venerdì 8 febbraio 2008

LA MISURAZIONE DELLA FUNZIONE RIFLESSIVA:

II manuale di P. Fonagy, M. Steele, H. Steele e M. Target


Abstract

This paper begins to examine the topic of the measuring of the "near-

unmeasurable objects", which is one of the most important treated particu-

larly in outcome and process empirical research. According to this, in order

to study accurately the outcomes of specific treatments, we must breakdown

these "general outcomes" into single elements and one of these elements could

significantly be the Reflective Function. In the wake of this, we then present

the Reflective-Functioning Manual, version 5, stressing that its roots are in

different theories, on this theme partially overlapped.

Questo scritto prende inizialmente in esame l'argomento della misurazione

degli "oggetti pressoché non-misurabili", che è uno dei più importanti per

l'effettuazione di ricerche empiriche sull'esito e sul processo. Data questa

situazione, al fine di studiare accuratamente gli esiti di specifici trattamenti, è

opportuno scomporre ogni riscontro "in toto" di un esito in singoli elementi,

uno dei quali potrebbe significativamente essere la Funzione Riflessiva. Viene

quindi presentata la versione 5 del Manuale della Funzione Riflessiva, sottoli-

neando come le sue origini siano da rintracciare in differenti teorie, su questo

tema parzialmente sovrapponibili.

Premessa

Recensendo un lavoro di John Bowlby (1951), Cure materne e igiene men-

tale del bambino,
così scriveva Winnicott (1953, p. 447): “[…] è qui che biso-

gna cercare il contributo specifico di Bowlby. Secondo lui, ci si deve sforzare

di presentare gli argomenti psicologici in forma statistica, perché chi si è abi-

tuato alle pubblicazioni scientifiche possa apprezzare le affermazioni di quelli

di noi che hanno una mentalità clinica” e pertanto “... sarebbe lui il primo ad

ammettere che le statistiche non hanno alcun valore se non sono basate su

dati indiscutibili [corsivi nostri, questo e i successivi], e in effetti proprio que-

sti sono i dati più difficili da raccogliere nella nostra professione”. Winnicott

{ibidem, p. 448) prosegue osservando che per quasi tutti i disturbi psicologici

“non vi è abbastanza accordo su ogni singola definizione dei fenomeni osservati

perché il metodo statistico possa funzionare”.

In queste riflessioni di Winnicott sull'impostazione bowlbiana, nettamente

caratterizzata già all'inizio degli anni cinquanta, si può dire che si trovi rap-

presentato in maniera esemplare quel confronto, che continua vivacemente

anche ai giorni nostri, tra le ragioni della ricerca empirica (che è solita conce-

dere lo statuto di scientificità solo a quelle asserzioni che si sostengono su una

determinata quantità di riscontri statisticamente significativi) e le ragioni del-

la mentalità cllnica, che nelle cifre non confida in special modo, ne pertanto

vi si affida.

In particolare vediamo che Winnicott, con grande precisione, coglie i due

punti salienti, e talora dolenti..., per ogni impostazione di ricerca che non

voglia essere esclusivamente cllnica: il primo punto è quello della difficoltà di

raccogliere i dati indiscutibili necessari perché possano essere fatte osservazio-

ni su numeri sufficientemente grandi da permettere elaborazioni di significa-

tività, il secondo punto riguarda la riflessione che tale diffìcile raccolta di dati

è conseguente alla
mancata condivisione di una chiara e univoca definizione dei

concetti utilizzati.

Si può quindi ribadire che, per una raccolta di dati sufficienti, per qualità e

quantità, a permettere rimpianto di progetti di ricerca empiricamente orien-

tati, il passaggio obbligato è quello di stabilire prioritariamente definizioni

operative dei concetti utilizzati, definizioni cioè che prevedano la precisa spe-

cificazione di quali passaggi vadano seguiti e quali operazioni vadano com-

piute per arrivare a ritrovare e isolare, in modo riproducibile, i concetti stessi.

