di Peter Fonagy
Attaccamento e processi di mentalizzazione
Nel suo fondamentale lavoro sul monitoraggio cognitivo e sul rapporto fra modelli di attaccamento singoli e multipli (per il concetto di "attaccamento", vedi la Tabella I alla fine di questo paragrafo), Mary Main (1991) ha proposto un modello della trasmissione dell'attaccamento sicuro che va oltre la semplice considerazione della sensibilità del genitore. Main (1991) ha mostrato che l'assenza di capacità metacognitive, cioè l'incapacità di "comprendere la natura meramente rappresentazionale del proprio pensiero (e di quello degli altri)" (p. 128) rende i bambini vulnerabili di fronte a un comportamento materno poco coerente. Essi non sono in grado di trascendere l'immediata realtà dell'esperienza e di arrivare a comprendere la differenza fra l'esperienza immediata e lo stato mentale che potrebbe essere sottostante. Main ha attirato la nostra attenzione sullo sviluppo nel bambino dello stato mentale definito da Dennett (1987) "atteggiamento intenzionale". Dennett pone l'accento sul fatto che gli esseri umani sono forse gli unici a cercare di comprendersi in termini di stati mentali: pensieri, sentimenti, desideri, credenze, al fine di attribuire significato all'esperienza e poter anticipare le reciproche azioni. E' evidente che attribuendo uno stato cognitivo o emotivo agli altri rendiamo il nostro comportamento comprensibile a noi stessi. Quando il bambino è in grado di attribuire il comportamento apparentemente distaccato e non responsivo della madre al suo (di lei) stato depressivo, piuttosto che alla propria cattiveria o alla propria incapacità di suscitare attenzione, è protetto, forse permanentemente, dalle ferite narcisistiche. Ancora più cruciale è forse la capacità del bambino di sviluppare rappresentazioni degli stati mentali, emotivi e cognitivi, che organizzino il suo comportamento nei confronti di chi si occupa di lui.
Tabella I. Per una migliore comprensione dell'articolo, viene qui fornita una breve presentazione di alcuni concetti della teoria dell'attaccamento, originariamente elaborata da John Bowlby (1907-1990). Per attaccamento si intende la condizione nella quale un individuo è legato emotivamente a un'altra persona, generalmente percepita come più forte e quindi rassicurante. Il rapporto bambino/madre come rapporto tra chi cerca e chi offre le cure è stato studiato come sistema comportamentale di attaccamento. La prova dell'esistenza dell'attaccamento viene dalla ricerca di prossimità (o vicinanza), dal fenomeno della base sicura e dalla protesta per la separazione. I principali modelli di attaccamento sono riassunti nella tabella qui sotto. Con Strange Situation si intende una particolare tecnica sperimentale di valutazione della qualità dell'interazione madre-bambino. Il modo in cui un bambino vive l'esperienza di separazione dalla madre fornisce importanti notizie circa il suo "modello di attaccamento", che influenza a sua volta il suo stile di personalità e di relazione. Un modo di studiare le caratteristiche dell'attaccamento è attraverso la somministrazione di uno strumento di valutazione, l'Adult Attachment Interview (AAI).
Principali tipi di attaccamento e di risposta alla separazione | Caratteristiche della risposta del bambino |
SICURO (TIPO B) | In genere angoscia di separazione all’atto del distacco. Al ritorno del genitore, saluta, riceve conforto e torna a giocare sereno. |
INSICURO EVITANTE (TIPO A) | Manifesta poca angoscia per la separazione, ignora la madre al momento della riunione e resta inibito nel gioco. |
INSICURO-AMBIVALENTE (TIPO C) | Fortemente angosciato dalla separazione, difficilmente tranquillizzato dalla riunione, cerca il contatto con rabbia e spesso respinge la madre; inibito il gioco esplorativo. |
INSICURO-DISORGANIZ-ZATO (TIPO D) | Reagisce alla separazione con comportamenti molto confusi e disorganizzati. |
Ci siamo proposti di operazionalizzare le differenze individuali degli adulti in quelle funzioni metacognitive che riteniamo potrebbero servire a colmare il "gap di trasmissione". Eravamo curiosi di sapere se il numero di osservazioni auto-riflessive sui propri stati mentali e su quelli degli altri nei protocolli dell'Adult Attachment Interview (AAI) potesse predire la sicurezza del bambino. Abbiamo scelto il termine "scala del Sé riflessivo" (reflective self-scale) [opposto a "scala della riflessione su se stessi" (self-reflection scale)] per sottolineare che siamo interessati tanto alla chiarezza delle rappresentazioni dell'individuo sugli stati mentali degli altri, quanto alle rappresentazioni relative al proprio stato mentale.
