così bene.

  Parimenti appropriato riterremo il raffronto che qualifica lo stato d'animo del lutto come "doloroso". La sua legittimazione ci risulterà presumibilmente più chiara quando saremo in grado di caratterizzare il dolore dal punto di vista economico.

  Orbene, in cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? Non credo di forzare le cose se lo descrivo nel modo seguente: l'esame di realtà ha dimostrato che l'oggetto amato non c'è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un'avversione ben comprensibile; si può infatti osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica, neppure quando dispongono già di un sostituto che li inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all'oggetto, consentita dall'instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio. La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento. Tuttavia questo compito non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d'investimento; nel frattempo l'esistenza dell'oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all'oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno a uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi. Non è affatto facile indicare con argomentazioni di tipo economico perché tale compromesso con cui viene realizzato poco per volta il comando della realtà risulti così straordinariamente doloroso. Ed è degno di nota che questo dispiacere doloroso ci appaia assolutamente ovvio. Comunque, una volta portato a termine i1 lavoro del lutto, l'Io ridiventa in effetti libero e disinibito.

  Proviamo ora ad applicare alla melanconia ciò che abbiamo appreso a proposito del lutto. In una serie di casi è evidente che anche la melanconia può essere la reazione alla perdita di un oggetto amato. In altre circostanze si può invece riscontrare che la perdita è di natura più ideale. Può darsi che l'oggetto non sia morto davvero, ma sia andato perduto come oggetto d'amore [
als Liebesobjekt] (è il caso, per esempio, di una sposa


abbandonata). In altri casi ancora riteniamo di doverci attenere all'ipotesi di una perdita di questo genere, ma non sappiamo individuare con chiarezza cosa sia andato perduto, e a maggior ragione possiamo supporre che neanche il malato riesca a rendersi conto coscientemente di quel che ha perduto. Quest'ultimo caso potrebbe presentarsi altresì quando il paziente è consapevole della perdita che ha provocato la sua melanconia nel senso che egli sa quando [wen] ma non cosa [was] è andato perduto in lui. Saremmo quindi inclini a connettere in qualche modo la melanconia a una perdita oggettuale [Objektverlust] sottratta alla coscienza , a differenza del lutto in cui nulla di ciò che riguarda la perdita è inconscio.

Per il lutto abbiamo scoperto che l'inibizione e la mancanza d'interesse si spiegano compiutamente con il lavoro del lutto da cui l'Io è assorbito. La perdita inconsapevole [
der unbekannte Verlust] che si verifica nella melanconia darà luogo a un analogo lavoro interiore, che diventerà perciò responsabile dell'inibizione melanconica. Solo che l'inibizione melanconica suscita in noi l'impressione di un enigma [einen rätselhaften Eindruck macht perché non riusciamo a vedere da cosa l'ammalato sia assorbito in maniera così totale. Il melanconico ci presenta un'altra caratteristica che manca nel lutto: uno straordinario avvilimento del suo senso dell'Io [seines Ichgefühls], un enorme impoverimento dell'Io [Ichverharmung] . Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia lo è l'Io stesso. Il malato ci descrive il suo Io come assolutamente indegno [nichtswürdig], incapace di fare alcunché e moralmente spregevole; si rimprovera, si vilipende e si aspetta ripudio e punizione [erwartet Austoßung und Strafe]. Si svilisce di fronte a tutti e commisera a uno a uno i suoi cari perché sono legati a lui, una persona così indegna [so unwürdige]. Non reputa che in lui sia avvenuto un mutamento, e anzi estende al passato la sua autocritica affermando di non essere mai stato migliore. Il quadro di questo delirio d'inferiorità (prevalentemente morale) è completato da insonnia, rifiuto del nutrimento e da un tratto notevolissimo sotto il profilo psicologico, ossia dal superamento di quella pulsione che costringe ogni essere vivente a restare fortemente attaccato alla vita.