Solo seguendo tali prassi manualizzate possiamo dunque arrivare a
descrizioni

riproducibili
e misurazioni attendibili dei fenomeni che si vogliono osservare e

studiare, e dunque finalmente anche degli oggetti mentali, campo privilegiato

per i ricercatori dell'area psicoterapeutica. Peraltro "la consistenza pressoché non-misurabile"

di tali oggetti (Bateman,Holmes, 1995, p. 245) ha da tempo impegnato i ricercatori a sviluppare strumenti

di misurazione nelle forme più svariate: per ricordarne qualcuna, le

"rating-scales"'di compilazione da parte del terapeuta, i "self-reports" che è inve-

ce il paziente a dover compilare, le "carte" della cosiddetta procedura
"Q-sort",

i dizionari per l'analisi computerizzata dei testi e soprattutto le svariate
metodi-

che per misurazione guidate da manuali.
Mentre i "dizionari" partono dalla

definizione di specifiche categorie di ascolto (per esempio parole emozionali)

e si indirizzano allo studio di "singole parole", è invece il "testo intero" quello

preso in esame dalle metodiche di misurazione guidate da manuali, per stu-

diare all'interno della totalità del testo in questione le variazioni di una speci-

fica misura di base, precedentemente definita operazionalmente. Quest'ultima

forma di metodica misurativa, che parte dall'assunto che le narrazioni pro-

dotte da una persona siano affidabili mappe del suo mondo interno, ha avuto uno

 straordinario sviluppo sia quando viene applicata direttamente ai testi

delle sedute, per esempio negli studi di processo, sia quando viene usata sui

testi dei cosiddetti artefatti rappresentazionali, quali si considerano, per esem-

pio, i trascritti di interviste strutturate a fini di ricerca. Dai pionieristici lavori

di Gottschalk (1955, 1969) a quelli di Merton Gill (1982) sulle "esperienze

del paziente correlate al terapeuta" (PERI"), molti ricercatori si sono cimentati

con la misurazione di funzioni squisitamente mentali, di concetti clinici, di

processi interni, assumendo come dati di base i testi di trascrizioni (di sedute,

o di altre situazioni cllniche, comunque almeno audioregistrate) che pertanto

sono stati ritenuti in grado di essere efficacemente rappresentativi di quelle

funzioni, concetti o processi psichici. Come detto, fondo comune di tale

impostazione è il presupposto che esista, come scrive Seganti (1995, p.l4),

“un'esperienza di vitalità intrapsichica che ha un'influenza nella produzione

delle parole” e quindi conscguentemente che “lo studio delle parole possa

rendere riconoscibili le regole di produzione che a esse sono sottostanti”.

In questa forma di misurazione, uno dei principali interessi dei ricercatori

è stato quello di mettere a punto misurazioni correlabili al transfert-, nel nume-

ro 3&4 del 1994 di Psychotherapy Research vengono elencate addirittura sette

"tranference related measures", tra le quali il CCRT di Lester Luborsky e il

SASB-CMP, presentato da Schacht e Henry. Anche l'impresa di misurare le flut-

tuazioni dell'alleanza terapeutica direttamente dal dialogo della seduta psico-

terapica ha visto convergere gli sforzi di differenti gruppi di ricerca, tra cui

quello del gruppo della Menninger (Horwitz et al., 1996). Rivolto allo studio

del grado con cui una persona dimostra di possedere la capacità di
"mastery",

o
padroneggiamento relazionale, assunto come indice particolarmente utile

per studi di esito, è il rigoroso e brillante lavoro di Grenyer (1994), che per

tale fine utilizza le stesse unità osservazionali di base del CCRT, cioè gli "episo-

di relazionali". Vanno poi ricordati le ricerche di Mary Main, eccezionali per

originalità e qualità scientifica, orientate, tra l'altro, a ottenere una attendibile

classificazione degli stili di attaccamento degli adulti (Main, Goldwyn, in cor-

so di stampa) a partire dalle risposte fornite durante la Adult Attachment

Interview. Quest'elenco, necessariamente sommario, non può però tralasciare

di far almeno menzione degli studi di Wilma Bucci (1998), orientali a inda-

gare, all'interno di un determinato testo (clinico o no) preso in considerazio-

ne, come variano i livelli di attività referenziale, definita dalla Bucci come la

capacità, di colui che ha prodotto quel testo, di dar espressione nel sistema

verbale a elementi non verbali, mentali o somatici.