Come ci aspettavamo, i punteggi relativi alla riflessività del Sé si sono rivelati affidabili (con r intraclasse a partire da 0.8) e costituiscono un buon indice predittivo prenatale del comportamento del bambino nella Strange Situation. Sia i padri che le madri che avevano ottenuto un punteggio elevato in questa capacità avevano una probabilità tre o quattro volte maggiore di avere dei figli con attaccamento sicuro rispetto ai genitori con limitata capacità riflessiva (Fonagy et al., 1991).
La capacità di esercitare un controllo cognitivo può rivelarsi particolarmente importante quando il bambino è esposto a interazioni sfavorevoli, per esempio, nei casi estremi, abuso e trauma. Se manca la capacità di rappresentare le idee in quanto idee, il bambino è infatti costretto ad accettare le implicazioni del rifiuto dei genitori e a sviluppare un'immagine negativa di se stesso. Un bambino in grado di pensare agli stati mentali degli altri può anche pensare alla possibilità che il rifiuto da parte dei genitori possa essere basato su false credenze e pertanto sarà in grado di moderare l'impatto delle esperienze negative.
Abbiamo affrontato questo argomento somministrando, 18 mesi dopo aver completato l'AAI, una breve intervista strutturata ai genitori del nostro campione, intervista riguardante un numero di semplici indicatori dello stress familiare e della deprivazione che da studi precedenti si erano rivelati significativi rispetto a un incremento drammatico della probabilità di esiti negativi, inclusa l'eventualità di un attaccamento infantile insicuro. Gli indicatori presi in considerazione sono stati i seguenti: famiglie composte da un solo genitore, famiglie molto numerose, genitori disoccupati, ecc. Il campione è stato diviso tra coloro che avevano riferito di aver vissuto una significativa esperienza di deprivazione e coloro che invece non avevano riferito una simile esperienza. La nostra ipotesi era che le madri appartenenti al gruppo deprivato avrebbero avuto una maggiore probabilità di avere dei bambini con un attaccamento sicuro nel caso il punteggio delle madri alla scala del Sé riflessivo (capacità metacognitiva) fosse elevato.
Nel gruppo deprivato, 10 madri su 10 con punteggi di Sé riflessivo elevati avevano bambini con un attaccamento sicuro nei loro confronti, cosa che avveniva invece solo in 1 caso su 17 nel gruppo delle madri deprivate con punteggi di Sé riflessivo bassi. La funzione riflessiva del Sé sembrava costituire un indice predittivo meno importante per il gruppo non-deprivato. I nostri risultati implicano che le ripetizioni generazionali di precoci esperienze negative possono essere eliminate, e il ciclo svantaggioso interrotto, se il genitore acquisisce la capacità di rappresentare e riflettere in modo soddisfacente sull'esperienza mentale (Fonagy et al., 1994).
Monitoraggio metacognitivo e sviluppo del Sé
Il monitoraggio metacognitivo completa un aspetto del ciclo intergenerazionale. Non solo è più probabile che genitori con una elevata capacità riflessiva promuovano un attaccamento sicuro nei propri figli, in modo particolare nei casi in cui le loro stesse esperienze infantili siano state negative, ma anche che l'attaccamento sicuro possa rappresentare un precursore fondamentale di una solida capacità riflessiva (Fonagy et al., 1996).