Sarebbe parimenti infruttuoso dal punto di vista scientifico e da quello terapeutico se ci mettessimo a contraddire l'ammalato che rivolge tali accuse [
Anklagen] contro il proprio Io. In qualche modo egli deve pure avere ragione, e descriverci qualcosa che è come a lui appare. Alcune delle sue affermazioni dobbiamo infatti confermarle senza riserve. Egli è davvero così privo di interessi e così incapace di amare e di agire come dice. Ma ciò, com'è noto, è secondario e rappresenta la conseguenza del lavoro interiore che consuma il suo Io, lavoro a noi sconosciuto ma che possiamo paragonare a quello del lutto. Egli ci sembra nel giusto anche quando muove a sé stesso alcune altre accuse; soltanto, rispetto ad altre persone non melanconiche, sembra che egli sia capace di cogliere il vero [die Wahrheit zu erfassen] con maggiore acutezza. Quando, al culmine della sua autocritica, egli si definisce un meschino, un egoista, uno sleale e un succube, la cui unica aspirazione è sempre stata quella di occultare le debolezze della propria natura, per quanto ne sappiamo può darsi che egli si sia avvicinato considerevolmente alla conoscenza di sé medesimo; e ci domandiamo solo perché ci si debba prima ammalare affinché tali verità siano accessibili [um solcher Wahrheit zugänglich zu sein]. Giacché è indubbio che se qualcuno giunge a una tale valutazione di sé e la manifesta di fronte al prossimo - una valutazione come quella che il principe Amleto applicava a sé e a tutti gli altri -, ebbene costui è malato, indipendentemente dal fatto che dica il vero o che sia più o meno ingiusto con sé stesso. D'altra parte non è difficile accorgersi che, stando al nostro giudizio, non vi è rispondenza fra il livello dell'autodenigrazione e il suo effettivo fondamento. Quando una donna si ammala di melanconia, anche se in passato è stata onesta, capace e scrupolosa, non parlerà meglio di sé medesima della donna che in effetti non vale nulla; anzi forse esistono per la prima maggiori probabilità di ammalarsi di melanconia che per la seconda, della quale noi stessi non sapremmo cosa dire di buono. Infine, non mancherà di colpirci il fatto che il melanconico non si comporta comunque in tutto e per tutto come un individuo normalmente contristato da rimorsi e autorimproveri. Il senso di vergogna di fronte agli altri, che caratterizza probabilmente più di ogni altra cosa quest'ultima situazione, manca nel melanconico o quantomeno non è appariscente. Si potrebbe quasi mettere in rilievo nel melanconico la caratteristica opposta di un assillante bisogno di comunicare, che trova soddisfacimento nel mettere a nudo il proprio Io.

Non è dunque essenziale stabilire se il melanconico, nel suo tormentoso autodenigrarsi, abbia ragione, nel senso che la sua critica converge con il giudizio degli altri. Il vero punto è che egli descrive certamente con esattezza la propria situazione psicologica. Ha perduto il rispetto di sé e certamente per un buon motivo. Ci troviamo comunque di fronte a una contraddizione che ci pone un enigma difficilmente risolvibile. L'analogia con il lutto ci induce a concludere che il melanconico ha subito una perdita che riguarda l'oggetto; da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che riguarda il suo Io.

Prima di addentrarci in questa contraddizione, ci sia consentito prendere in esame per un momento ciò che la sofferenza del melanconico ci permette di arguire sulla costituzione dell'Io umano. Nel melanconico vediamo che una parte dell'Io si contrappone all'altra parte, la valuta criticamente e la assume, per così dire, quale suo oggetto. Il nostro sospetto che l'istanza critica, prodottasi in questo caso per scissione dell'Io, possa dimostrare la sua autonomia anche in altre circostanze sarà confermato da tutte le osservazioni ulteriori. Troveremo davvero che esistono dei motivi validi per separare questa istanza dal resto dell'Io. Ciò che in questo caso impariamo a conoscere è l'istanza comunemente definita coscienza morale; la annovereremo, insieme alla censura della coscienza e all'esame di realtà, fra le grandi istituzioni dell'Io e troveremo anche il modo di dimostrare che può ammalarsi di per sé. Nel quadro morboso della melanconia emerge in primo piano, rispetto alle altre nmostranze, la riprovazione morale nei confronti del proprio Io; la valutazione di sé si basa assai più raramente su imperfezioni fisiche, bruttezza, debolezza, inferiorità sociale; solo l'impoveri

























mento assume una posizione di rilievo fra i timori o le dichiarazioni del malato.