Le intuibili difficoltà di tali studi, al crocevia tra filosofi, informatici, psico-

logi sperimentali e psicoanalisti, sono evidenti e la quantità dei problemi aper-

ti è per esempio ben rappresenta dalla condivisa convinzione che “la forma

assunta dalla rappresentazione interna continua a essere sconosciuta” (Main,

1991, p. 134). Ciò nondimeno, dobbiamo ammettere il fascino di queste for-
me di misurazione

che mirano a raccogliere, con modalità standardizzate,

informazioni significative sul "mondo interno" a partire dalla concretezza

fenomenica delle parole del "mondo esterno". Tutto ciò si fa particolarmente

diffìcile, e dunque particolarmente interessante, ornando l'oggetto di siffatte

metodiche di misura è la funzione riflessiva, ossia quell'insieme di “processi

psicologici sottostanti la capacità di mentalizzare” (Fonagy et al., 1997, p. 6),

intesa anche come capacità di astrazione e di consapevolezza riflessiva, che è

al centro di molte formulazioni psicoanalitiche e della psicologia cognitiva e

dello sviluppo. Il manuale che verrà presentato tra breve deriva dall'evoluzio-

ne di una delle scale che partecipano a comporre la complessa valutazione

dell'Adult Attachment Interview e rappresenta attualmente il più sofisticato

sforzo in una direzione di studi sulla Funzione Riflessiva che da tempo vede

impegnati ricercatori di differenti orientamenti teorici, in Italia e all'estero: mi riferisco

agli studi del Psychoanalytic Research Consortium di Sherwood

Waldron (1997) a New York (che ha messo a punto, in modo finemente

manualizzato, un apparato valutativo del processo psicoterapico, analitico e

non, basato su diverse scale, alcune delle quale specificatamente orientale a

misurare la Funzione Riflessiva del paziente) e ci riferiamo anche al lavoro di

Blatt e Auerbach (1998), che, per lo studio delle rappresentazioni mentali se-

altro, hanno realizzato due complesse scale come Strumenti per analizzare

interviste di ricerca: una di queste scale contiene appunto al suo interno una

pane specificatamente dedicata allo studio della "capacità di riflettere su di

se", "self-reflexivity". Su questo tema, per quanto riguarda 1 Italia, bisogna

ricordare il progetto di Antonio Semerari e del III Centro di Psicoterapia

Cognitiva a Roma, che ha messo a punto una Scala di Valutazione della Mera-

cognizione (S.Va.M.) suddivisa per quei contenuti che gli autori (Carcione et

al., 1997) ritengono costitutivi della funzione stessa, cioè "Autoriflessività ,

"Comprensione della mente altrui/Decentramento" e " Mastery", da intendersi

come la capacità di rappresentarsi problemi psicologici in termini di problemi

da risolvere e di elaborare strategie adeguate alla loro risoluzione. Quest'ulti-

mo contenuto sembra legare maggiormente, rispetto ali impostazione di

Fonagy, le conoscenze metacognitive al conseguente sviluppo di strategie e

processi esecutivi, dunque con un'accentuazione oltre che sulle funzioni men-

tali anche sulle conseguenze "nel mondo esterno" di uno sviluppo di tali

funzioni dovrebbe avere sul padroneggiamento relazionale. Di farro gli autori

della Scala intendono specificatamente la Funzione Metacognitiva “come la

capacità dell'individuo di compiere operazioni cognitive euristiche sulle pro-

prie e altrui condotte psicologiche, nonché la capacità di utilizzare tali cono-

scenze a lini strategici per la soluzione di compiti e per padroneggiare specifi-

ci stati mentali fonte di sofferenza soggettiva”.