Abbiamo raccolto a Londra una serie di dati, relativi a bambini dai 3 ai 5 anni, che sembrano indicare una forte correlazione fra sicurezza, misurata con uno strumento proiettivo (il Test Separazione/Ansia, SAT) e il precoce sviluppo di una teoria della mente (metacognizione), misurato ricorrendo a una prova di ragionamento su credenza e desiderio. I bambini che erano stati classificati come sicuri era più probabile che superassero i compiti della teoria della mente (Fonagy et al., in corso di stampa). In uno studio longitudinale condotto su 92 bambini, abbiamo trovato che dei 59 che avevano superato la prova a 5 anni, all'età di un anno il 66% aveva un attaccamento sicuro con la madre. Dei 29 che hanno fallito, solo il 31% era sicuro. L'attaccamento sicuro al padre è risultato meno significativamente associato con una buona competenza in questa prova. Sono emerse chiare indicazioni che la funzione riflessiva del Sé della madre è associata con il successo del bambino. L'80% dei bambini le cui madri erano oltre la media nella funzione riflessiva del Sé hanno superato la prova, mentre l'hanno superata solo il 56% di quelli le cui madri erano sotto la media.
Questi risultati suggeriscono che la capacità dei genitori di seguire il pensiero dei bambini facilita in questi la comprensione generale dei pensieri mediati dall'attaccamento sicuro. La disponibilità di un genitore riflessivo aumenta la probabilità che nel bambino si sviluppi un attaccamento sicuro, il quale, a sua volta, facilita lo sviluppo di una teoria della mente. Sulla scorta di questi studi noi assumiamo che una relazione di attaccamento sicuro fornisca il contesto ideale al bambino per esplorare la mente del genitore, poiché, come ci ha insegnato Hegel (1807), è solo attraverso la conoscenza della mente dell'altro che il bambino sviluppa il pieno possesso della natura degli stati mentali. Tale processo è intersoggettivo: il bambino giunge a conoscere la mente del genitore così come il genitore cerca di comprendere e contenere gli stati mentali del bambino.
Nel comportamento della madre, il bambino percepisce non solo la sua (di lei) attitudine di riflessività, che egli inferisce allo scopo di spiegare il suo (di lei) comportamento, ma percepisce anche, nell'attitudine del genitore, una immagine di se stesso come in grado di mentalizzare, desiderare e avere delle opinioni. Egli vede che il genitore ha di lui una rappresentazione come essere intenzionale. E' questa rappresentazione che viene internalizzata per formare il Sé. "Penso, dunque esisto" non può funzionare come modello psicodinamico della nascita del Sé; "La mamma pensa a me come a qualcuno che pensa e dunque io esisto come essere pensante" è la formulazione probabilmente più vicina al vero.
Se la capacità riflessiva mette il genitore in grado di comprendere con cura le attitudini intenzionali del bambino, il bambino avrà l'opportunità di "trovare se stesso nell'altro" come soggetto capace di mentalizzare. Se la capacità del genitore è carente sotto questo aspetto, la visione di sé che il bambino si formerà sarà quella di una persona concepita come pensante in termini di realtà fisica piuttosto che di stati mentali.
Note sullo sviluppo patologico basate sul modello dialettico
Un bisogno fondamentale del bambino è quello di ritrovare i propri pensieri, le proprie intenzioni, nella mente dell'oggetto. Per il bambino, l'internalizzazione di questa immagine esercita una funzione di "contenimento", descritta da Winnicott come "restituire al bambino il proprio Sé" (Winnicott, 1967). Il fallimento di questa funzione porta a una disperata ricerca di modalità alternative di contenere i pensieri e gli intensi sentimenti che essi generano.
La nostra ipotesi è che la ricerca di modalità alternative di contenimento mentale possa produrre soluzioni patologiche, fra cui il prendere la mente dell'altro, con la sua distorta, assente o maligna immagine del bambino, come parte integrante del proprio senso di identità. Winnicott (1967) ha scritto: "Cosa vede il bambino quando guarda in faccia la madre?... Quando la madre guarda il bambino il modo in cui lei gli appare è legato a ciò che lei vede in lui... [ma cosa dire] del bambino la cui madre riflette il proprio stato d'animo o, ancora peggio, la rigidità delle sue stesse difese...? La madre e il bambino si guardano e il bambino non vede se stesso... ciò che vede è il volto della madre".