La contraddizione che abbiamo prima enunciato [alla fine del penultimo capoverso] può esser chiarita da un'osservazione che peraltro non è difficile fare. Se si ascoltano con pazienza le molteplici e svariate autoaccuse del melanconico, alla fine non ci si può sottrarre all'impressione che spesso le più intense di esse si attagliano pochissimo alla persona del malato e che invece con qualche insignificante variazione si adattano perfettamente a un'altra persona che il malato ama, ha amato o dovrebbe amare. E ogniqualvolta procediamo a un'indagine fattuale, questa supposizione viene confermata. Rendendoci conto che gli autorimproveri sono in realtà rimproveri rivolti a un oggetto d'amore - e da questo poi distolti e riversati sull'Io del malato - abbiamo dunque in mano la chiave del quadro patologico della melanconia.

La donna che commisera fortemente il proprio marito per il fatto che costui è legato a una moglie così incapace, intende in realtà accusare il marito di incapacità, indipendentemente dal significato che a tale incapacità possa essere attribuito. Non c'è da meravigliarsi troppo se fra i rimproveri che si rovescia addosso il malato sono disseminati alcuni autentici autorimproveri; essi possono imporsi perché servono a occultare gli altri, e a rendere impossibile la comprensione di come stanno effettivamente le cose; del resto, anch'essi derivano dai pro e dai contro del conflitto amoroso che ha portato alla perdita dell'oggetto amato. Anche il comportamento degli ammalati diventa ora più comprensibile. Le loro "lamentele" sono "lagnanze", in accordo con l'antico significato della parola [
Klagen, in origine "lamentele" funebri, ha assunto poi il significato di "lagnanze" o "accuse": da cui il termine analogo Anklagen], non hanno pudore né cercano di nascondersi poiché tutto ciò che di umiliante dicono di sé stessi si riferisce in realtà a qualcun altro; e sono ben lungi dal dimostrare, nei confronti del proprio ambiente, quella docilità e sottomissione che sarebbe l'unico atteggiamento adeguato per persone così indegne. Al contrario sono individui estremamente molesti, che si comportano sempre come se fossero offesi e come se fosse stata loro arrecata una grave ingiustizia. Tutto ciò è possibile soltanto perché il loro modo di reagire continua a derivare da una costellazione psichica di rivolta, la quale poi, in virtù di un determinato processo, è evoluta fino a trasformarsi in contrizione melanconica.

Non è difficile ricostruire questo processo. All'inizio ebbe luogo una scelta oggettuale, un legame della libido a una determinata persona; sotto l'influsso di una reale mortificazione o di una delusione  [
einer realen Kränkung oder Enttäuschung] subita dalla persona amata, questa relazione oggettuale fu gravemente turbata. L'esito non fu già quello normale, ossia il ritiro della libido da questo oggetto e il suo spostamento su un nuovo oggetto, ma fu diverso e tale da richiedere, a quanto sembra, più condizioni per potersi produrre. L'investimento oggettuale si dimostrò scarsamente resistente e fu sospeso, ma la libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì riportata nell'Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu utilizzata per instaurare una identificazione dell'Io con l'oggetto abbandonato. L'ombra [Der Schatten] dell'oggetto cadde così sull'Io che d'ora in avanti poté esser giudicato da un'istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l'oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell'oggetto si era trasformata in una perdita dell'Io, e il conflitto fra l'Io e la persona amata in un dissidio fra l'attività critica dell'Io e l'Io alterato dall'identificazione. Alcuni dei presupposti e dei risultati di un processo di questo genere sono immediatamente individuabili. Se da un lato dev'essere stata presente una forte fissazione all'oggetto d'amore, d'altro lato, invece, l'investimento oggettuale deve aver avuto scarse capacità di resistenza. Secondo una calzante osservazione di Otto Rank questa contraddizione sembra rinviare al fatto che la scelta oggettuale si è attuata su basi narcisistiche, per cui l'investimento oggettuale può regredire al narcisismo se gli si fanno innanzi delle difficoltà. L'identificazione narcisistica con l'oggetto si trasforma poi in un sostituto dell'investimento amoroso; l'esito di ciò è che, nonostante il conflitto con la persona amata, non è necessario abbandonare la relazione d'amore. Una sostituzione di questo genere dell'amore oggettuale con un'identificazione costituisce un importante meccanismo delle affezioni narcisistiche; Karl Landauer ha potuto scoprirlo recentemente nel processo di guarigione di un caso di schizofrenia. Esso corrisponde ovviamente alla regressione da un tipo di scelta oggettuale al narcisismo originario. Abbiamo dimostrato altrove che l'identificazione è la fase preliminare della scelta oggettuale, e che essa è il primo modo, peraltro ambivalente nella sua espressione, con cui l'Io evidenzia un oggetto. L'Io vorrebbe incorporare in sé tale oggetto e, data la fase orale o cannibalesca della propria evoluzione libidica, vorrebbe incorporarlo divorandolo. Abraham è certamente nel giusto quando ricorre a questo nesso per spiegare il rifiuto di nutrirsi che compare nelle forme gravi di melanconia.