La convergenza di interessi su questa area rivela la diffusa opinione che essa

rivesta un'importanza strategica per gli studi di esito e di processo. Inoltre ciò
potrebbe far ben

 sperare circa l'eventualità, quanto mai opportuna, che uno

stesso strumento
per la misurazione della Funzione Riflessiva possa essere adot-

tato da ricercatori diversi per orientamento e appartenenza: ciò darebbe un

importante contributo alla aperta questione se sia ancora vero il famoso ver-

detto dell'uccello Dodo circa l'equivalenza degli esiti di differenti trattamenti

("tutti hanno partecipato, tutti hanno diritto a un premio") o se sia invece

ormai dimostrato che, per indicazioni ed esiti, esistono specifiche e significa-

tive differenze tra i trattamenti, indipendentemente dalle (o in aggiunta alle)

variabili correlate al paziente, al terapeuta e dai fattori comuni a ogni forma

di trattamento (vedi Chambless, 1996). L'urgenza di affrontare tale questione

con nuovi dati non ha certo lo scopo di stabilire generiche classifiche di effi-

cacia tra le diverse psicoterapie, ma quello di aumentare le nostre conoscenze

a riguardo delle effettive e specifiche capacità dei diversi tipi di psicoterapia: a

questo obiettivo si potrebbe giungere anche con la scomposizione in determi-

nati elementi (e, per esempio, un elemento porrebbe essere proprio la Funzio-

ne Riflessiva) di quelli che all'apparenza sono equivalenti risultati d'esito.

Questo peraltro non è che uno degli obiettivi che si possono perseguire utiliz-

zando tale tipo di misurazione: un altro può essere quello di valutare se il

livello di Funzione Riflessiva possa assumere valore predittivo rispetto all'esito

o se addirittura possa fornire qualche indicazione per formulare la proposta

psicoterapica più idonea. Tutti questi obiettivi fanno parte di un progetto di

ricerca avviato nei servizi psichiatrici territoriali afferenti alla I Clinica Psi-

chiatrica dell'Università di Milano (diretta dal prof. Giordano
Invernizzi),

all'interno della quale è stata curata la traduzione italiana dell'ultima versione,

la quinta, del manuale che verrà presentato.

Al di là dall'area più specificamente cllnica, vi sono poi ovviamente ulteriori svariate possibilità

di applicare tale metodica, in primis per esempio nell'a

rea dove essa è generata, cioè quella degli studi sull'attaccamento, la cui qua-

lità può risultare determinante per il tipo di sviluppo della capacità riflessiva

(FonagyetaL, 1995).

Il Manuale della Funzione Riflessiva (versione quinta)

Assieme a Howard Steele, Miriam Steele e Mary Target, Pefer Fonagy ha di

recente predisposto (luglio 1998) un ulteriore aggiornamento, la quinta ver-

sione, di un manuale per riconoscere e valutare i livelli di Funzione Riflessiva

(che era stato originariamente predisposto per essere applicato alle risposte

fornite durante una Adult Attachment Interview). Bisogna ricordare che l'in-

teresse ad approfondire questi aspetti della personalità umana era già presente

in Fonagy in diversi suoi scritti precedenti, del 1989 e del 1991, quando trattò

della teoria della mente nei soggetti borderline.

Con il termine di Funzione Riflessiva ci si riferisce a quei processi psicolo-

gici sottostanti la capacità di mentalizzare, ed è dunque da intendersi come la capacità

di vedere e capire se stessi e gli altri in termini di stati mentali, cioè

sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri. Riguarda quindi la capacità di

pensare, di compiere riflessioni sul proprio e altrui comportamento.