Quest'immagine diviene poi il germe di un oggetto potenzialmente persecutorio che ha sede nel Sé, ma è estraneo e non assimilabile; si presenterà il disperato desiderio di separazione nella speranza di stabilire un'identità o un'esistenza autonoma. Tuttavia, tragicamente, questa identità è imperniata su uno stato mentale che non può riflettere la mutevolezza degli stati emotivi e cognitivi dell'individuo, dal momento che è basata su una rappresentazione arcaica dell'altro.
Paradossalmente, quando la ricerca di rispecchiamento e contenimento del bambino non ha avuto esiti positivi, la successiva spinta verso la separazione darà luogo solo a un movimento verso la fusione. Più l'individuo cerca di essere se stesso, più diventa simile al suo oggetto, perché questo è parte della struttura del Sé. Secondo noi, ciò spiega le oscillazioni dei pazienti borderline, fra il desiderio di indipendenza e il terrificante desiderio di una vicinanza estrema e di un'unione fantasticata. Dal punto di vista evolutivo, una crisi nasce quando la spinta proveniente dall'esterno verso la separazione diviene irresistibile, nella tarda adolescenza o nella prima età adulta. In quel periodo, il comportamento autodistruttivo e, nei casi estremi, suicidario è percepito come l'unica soluzione all'insolubile dilemma: la liberazione del Sé dagli altri attraverso la distruzione degli altri nel Sé.
In alcune persone, per le quali la condizione di separatezza è un problema cronico, crediamo che l'esperienza di Sé (self-hood) possa essere raggiunta solo trovando un altro fisico su cui "l'altro interno al Sé" possa essere proiettato. Naturalmente, questo aumenta il bisogno della presenza fisica dell'oggetto. E' per questo che molte di queste persone trovano particolarmente difficile lasciare la famiglia e se, alla fine, riescono a raggiungere la separazione fisica è solo perché hanno trovato una figura alternativa simile su cui proiettare "l'altro interno al Sé". Se quest'altro muore o abbandona il soggetto, può innescarsi un processo patologico di lutto, per il quale l'individuo si trova costretto a conservare un'immagine vivente dell'altro, allo scopo di conservare l'integrità del Sé.
Un altro possibile esito dovuto allo scarso sviluppo del Sé psicologico, con conseguente conflitto di separazione, è che il corpo può essere usato per contenere e agire stati mentali. In questi casi il corpo del bambino assume la funzione di metarappresentazione di sentimenti, idee e desideri. La violenza del Sé verso il proprio corpo (per esempio l'automutilazione, cioè l'infliggersi dei tagli) o quello degli altri [aggressioni apparentemente non provocate o "violenze gratuite" (mindless violence)] può essere un modo di "controllare" stati mentali investiti in stati del corpo (ad esempio, la madre vista come parte del proprio corpo) o di distruggere "idee" vissute come dentro il corpo dell'altro (Fonagy & Target, 1995).
Se il bambino non troverà un altro contesto interpersonale dove essere concepito come capace di mentalizzare, il suo potenziale in questo aspetto non sarà soddisfatto. Nei casi di relazioni con genitori ostili o del tutto assenti affettivamente, il bambino può deliberatamente allontanarsi dall'oggetto mentalizzante perché prendere in considerazione la mente di quell'oggetto può rivelarsi intollerabile, come se esso ospitasse intenzioni apertamente ostili verso il Sé del bambino. Questo potrebbe portare a un generale evitamento degli stati mentali che in seguito riducono la possibilità di identificare e stabilire legami intimi con un oggetto comprensivo.
Come mostrano gli studi sulla vulnerabilità alla patologia, anche una singola relazione di attaccamento sicuro può essere sufficiente allo sviluppo di processi riflessivi e quindi a "salvare" il bambino. Il monitoraggio metacognitivo è biologicamente preparato ed emergerà spontaneamente, a meno che il suo sviluppo venga inibito dal doppio svantaggio dell'assenza di una relazione sicura e dell'esperienza di maltrattamenti nel contesto di una relazione intima. Non anticipiamo che il trauma al di fuori del contesto di un legame di attaccamento avrebbe pervasivi effetti inibitori sulla mentalizzazione. E' perché la teoria della mente o, in senso più ampio, la funzione riflessiva del Sé evolve nel contesto di intense relazioni interpersonali, che la paura della mente di un altro può avere conseguenze così devastanti sull'emergere della comprensione sociale. Per illustrare le ripercussioni cliniche di questo modello, può essere utile considerare il disturbo borderline di personalità dal punto di vista della teoria dell'attaccamento.