La conclusione alla quale ci obbligherebbe la teoria - e cioè che la disposizione (o parte di essa) ad ammalarsi di melanconia dipende dalla preponderanza del tipo narcisistico di scelta oggettuale - purtroppo non è ancora suscettibile di conferma sperimentale. Nelle proposizioni introduttive di questo saggio ho riconosciuto che il materiale empirico su cui si basa il mio studio non è sufficiente per le nostre esigenze. Se ci fosse lecito supporre una concordanza dell'osservazione con le nostre deduzioni, non esiteremmo a includere, nella nostra caratterizzazione della melanconia, la regressione dall'investimento oggettuale alla fase orale della libido (fase che appartiene ancora al narcisismo). Le identificazioni con l'oggetto non sono affatto rare neppure nelle nevrosi di traslazione; anzi sono un meccanismo ben noto della formazione dei sintomi, specialmente nell'isteria. Tuttavia, la differenza fra l'identificazione narcisistica e quella isterica può essere ravvisata in questo: mentre nella prima l'investimento oggettuale viene abbandonato, nella seconda esso permane e produce un effetto che abitualmente resta confinato a determinate azioni e innervazioni singole. In ogni caso, anche nelle nevrosi di traslazione l'identificazione esprime una comunanza che può significare amore. L'identificazione narcisistica è la più primitiva e ci prepara a comprendere l'identificazione isterica, meno profondamente studiata.

























La melanconia, dunque, deriva una parte delle proprie caratteristiche dal lutto e l'altra parte dalla regressione che procede dalla scelta oggettuale di tipo narcisistico al narcisismo. Da un lato la melanconia è, come il lutto, una reazione alla perdita effettiva dell'oggetto d'amore, ma, al di là di questo, essa è ancorata a una condizione che nel lutto normale non compare, o, quando compare, lo trasforma in lutto patologico: la perdita dell'oggetto d'amore diventa un'ottima occasione per far valere e mettere in rilievo l'ambivalenza insita nella relazione amorosa. Laddove è presente una disposizione alla nevrosi ossessiva il conflitto dovuto all'ambivalenza conferisce al lutto una configurazione patologica e lo costringe a manifestarsi sotto forma di auto-rimproveri secondo i quali il soggetto è responsabile - ossia ha voluto - la perdita dell'oggetto d'amore. Questi stati di depressione ossessiva susseguenti alla morte di una persona amata ci mostrano ciò di cui è capace di per sé il conflitto dell'ambivalenza, anche quando non è associato al ritiro regressivo della libido. Nella melanconia, le occasioni che danno luogo allo scoppio della malattia, vanno perlopiù al di là del semplice caso di una perdita dovuta alla morte, e si estendono a tutti quei casi di mortificazione, di sensazione di aver subito un torto, di delusione, che o generano un contmsto fra l'amore e l'odio o possono rafforzare un'ambivalenza già esistente. Fra i presupposti della melanconia non va trascurato questo conflitto dovuto all'ambivalenza, di origine ora piu' reahstica, ora piu' determinata da fattori costituzionali. Quando l'amore per un oggetto si è rifugiato nell'identificazione narcisistica - ma si tratta di un amore a cui non si può rinunciare nonostante si sia rinunciato all'oggetto stesso - accade che l'odio si metta all'opera contro questo oggetto sostitutivo oltraggiandolo, denigrandolo, facendolo soffrire e derivando da questa sofferenza un sadico soddisfacimento. L'autotormentarsi del melanconico, certamente foriero di godimento, significa, proprio come il fenomeno corrispondente della nevrosi ossessiva, il soddisfacimento di tendenze sadiche o di odio; tali tendenze si riferiscono a un determinato oggetto e hanno trovato il modo di applicarsi alla persona stessa del soggetto nel modo che abbiamo enunciato. Comunque, in entrambe queste affezioni, i malati riescono abitualmente a prendersi le loro rivincite (per la via indiretta dell'autopunizione) sugli oggetti originari, e a tormentare i loro cari per il tramite della malattia nella quale si sono rifugiati onde non dover manifestare direttamente la propria ostilità. Va detto infatti che la persona che ha suscitato il perturbamento emotivo del malato, e in relazione alla quale è orientata la sua sofferenza, si trova in generale fra coloro che a lui sono più vicini. In tal modo l'investimento amoroso del melanconico per il suo oggetto incorre in un duplice destino: una parte regredisce all'identificazione mentre l'altra parte è riportata, sotto l'influsso del conflitto d'ambivalenza, fino allo stadio del sadismo che a quel conflitto è più vicino.