La scala di valutazione presentata nel manuale deriva in parte dalle consi-

derazioni presenti nel lavoro della Main (1991) su
II monitoraggio metacogni-

tivo
e i modelli singoli d'attaccamento contrapposti a quelli multipli.
Come pre-

cisano gli autori del manuale, la scala in esso contenuta “fornisce delle defini-

zioni operazionali in merito alle differenze individuali nelle capacità
metaco-

gnitive
degli adulti. Metacognizione, mentalizzazione e funzionamento rifles-

sivo sono considerati espressione della funzione riflessiva da cui in gran parte

dipende lo sviluppo del sé che pensa e che sente” (Fonagy et al., 1997, p. 5).

Oltre a ricondurre la matrice del loro pensiero all'ambito psicoanalitico

(ove si possono ritrovare molti concetti che sono stati introdotti “per indicare

i processi mentali che in parte coincidono con il costrutto della mentalizza-

zione, sostenuta dalla funzione riflessiva”), gli autori riconoscono il debito del

proprio pensiero nei confronti della psicologia cognitiva (Morton e
Frith,

1995) e della psicologia dello sviluppo, ove la capacità riflessiva, in termini di

teoria della mente (Premack e Woodruff, 1978), è definita come la concezio-

ne che l'individuo ha dei sentimenti, delle attitudini, delle speranze, delle

intenzioni, delle modalità di comprensione dell'altro (Baron-Cohen,
Tager-

Flusberge
e Cohen, 1993).

Secondo la descrizione presente nel manuale la funzione riflessiva compren-

de ^
una componente autoriflessiva, sia una componente interpersonale, le

quali idealmente forniscono all'individuo una capacità di distinguere sia la

realtà interna da quella esterna, sia i processi intrapsichici da quelli
interpsi-

chici;
per quanto riguarda invece la genesi di tale funzione, viene osservato che

“la mentalizzazione avviene attraverso l'esperienza che il bambino fa di quan-

to i propri stati mentali siano stati "capiti e pensati" grazie a interazioni cari-

che di affetto con il genitore”: dunque “... l'emergere e il completo sviluppo

della funzione riflessiva dipende dalla capacità del genitore di percepire più o

meno accuratamente l'intenzionalità del bambino” (Fonagy et al., 1997, p.

6). Date queste ultime osservazioni, risulta evidente che le capacità conse-

guenti allo sviluppo di tale funzione, nelle sue diverse componenti, hanno

origine, sviluppo ed espressione interpersonale: a questo proposito infatti l'o-

riginaria dizione di "Reflecrive-SeIfFunctioning" è stara murata, già dalla ver-

sione 4.1 del manuale (del giugno 1997), nell'attuale dizione di
"Reflective

Functioning",
proprio per evitare interpretazioni riduttive che equiparassero

erroneamente tale funzione alla autoriflessione, che è, come detto, solo una

componente di quel che si intende con il concetto di "Funzione Riflessiva".

Tale sottolineatura della natura "inerentemente interpersonale" (ibidem, p.

5) della Funzione Riflessiva rinvia fortemente al pensiero di Bowlby (secondo

il quale, come ricorda anche Lorna Benjamin (1996, p. 186), “gli eventi mentali sono

di natura primariamente interpersonale” e sono modellati dalle espe-

rienze precoci con le persone che hanno provveduto a instaurare gli
originari

legami di attaccamento), come pure alle numerose riflessioni di
Winnicott

circa l'importanza che ha, per lo sviluppo psicologico, la percezione di sé nella

mente dell'altro.