Un modello transgenerazionale dei disturbi borderline di personalità
Molti recenti studi e ricerche dimostrano che l'abuso infantile sia trasmissibile attraverso le generazioni. Oliver (1993), dopo aver fatto una rassegna di 60 studi, principalmente inglesi e statunitensi, ha concluso che circa un terzo dei bambini vittima di abuso diviene un genitore non adeguato e spesso violento. E' stato rilevato uno specifico legame tra una storia di maltrattamenti infantili e il disturbo di personalità, e l'abuso sessuale vi è implicato in maniera particolare. In breve, da bambini i soggetti borderline hanno genitori che rientrano essi stessi nel cosiddetto "spettro borderline". L'aspetto dell'eredità sociale del disturbo borderline potrebbe rappresentare un aspetto importante nella nostra comprensione del disturbo.
Con George Moran e Mary Target (Fonagy et al., 1993) ho elaborato una formulazione della teoria dell'attaccamento dei gravi stati narcisistici e di quelli borderline basata sui risultati epidemiologici che mostrano un'associazione tra una grave patologia della personalità e un'esperienza infantile di maltrattamenti e violenza sessuale. Abbiamo ipotizzato che i soggetti borderline siano quelli che hanno "affrontato" un'esperienza di violenza (sessuale) infantile rifiutando di concepire i contenuti della mente dei loro genitori e che in seguito hanno "evitato di pensare" che i loro genitori intendessero far loro del male. Essi non sviluppano la capacità di rappresentare sentimenti e pensieri dentro se stessi e negli altri. Ciò fa sì che si basino su impressioni schematiche di pensieri e sentimenti e che siano estremamente vulnerabili in tutte le relazioni intime.
Molti sintomi delle persone con disturbo borderline di personalità possono essere compresi in termini di strategie difensive che compromettono i processi di mentalizzazione e le capacità metacognitive:
1. La loro incapacità a tener conto dell'attuale stato mentale dell'ascoltatore rende difficile seguire le loro associazioni.
2. L'assenza di preoccupazione per gli altri che si manifesta con comportamenti crudeli e violenti nasce dall'incapacità di rappresentarsi la sofferenza nella mente degli altri. Non è pertanto presente un fondamentale elemento moderatore dell'aggressività. La mancanza di capacità riflessiva, unita a una visione del mondo come ostile, predispone al maltrattamento dei figli; questa inibizione può rappresentare una componente necessaria di qualsiasi forma di violenza contro le persone. L'addestramento militare ha lo scopo manifesto di trasformare gli uomini in macchine e il nemico in un oggetto inanimato e subumano; percepire l'altro come essere dotato di pensiero e sentimento pone dei freni all'esercizio della violenza.
3. Il loro fragile senso del Sé (la "diffusione d'identità", per ricorrere alla terminologia di Kernberg) può essere una conseguenza dell'incapacità di rappresentarsi i propri sentimenti, credenze e desideri con una chiarezza sufficiente a fornire un intimo senso di se stessi come entità mentali. Ciò genera in tali individui intollerabili paure di disintegrazione mentale e un senso del Sé disperatamente fragile.
4. L'immagine mentale che tali pazienti hanno dell'oggetto rimane a un livello di dipendenza dal contesto immediato delle rappresentazioni primarie. Essi avranno bisogno della presenza concreta dell'oggetto e sperimenteranno profonde difficoltà nel momento in cui si troveranno a dover affrontare un cambiamento.
5. Essere in grado di pensare in termini di "come se" nel transfert richiede meta-rappresentazioni, ovvero la capacità di credere in qualcosa essendo consapevoli della sua non veridicità. La psicoterapia implica una capacità di simulazione e quando questa manca l'individuo agisce i propri impulsi (acting out).