Solo questo sadismo ci spiega l'enigmatica inclinazione al suicidio che rende così interessante la melanconia, e la fa diventare così pericolosa. Tanto enorme è l'amore che l'lo porta a sé stesso, amore nel quale abbiamo individuato la condizione originaria da cui deriva la vita pulsionale, e talmente spropositato è l'importo di libido narcisistica che vediamo sprigionarsi nell'angoscia di fronte a tutto ciò che minaccia l'esistenza dell'Io, che non riusciamo a capacitarci che questo Io possa consentire alla propria distruzione. È ben vero, e lo sappiamo da tempo, che non esiste nevrotico i cui propositi suicidi non si siano determinati a partire da impulsi omicidi diretti su qualche altra persona; tuttavia non riusciamo a capire attraverso quale giuoco di forze tale proposito possa tradursi in atto. Ebbene, l'analisi della melanconia ci insegna che l'Io può uccidersi solo quando, grazie al ritorno dell'investimento oggettuale, riesce a trattare sé stesso come un oggetto, quando può dirigere contro di sé l'ostilità che riguarda un oggetto e che rappresenta la reazione originaria dell'Io rispetto agli oggetti del mondo esterno. Così, nella regressione che parte da una scelta oggettuale di tipo narcisistico è avvenuta certamente una rinuncia all'oggetto, il quale si è rivelato però più forte dell'lo stesso. Nelle due situazioni opposte dell'innamoramento più intenso e del suicidio l'Io è sopraffatto dall'oggetto, seppure in guise completamente differenti.

Sembra inoltre plausibile far risalire una caratteristica particolarmente vistosa della melanconia - il rilievo che assume in essa l'angoscia di diventare poveri - all'erotismo anale, avulso dal suo contesto e alterato per via regressiva.

La melanconia ci pone di fronte ad altri interrogativi ancora, la cui risposta in parte ci sfugge. Essa condivide con il lutto la peculiarità di risolversi dopo un certo periodo di tempo, senza lasciare dietro di sé alterazioni consistenti e accertabili. A proposito del lutto abbiamo scoperto che è necessario un certo lasso di tempo affinché l'imperativo dell'esame di realtà possa imporsi in tutto e per tutto; e che, quando quest'opera è terminata, l'Io può ridisporre della libido liberatasi dall'oggetto perduto. Possiamo suppore che nella melanconia l'Io sia occupato in un lavoro analogo, anche se, né in questo caso né in quello del lutto, riusciamo a comprendere il significato economico di tali eventi. L'insonnia tipica della melanconia testimonia la rigidità di questa malattia, l'impossibilità di effettuare quel ritiro generalizzato degli investimenti che è necessario affinché si instauri il sonno. Il complesso melanconico si comporta come una ferita aperta che attira su di sé da tutte le parti energie di investimento (energie che nelle nevrosi di traslazione abbiamo chiamato "controinvestimenti") e svuota l'Io fino all'impoverimento totale; tale complesso può facilmente dimostrarsi refrattario al desiderio di dormire proprio dell'Io.

Un fattore presumibilmente somatico, e di cui non è possibile fornire una spiegazione psicogenetica, si manifesta nella regolare attenuazione dello stato melanconico nelle ore serali. In relazione a queste considerazioni si pone il problema se una perdita dell'Io senza alcun riguardo per l'oggetto (una mera ingiuria narcisistica subita dall'Io) possa  esser  sufficiente a determinare  il quadro  della melanconia, e se un impoverimento della libido dell'Io, dovuto direttamente a cause tossiche, non possa dar luogo a determinate forme di questa malattia.