Ma oltre a tali matrici, gli autori segnalano che il loro retroterra, per quan-

to riguarda l'area psicoanalitica, risale fino a Freud e alla sua originaria teoriz-

zazione del concetto di "Bindung" o legame, a proposito del quale egli, distin-

guendo tra processi primari e secondari, sottolineava che "Bindung" era al

contempo un cambio di qualità da uno stato fisico (immediato) di legame a

uno stato psichico e che la capacità di funzionamento psichico o la rappresen-

tazione psichica di avvenimenti interni poteva fallire in svariati modi (vedi

Fonagy et al., 1997, p. 44). Anche l'acquisizione della "posizione depressiva",

secondo il modello kleiniano, come pure, secondo quello bioniano, lo svilup-

po della "funzione alfa" (come il necessario passaggio per rendere pensabili

eventi interni altrimenti sperimentati come concreti, gli "elementi beta") pos-

sono essere considerate analoghe all'acquisizione della funzione riflessiva.

Dopo aver anche riconosciuto il loro debito nei confronti del lavoro di nume-

rosi altri psicoanalisti, tra i quali in particolare Pierre Marty (1968) e Pierre

Luquet (1988), gli autori ribadiscono che, oltre a essere al centro di molte

formulazioni psicoanalitiche, “il concetto di una crescente capacità di astra-

zione e di una consapevolezza riflessiva degli stati mentali [...] è anche il ful-

cro della concettualizzazione e del lavoro empirico della psicologia cognitiva e

dello sviluppo”, ove, come detto, la capacità riflessiva è spesso riferita come

"teoria della mente": rispetto a tali ambiti, Fonagy e colleghi ritengono però

che la funzione riflessiva, pur essendo un'acquisizione legata allo sviluppo,

tuttavia non sia mai completamente raggiunta e stabilizzata. Conseguente-

mente a ciò, lo studio delle differenze individuali in quanto al livello di capa-

cità riflessiva raggiunto, può concorrere alla comprensione della complessa

natura dei disturbi psicologici.

L'assenza, o i diversi livelli, della capacità riflessiva sono stari originaria-

mente indagati a partire dalle risposte fornite durante la somministrazione

dell'Adult Attachment Interview, ma le procedure di valurazione sono ora

anche considerate applicabili ad altri tipi di interviste di ricerca che conduca-

no alla identificazione, o meno, della capacità di riflessione.

Gli autori del manuale hanno proposto di suddividere le domande

dell'A.A.l. (come pure quelle di altre interviste atte a sollecitare dimostrazioni

circa la funzione in questione) in due categorie: la prima è quella delle cosid-

dette permit questiom, che sono quelle domande che permettono all'intervi-

stato di dimostrare di possedere un certo grado di funzione riflessiva, e la

seconda è quella delle cosiddette "demand questions", che sono quelle

domande dell'intervista che esigono che l'intervistato mostri la qualità delle proprie

capacità riflessive. Per quanto riguarda quest'ultima categoria di

domande, quello che segue è un elenco esaustivo di quelle dell'A.A.l.:

— Secondo lei perché i suoi genitori si sono comportati così come si sono

comportati, quando lei era bambino?

— Pensa che le sue esperienze infantili abbiano avuto qualche influenza su

quello che lei è oggi?

— Vi sono stati ostacoli o momenti di regressione nella sua crescita?

Si è mai sentito respinto da bambino?

— A proposito di perdite o lutti, come si è sentito al momento, e come sono

cambiati i suoi sentimenti nel corso del tempo?

— Ci sono stari dei cambiamenti nei rapporti con i suoi genitori da quando

era bambino?

In altre interviste di ricerca (Fonagy et al., 1998, p. 36), oltre a questo set

di domande, l'intervistatore può usare anche altre formulazioni verbali, che

hanno il medesimo valore di una "demand question", per "esigere"
nell'inrer-

vistato
risposte in termini di funzione riflessiva, come per esempio: “e perché

pensa che loro hanno fatto questo?”.