Associazione fra tipo di attaccamento e personalità borderline
In una ricerca tuttora in corso (Fonagy et al., 1995b), abbiamo somministrato l'AAI a un campione di 85 pazienti non psicotici ricoverati presso il Cassell Hospital di Londra, un'istituzione gestita secondo un orientamento psicoanalitico. Sulla base di un'intervista diagnostica strutturata (SCID-II), circa il 40% dei pazienti è rientrato nei criteri diagnostici per il disturbo borderline di personalità. La distribuzione dei tipi di attaccamento, cui siamo giunti del tutto indipendentemente dal processo diagnostico, non ha evidenziato una netta distinzione tra il disturbo borderline e altre diagnosi di disturbo di personalità, ma il numero di sovrapposizioni, in modo particolare del sottotipo B3, era tuttavia molto superiore a quello che ci saremmo aspettati in base al caso (75%).
Le interviste dei pazienti borderline si differenziavano comunque per una combinazione di tre caratteristiche:
1) racconti più frequenti di episodi di violenza sessuale;
2) punteggio significativamente inferiore sulla scala del Sé riflessivo;
3) punteggio significativamente più alto rispetto al mancato superamento dell'esperienza di abuso, ma non sulla scala del sentimento di deprivazione e danno.
Questi risultati concordano con la nostra ipotesi che i soggetti che hanno affrontato nell'infanzia una grave esperienza di maltrattamento, con conseguente inibizione della funzione riflessiva del Sé, abbiano minori probabilità di superare l'esperienza dell'abuso ed è più facile che sviluppino una patologia borderline.
I maltrattamenti infantili possono o meno avere delle conseguenze a lungo termine, e gli elementi che determinano gli esiti di tali esperienze si conoscono solo in parte. E' nostra convinzione che se i bambini sono maltrattati, ma hanno la possibilità di sperimentare una relazione d'attaccamento significativa che fornisce la base interpersonale per lo sviluppo della capacità di mentalizzazione, essi saranno in grado di elaborare positivamente la loro esperienza e l'abuso non sfocerà in un disturbo grave della personalità.
Non ci attendiamo che i processi autoriflessivi proteggano i bambini da disturbi psichiatrici episodici, come la depressione; i dati epidemiologici suggeriscono che le vittime del maltrattamento infantile sono ad alto rischio rispetto a molte forme di disturbi di Asse I. Quando il bambino maltrattato non ha un sostegno sociale sufficientemente valido perché si sviluppi un legame d'attaccamento che possa fornire il contesto per l'acquisizione di un'adeguata capacità di comprendere lo stato psicologico dell'altro nelle più importanti relazioni interpersonali, l'esperienza dell'abuso non potrà divenire oggetto di riflessione o essere risolta. Naturalmente l'esperienza di abuso non risolta rende meno probabile lo sviluppo di relazioni significative, il che, a sua volta, riduce ulteriormente la possibilità di una soddisfacente risoluzione dell'esperienza disturbante attraverso l'uso dei processi riflessivi. E' infatti probabile che si stabilisca un pattern che comporta una generalizzazione della sospettosità e della sfiducia, portando ad allontanarsi dallo stato mentale degli oggetti più significativi e lasciando la persona priva di qualsiasi contatto umano. Ciò può spiegare la "bisognosità" (neediness ) degli individui con un disturbo borderline di personalità; tuttavia, non appena essi sono coinvolti in una relazione con un'altra persona, l'inibizione della capacità di mentalizzare genera in loro una terribile confusione, portandoli al caos nelle relazioni interpersonali. La loro inadeguata funzione di mentalizzazione li conduce infatti in breve al fallimento: essi regrediscono allo stato intersoggettivo dello sviluppo della rappresentazione mentale e non sono più in grado di differenziare le proprie rappresentazioni mentali da quelle degli altri ed entrambe dalla realtà. Questi processi si combinano tra loro e tali soggetti sono terrorizzati dai propri pensieri sugli altri esperiti negli altri (attraverso la proiezione), in modo particolare i loro impulsi e le fantasie aggressive; così molto spesso essi rifiutano il loro oggetto o fanno in modo di esserne rifiutati. La psicoanalisi o la psicoterapia possono spezzare questo circolo vizioso rinforzando la capacità riflessiva.