La caratteristica più singolare della melanconia, e quella che più di tutte necessita di una spiegazione, è la sua tendenza a convertirsi in mania, stato ad essa opposto dal punto di vista dei sintomi. Com'è noto, non ogni forma di melanconia va incontro a un destino siffatto. Alcuni casi sono soggetti a periodiche recidive, e durante gli intervalli o i sintomi della mania non compaiono affatto o sono appena accennati. In altri casi si manifesta invece quel regolare alternarsi di fasi melanconiche e fasi maniacali che ha fatto pensare a una follia ciclica. Saremmo tentati di non prendere in considerazione questi casi sotto il profilo psicogeno; sennonché la psicoanalisi è riuscita a risolvere o a influenzare terapeuticamente proprio parecchie forme morbose di questo tipo. Dunque non solo ci è consentito, ma addirittura ci viene imposto di estendere la spiegazione analitica della melanconia anche alla mania.





Non posso promettere che questo tentativo sarà completamente soddisfacente. È anzi difficile che esso possa spingersi oltre un primo orientamento. Disponiamo però di due punti d'appoggio, di cui il primo è un'impressione psicoanalitica, mentre il secondo, possiamo ben dirlo, è un'esperienza universale di natura economica. L'impressione, della quale hanno già parlato parecchi psicoanalisti, è che la mania non ha un contenuto diverso dalla melanconia, che entrambe le affezioni lottano contro il medesimo "complesso"; presumibilmente nella melanconia l'Io ne è stato sopraffatto, mentre nella mania riesce a padroneggiarlo o a metterlo da parte. L'altro punto d'appoggio ci è fornito dall'esperienza che in tutti gli stati come la gioia, il giubilo, il trionfo - che costituiscono per noi il normale prototipo della mania - si ravvisa lo stesso fattore determinante di tipo economico. In questi casi avviene qualcosa che fa sì che un grande spiegamento di energia psichica, sostenuto a lungo o trasformatosi in abitudine, a un certo momento diventi superfluo, talché questa energia è resa disponibile per molteplici impieghi e possibilità di scarica. Ciò si verifica ad esempio quando un povero diavolo è sollevato improvvisamente - perché gli piove addosso una grande quantità di denaro - dalla cronica preoccupazione per il pane quotidiano; o quando una lotta lunga e difficile è coronata infine dal successo; o quando, d'un tratto, riusciamo a liberarci da una pesante costrizione o da una posizione falsa in cui avevamo indugiato a lungo; e così di seguito. Tutte queste situazioni sono caratterizzate da un umore allegro, dai segni di scarica dati da un affetto gioioso e da un'accresciuta disponibilità a compiere ogni sorta di atti proprio come nella mania, e in assoluto contrasto con la depressione e l'inibizione tipiche della melanconia. Possiamo azzardarci a dire che la mania non è altro che un trionfo di questo genere, solo che anche questa volta l'Io ignora quali prove ha superato e perché sta cantando vittoria. Anche l'ubriachezza, che appartiene al medesimo ordine di fenomeni - sempre che si tratti di un'ebbrezza ilare - può essere valutata allo stesso modo. Presumibilmente in questo caso avviene una sospensione, ottenuta per vie tossiche, del dispendio di energie rimoventi. I profani sono inclini a supporre che in situazioni maniacali siffatte si ha tanta voglia di muoversi e di fare perché ci si sente "proprio a posto". Questo falso nesso va ovviamente dissolto. Il fatto è che nella vita psichica è stata realizzata la condizione di natura economica di cui abbiamo parlato; perciò si è di umore così gaio da un lato, e così disinibiti nel fare dall'altro.

Dall'accostamento di entrambe le indicazioni risulta quanto segue: nella mania l'Io dev'essere riuscito a superare la perdita dell'oggetto (o il lutto per tale perdita o magari l'oggetto in sé), e ora tutto l'ammontare di controinvestimenti che la dolorosa sofferenza della melanconia aveva attinto dall'Io per attrarlo e vincolarlo a sé si rende nuovamente disponibile. Il maniaco ci dimostra inequivocabilmente di essersi liberato dell'oggetto che lo aveva fatto soffrire anche perché si getta come un affamato alla ricerca di nuovi investimenti oggettuali.

Questa spiegazione, pur sembrando attendibile, è innanzitutto troppo indeterminata; in secondo luogo suscita un numero di interrogativi e dubbi maggiore di quanti siamo in grado di risolverne. Non intendiamo sottrarci alla discussione di questi ultimi anche se non possiamo attenderci di trovare con ciò la strada della chiarezza.