Anche ricorrendo a esempi tratti da brani di interviste (che solo parzial-

mente saranno riportati in questo articolo), nel manuale vengono fornire tut-

te le indicazioni occorrenti per valutare se una risposta è indicativa di capacità

riflessiva e quale è il punteggio da attribuirle: infatti le risposte vengono valu-

tate rispetto all'essere caratterizzate da brani marcatamente anri-riflessivi (in

cui si riscontra ostilità ed evasività in risposta alla richiesta di riflessione: in

tali casi il punteggio da attribuire può essere addirittura negativo: -1, 0) o da

brani in cui la funzione riflessiva può risultare assente ma non disconosciuta

oppure dubbia o bassa (ai quali viene attribuito un punteggio basso: da 1 a 4)

o da brani che dimostrano una chiara o comune funzione riflessiva (che meri-

tano un punteggio medio di 5 o 6) o ancora da brani che rivelano un funzio-

namento riflessivo notevole o eccezionale ( che si situano ai livelli più alti del-

la scala dei punteggi, da 7 a 9).

Quando la riflessività è assente tendono a emergere schemi di risposta ben

distinti, che possono essere ulteriormente organizzati in sotto-categorie, quali:

risposte di rifiuto, non integrate, bizzarre o inadeguare, risposte di diniego,

distorte o al servizio del Sé, risposte ingenue o semplicistiche, riposte
iperana-

litiche
o iperattive. Per esempio, quando siamo in presenza di una risposta di

rifiuto si ha l'impressione che l'intervistato abbia percepito le domande come

un attacco o una violenza, come nell'esempio riportato nel manuale: Intervi-

statore: “Perché pensa che i suoi genitori si sono comportati così come si sono

comportati?”. Intervistato: “Come crede che possa saperlo? Me lo dica lei che

è psicologo!”.

Una categoria rara ma interessante è rappresentata da risposte che rifletto-

no assenza di integrazione e di elaborazione: gli stati mentali possono essere dichiarati

esplicitamente, ma le implicazioni in termini di idee, sentimenti e

motivazioni non vengono spiegate. A volte invece prevale una difficoltà di

comprensione delle parole dell'intervistato a causa di attribuizioni bizzarre o

inadeguate di stati mentali. In uno degli esempi riportati nel Manuale, a un

intervistatore che pone la domanda di prima, sul perché, a giudizio dell'inter-

vistata, i suoi genitori si sono comportati così come si sono comportati, la

risposta fu: “Hanno risentito in modo eccessivo dell'influenza dei massmedia,

particolarmente della televisione”. Intervistatore: “Mi può dire qualcosa di

più su questo punto?”. Intervistata: “II canale commerciale è cominciato giu-

sto quando avevo quattro anni e mezzo!”.

Quando è presente il diniego della funzione riflessiva, allora l'assenza di

menralizzazione è simile a quella di chi la rifiuta, ma il ripudio di una posizio-

ne riflessiva è accompagnato da poca o nessuna ostilità manifesta: Intervista-

tore: “Si è mai sentito respinto da bambino?”. Intervistato: “Non so, non

saprei proprio dirlo”. Questo esempio indica che tale scotomizzazione non

porta il paziente a sentire il compito come un attacco: anche qui risalta la

carenza di informazioni sugli stati mentali, ma la strategia è tendenzialmente

passiva ed evasiva. Altre risposte di questo tipo possono includere generalizza-

zioni, che evitano di affrontare la specificità di una storia personale, o spiega-

zioni puramente concrete di un comportamento, attribuito magari a circo-

stanze esterne.

La distorsione al servizio del sé si ha quando il ricordo dello stato mentale

può essere altamente egocentrico e l'Io del soggetto assume un ruolo domi-

nante e sproporzionato rispetto alla capacità di indurre negli altri di un deter-

minato comportamento: Intervistata: “Mi ricordo di una volta che i miei sono

usciti per passare fuori la serata e come al solito ero molto sconvolta per il fat-

to che mi lasciassero sola e sono andata avanti a piangere e piangere. Loro

sono ritornati indietro in fretta... qualcosa come venti minuti... mia madre

ha detto che la macchina aveva avuto un guasto lungo il viottolo e che l'ave-

vano dovuta lasciare lì, come effettivamente hanno fatto, ma credo che sem-

plicemente non volessero lasciarmi da sola e che abbiano messo su tutta que-

sta farsa... di far riparare l'auto e tutto il resto...”. Intervistatore: “Cosa le fa