Crimine, violenza e attaccamento
Come nel caso dei pazienti borderline, una storia di maltrattamento è presente nell'80-90% dei giovani delinquenti, e circa un quarto di coloro che hanno una storia di grave maltrattamento è probabile incorrano in condanne penali (Lewis, 1989). Abbiamo avanzato l'ipotesi che l'attaccamento sia a persone sia a istituzioni sociali possa ridurre il rischio di comportamenti delinquenziali e che i processi di adattamento siano seriamente compromessi dal maltrattamento subito nell'infanzia. Più precisamente, se l'attaccamento alla persona che fornisce le cure primarie è intimamente legato all'acquisizione della capacità riflessiva, la figura genitoriale può costituire un elemento chiave nel determinare la predisposizione al comportamento criminale, in particolare agli atti di violenza. Possiamo supporre che questi individui, che non sono mai stati coinvolti in relazioni interpersonali facilitanti l'acquisizione di una capacità riflessiva o che sono stati esposti a un ambiente familiare in cui l'unica modalità di sperimentare l'attaccamento era l'inibizione dei processi di mentalizzazione, abbiano maggiori possibilità di sviluppare forme di attaccamento non sicuro e di manifestare scarse capacità riflessive, rimuovendo tutte le inibizioni nei confronti di attività violente e criminali: essere in grado di figurarsi lo stato mentale della potenziale vittima può essere essenziale nell'evitare azioni che possono deliberatamente ferire altri membri del nostro gruppo sociale (o della nostra specie). Per mettere alla prova queste idee, Levinson e Fonagy (lavoro in preparazione) hanno raccolto le AAI di ventidue detenuti (condannati o rinviati a giudizio con una diagnosi psichiatrica) e le hanno appaiate a due gruppi di controllo per età, sesso, classe sociale e Quoziente di Intelligenza: un gruppo di controllo costituito da pazienti psichiatrici ricoverati, accomunati dalla diagnosi (Asse I/II) e un normale gruppo di controllo raccolto in un dipartimento medico.
I risultati possono essere sintetizzati come segue:
1. Nel gruppo di controllo normale c'erano attaccamenti significativamente più sicuri, ma i due gruppi clinici non differivano rispetto al livello globale di sicurezza.
2. Il 36% del gruppo dei detenuti e il 14% del gruppo psichiatrico venne classificato come "evitante" (dismissing).
3. Il 45% dei detenuti e il 64% dei pazienti psichiatrici venne classificato "preoccupato" (preoccupied), mentre solo il 14% dei gruppi di controllo non criminali riceveva questa classificazione.
4) L'82% dei pazienti psichiatrici, ma solo il 36% dei detenuti e lo 0% del gruppo di controllo non clinico ricevette una classificazione "irrisolto" (unresolved).
5) L'82% dei detenuti e solo il 36% dei pazienti psichiatrici e solo il 4% dei normali furono classificati come vittime di abuso (in entrambi i gruppi clinici due terzi degli abusi erano fisici, un terzo sessuale).
6) Il numero di coloro che non avevano ricevuto cure adeguate (trascuratezza, neglect) era maggiore nel gruppo dei detenuti, ma l'esperienza di essere stati rifiutati era più spesso riportata dai pazienti psichiatrici.
7) La rabbia, al momento dell'intervista, per le figure d'attaccamento era un dato costante nei pazienti psichiatrici, ma relativamente maggiore nei detenuti.
8) I detenuti avevano punteggi significativamente più bassi nella scala della funzione riflessiva (RSF), punteggi più bassi sia rispetto a quelli dei pazienti psichiatrici sia del gruppo non clinico, ma i punteggi RSF di quest'ultimo erano significativamente più elevati di quelli dei pazienti psichiatrici.
9) Quando il gruppo dei detenuti fu diviso tra coloro che si erano resi responsabili di atti violenti (omicidio, violenza sulla persona, molestie sessuali a bambini) e i non violenti (furti, truffe e ricettazione), il punteggio della riflessività del primo gruppo risultò significativamente più basso di quello del secondo.