Va detto subito che anche il normale lutto supera la perdita dell'oggetto e, finché dura, assorbe anch'esso tutte le energie dell'Io. Perché dunque, esauritosi il lutto, non si verifica neppure lontanamente la condizione necessaria all'instaurarsi di una fase di trionfo? Reputo impossibile dare una risposta immediata a questa obiezione. Grazie ad essa ci rendiamo conto di non riuscire neppure a indicare i procedimenti economici con cui il lutto porta a termine il proprio compito; tuttavia una congettura potrà forse servirci in questo frangente. In relazione a ciascuno dei ricordi e delle aspettative che dimostrano il legame della libido con l'oggetto perduto, la realtà pronuncia il verdetto che l'oggetto non esiste più, e l'lo, quasi fosse posto dinanzi all'alternativa se condividere o meno questo destino, si lascia persuadere - dalla somma dei soddisfacimenti narcisistici - a rimanere in vita, a sciogliere il proprio legame con l'oggetto annientato. Possiamo forse supporre che quest'opera di distacco proceda in modo talmente lento e graduale che, una volta espletata, anche la quantità di energia psichica necessaria a realizzarla si sia esaurita.

Ci alletta l'idea di trovare il modo di descrivere il lavoro della melanconia partendo da questa presunzione sul lavoro del lutto. Ma ci troviamo immediatamente di fronte a una perplessità. Fino a questo momento, trattando della melanconia, non abbiamo praticamente preso in considerazione il punto di vista topico né ci siamo domandati in quale dei sistemi psichici si svolga il lavoro della melanconia. Quale parte dei processi psichici di questa malattia si svolge ancora sul terreno degli inconsci investimenti d'oggetto a cui si è rinunciato, e quale parte si effettua invece sul terreno dei loro sostituti per identificazione, che albergano nell'Io


Potremmo rispondere subito e con facilità che "la rappresentazione inconscia (cosale) dell'oggetto  viene abbandonata dalla libido". In realtà, tuttavia, questa rappresentazione è adombrata da innumerevoli impressioni particolari (o da loro tracce inconsce), e inoltre l'attuarsi del processo di sottrazione libidica non avviene in un colpo solo, ma certamente, come nel lutto, attraverso un lungo e graduale processo. Se questo cominci simultaneamente in più punti o segua invece un ordine prestabilito qualsivoglia, non è facile dirlo. Nelle analisi si può osservare frequentemente che ora viene attivato questo ricordo, ora quello, e che le lamentele del paziente, sempre le stesse e stancanti nella loro monotonia, si sviluppano in realtà ogni volta da un diverso fondamento inconscio. Quando l'oggetto non ha per l'Io un'importanza così grande, rafforzata da innumerevoli e svariate connessioni, la sua perdita non si rivelerà idonea a sviluppare un lutto o una melanconia. Il graduale effettuarsi del distacco libidico è quindi un carattere che va attribuito sia al lutto sia alla melanconia; probabilmente esso trova un supporto nelle medesime circostanze di natura economica e si pone al servizio delle medesime tendenze.

Tuttavia, come abbiamo udito, la melanconia contiene qualcosa in più del normale lutto. Nella melanconia non è facile la relazione nei confronti dell'oggetto, che viene complicata dal conflitto dell'ambivalenza. L'ambivalenza può essere costituzionale, cioè propria di ogni relazione amorosa vissuta dall'Io, o può invece svilupparsi precisamente da quelle esperienze che implicano una minaccia di perdere l'oggetto. Perciò i motivi occasionali che provocano la melanconia possono estendersi in un ambito assai più vasto che non quelli del lutto, il quale di norma trae origine esclusivamente dalla perdita effettiva dell'oggetto, ovverosia dalla sua morte. Nella melanconia si intessono infatti, intorno all'oggetto, innumerevoli conflitti singoli nei quali infuriano l'uno contro l'altro l'odio e l'amore, l'uno inteso a svincolare la libido dall'oggetto, l'altro inteso a mantenere questa posizione libidica contro l'assalto che le viene mosso. Questi singoli conflitti non possiamo localizzarli in alcun altro sistema se non nell'inc, il regno delle tracce mnestiche delle cose (in antitesi con gli investimenti verbali). Proprio in questo sistema si svolgono anche i tentativi di distacco libidico propri del lutto. Ma a proposito di quest'ultimo non esiste alcun impedimento a che tali processi procedano normalmente attraverso il Prec per giungere fino alla coscienza. Questa via è invece sbarrata per il lavoro della melanconia, forse per una pluralità di cause o per l'azione congiunta che esse esercitano. L'ambivalenza costituzionale appartiene in sé e per sé al rimosso; gli eventi traumatici esperiti in relazione all'oggetto possono aver attivato altri elementi rimossi. In tal modo tutto ciò che si riferisce a questi conflitti di ambi valenza è sottratto alla coscienza fino a che non compare l'esito caratteristico della melanconia. Come sappiamo esso consiste nel fatto che l'investimento libidico minacciato abbandona finalmente l'oggetto, ma solo per ritirarsi e reinsediarsi nell'Io dal quale era stato esternato. Rifugiandosi nell'Io, l'amore si sottrae così alla dissoluzione. In seguito a questa regressione della libido il processo può diventare cosciente e si presenta al cospetto della coscienza come un conflitto fra una parte dell'Io e l'istanza critica.

Ciò che la coscienza viene a sapere del lavoro melanconico non è quindi l'elemento essenziale, e neppure quello al quale possiamo attribuire una capacità di porre termine alla sofferenza. Noi costatiamo che l'Io si svalorizza e infierisce crudelmente contro sé stesso, e non comprendiamo, come non lo comprende il malato, a qual fine tenda tutto ciò e come possa esser mutato. Possiamo tutt'al più attribuire una funzione di questo genere alla componente inconscia del lavoro melanconico poiché non è difficile rintracciare una analogia fondamentale fra quest'ultimo e il lavoro del lutto. Come il lutto induce l'Io a rinunciare all'oggetto dichiarandolo morto, e offrendo all'Io, in cambio di questa rinuncia, il premio di restare in vita, così ogni singolo conflitto d'ambivalenza allenta la fissazione libidica all'oggetto poiché lo denigra, lo svilisce e, in certo modo, lo distrugge. È possibile che il processo si concluda nell'inc, o dopo che la collera si è esaurita o dopo che l'oggetto è stato abbandonato perché privo di valore. Non sappiamo dire quale di queste due possibilità ponga fine invariabilmente, o con maggiore frequenza, alla melanconia e in che modo questa conclusione incida sull'ulteriore decorso del caso. Può darsi che l'Io provi la soddisfazione di sapersi migliore dell'oggetto, di potersi riconoscere come superiore ad esso.

Quand'anche fossimo disposti ad accettare questa concezione del lavoro melanconico, essa non ci fornirebbe quel chiarimento che ci eravamo proposti di raggiungere fin dall'inizio. Ci aspettavamo di poter far derivare dall'ambivalenza che domina la melanconia la condizione economica che determina l'insorgere della mania quando la melanconia ha esaurito la sua fase; e tale aspettativa poteva trarre sostegno da analogie ricavate da diversi altri ambiti. Esiste tuttavia una circostanza di fatto di fronte alla quale tale ipotesi deve recedere. Dei tre presupposti della melanconia - perdita dell'oggetto, ambivalenza e regressione della libido nell'Io - i primi due li ritroviamo nei rimproveri ossessivi susseguenti a casi di morte. In questi rimproveri l'ambivalenza rappresenta indubitabilmente la forza motrice del conflitto e l'osservazione permette di costatare che quando esso si risolve non resta nulla che faccia pensare al trionfo di una situazione maniacale. Siamo in tal modo rinviati al terzo presupposto della melanconia come all'unico fattore capace di incidere su ciò che viene dopo. Quell'accumulo di investimenti che dapprima è legato e poi diventa libero quando il lavoro melanconico si è concluso, consentendo lo svilupparsi della mania, deve essere in rapporto con la regressione libidica alla fase del narcisismo. Il conflitto all'interno dell'Io, che nella melanconia prende il posto della lotta riguardo all'oggetto deve agire come una ferita dolorosa che pretende un controinvestimento straordinariamente elevato. Ma a questo punto sarà bene arrestarsi e rinviare la delucidazione ulteriore della mania a quando avremo acquisito una chiara visione della natura psicologica innanzitutto del dolore fisico, e poi del dolore psichico ad esso analogo. Comunque sappiamo già che l'interdipendenza reciproca degli intricati problemi della psiche ci costringe a lasciare incompiuta ogni singola indagine fino a che i risultati di una indagine diversa non riescono a venirle in aiuto.




  
  

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