Questi risultati sono coerenti con la nostra ipotesi che il comportamento criminale si sviluppi nel contesto di legami deboli con persone e istituzioni sociali e di un allontanamento abbastanza precoce dagli oggetti di attaccamento. Il comportamento criminale può essere considerato come un metodo socialmente non adeguato di risolvere il trauma e l'abuso (presente nella quasi totalità del nostro piccolo campione). Le azioni violente sono agite in sostituzione della rabbia derivante dall'essere stati trascurati, abbandonati e maltrattati. Questo è solo uno studio pilota; i risultati, tuttavia, sono promettenti, poiché dimostrano il legame tra le narrazioni relative all'attaccamento e la natura del crimine commesso. Una spiegazione alternativa alla nostra potrebbe naturalmente essere che siano stati questi crimini a causare la disorganizzazione del sistema di attaccamento e che sia stato l'impatto psicologico del crimine a connotare le interviste del gruppo violento. I crimini meno gravi possono avere avuto un impatto minore sulla rappresentazione delle relazioni.
Psicoterapia e processi di mentalizzazione
La psicoanalisi clinica si occupa inevitabilmente di individui resi dalle passate esperienze vulnerabili allo stress e alla ripetizione di precoci esperienze negative. Il trattamento impone un atteggiamento non pragmatico di elaborazione mentale; ciò stimola lo sviluppo della funzione autoriflessiva e può, a lungo termine, ridurre la vulnerabilità generale dell'individuo, dandogli modo di poter esercitare maggior controllo sul sistema di rappresentazione delle relazioni.
Tali adattamenti graduali e costanti facilitano lo sviluppo di un mondo interno nel quale si possa sperimentare il comportamento degli altri come comprensibile, significativo, prevedibile e specificamente umano. Questo riduce la necessità di scindere e rigettare le rappresentazioni mentali incoerenti e temute degli stati mentali, agevolando l'integrazione di nuove esperienze di altre menti nel contesto della rappresentazione delle relazioni passate.
Il bambino abusato che evita il mondo mentale non acquisisce mai un metacontrollo adeguato sul mondo rappresentazionale dei modelli interni di elaborazione. Modelli insoddisfacenti di relazione emergono frequentemente: il mondo interno del bambino e quello dell'adulto vengono dominati da un affetto negativo. La sospettosità rinforza la strategia di evitamento della mentalizzazione, distorcendo pertanto ulteriormente il normale sviluppo di una funzione riflessiva. Preso in un circolo vizioso di angosce paranoidi e di esagerate manovre difensive, l'individuo diventa inestricabilmente invischiato in un mondo interno dominato da oggetti pericolosi, malvagi e soprattutto privi di pensiero. Egli ha rifiutato lo stesso processo che avrebbe potuto tirarlo fuori dalla propria condizione, cioè la capacità di riflettere sugli stati mentali. Il trattamento psicoterapeutico in generale, e il trattamento psicoanalitico in particolare, obbligano il pensiero del paziente a concentrarsi sullo stato mentale di un altro soggetto che si propone come benevolente, il terapeuta. L'interpretazione frequente e profonda dello stato mentale sia analista sia del paziente (ossia l'interpretazione del transfert nel suo senso più ampio) è quindi auspicabile, se non essenziale, nel caso in cui si voglia eliminare l'inibizione di questo aspetto del funzionamento mentale. In un lungo periodo di tempo, le molteplici interpretazioni riguardo alla percezione che il paziente ha della relazione analitica gli permetteranno di provare a formarsi una rappresentazione mentale sia di se stesso sia dell'analista, come persona capace di pensieri ed emozioni. Ciò potrebbe costituire il nucleo di un senso del Sé come individuo dotato della capacità di rappresentare idee e significati, e potrebbe porre le basi per quel legame che consente un'esistenza indipendente.
- Riassunto
- L'applicazione della teoria dell'attaccamento ai disturbi gravi della personalità permette di formulare alcune ipotesi:
- 1) L'attaccamento sicuro costituisce la base per l'acquisizione di capacità cognitive o di mentalizzazione.
- 2) La capacità del genitore di mentalizzare può rafforzare il legame del bambino.
- 3) I maltrattamenti possono compromettere nel bambino l'acquisizione della capacità di mentalizzare.
- 4) I sintomi del disturbo borderline di personalità possono avere come conseguenza l'inibizione della mentalizzazione.
- 5) I crimini violenti e il disturbo di personalità antisociale potrebbero essere dovuti alla compromissione della capacità di riflettere sullo stato delle vittime.
- 6) Il lavoro psicoterapeutico può facilitare la riattivazione di questa capacità inibita
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