pensare che sia stato per lei e non per l'auto?”. Intervistata: “Lo so e basta. E

mi ricordo di averlo pensato allora”. A volte anche le supposizioni che riguar-

dano gli stati mentali degli altri sono tese a ingrandire il sé al fine di potenzia-

re l'autostima, con talora anche una tendenza a minimizzare i possibili effetti

negativi degli altri nei propri confronti: Intervistata: “Ero la cocca del papa e

mia mamma non è mai stata assolutamente gelosa di questo”.

Una categoria estremamente comune di bassa capacità riflessiva è data dalle

risposte ingenue o semplicistiche, caratterizzare dalla rappresentazione unidi-

mensionale dello stato mentale altrui, che perciò non comprende mai emo-

zioni miste, conflitti o incertezze. Si tratta di risposte connotate da superfìcialità e

talvolta da scissioni, e in questo caso le figure di attaccamento vengono

descritte o come totalmente buone o come totalmente cattive, come nel

seguente esempio: Intervistato: “Mio padre non si faceva mai vedere, non se

ne curava e non era mai a disposizione, mentre mia madre si prendeva sempre

cura ed era tutta per noi”. Può esser presente la tendenza alla banalizzazione e

all'utilizzo di affermazioni stereotipate e preconfezionate: Intervistato: “Tutti i

genitori vogliono il meglio per i loro figli”.

Se le risposte presentano invece solo in apparenza i caratteri distintivi della

mentalizzazione, ma in realtà le riflessioni che contengono sono irrilevanti,

allora siamo in presenza di risposte cosiddette iperanaliriche. In questo caso la

capacità metarappresentariva non ha un vero e proprio impatto con la realtà

in quanto il soggetto fa un eccessivo ricorso alla intellettualizzazione e le sue

risposte possono apparire molto parricolareggiate, ma sono poco convincenti

e dispersive: Intervistatore: “Direbbe che la sua infanzia abbia avuto molta

influenza su chi lei è oggi?”. Intervistato: “Ecco, è difficile rispondere a questo

perché, sa, allevato nel contesto socioculturale in cui si è, mm, sa, lo si
assorbe

quasi appena si impara a leggere, che il bambino è il padre dell'uomo, e tutto

quanto... Chi era? Wbrdsworth, non è vero?”. Intervistatore: “Può aggiungere

qualcosa in particolare di più specifico?”. Intervistato: “Intendo dire, di nuovo

immagino logicamente, voglio dire... Non si deve dare tutta la colpa alle cul-

ture post-psicoanaliriche e cosi via... sembra che ci sia una cena logica inevi-

tabile nel fatto che si debba passare attraverso una fase formativa necessaria,

non, fasi, presumibilmente è inevitabile che influenzino gli sviluppi successi-

vi”. Intervistatore: “C'è stato qualcosa che considera un freno o un regresso

nel suo sviluppo?”. Intervistato: (con un sospiro) “Bene, è interessante che lei

mi chieda questo... voglio dire, fin da quando il concetto di maturità, vede, si

è formato nella mia coscienza, sono sempre stato consapevole di trovarmi a

una certa distanza da esso. E talmente facile razionalizzare' si viene fuori con

frasi, mm, trite, mm, mezzo cotte, mm, interpretazioni psicologiche”.

Quest'ultimo brano, con le sue caratteristiche di pseudo-mentalizzazione,

può essere utilizzato come uno degli esempi per la categoria di capacità rifles
-

siva dubbia, alla quale si attribuisce il punteggio di 3 (sulla scala compresa tra

-1 e 9). Tale categoria è considerata di confine in quanto, anche se viene uti-

lizzato il linguaggio degli stati mentali, emerge un'assenza di materiale che

giustifichi il presupposto che il soggetto capisca le implicazioni delle proprie

affermazioni, che il più delle volte risultano di fatto essere o semplicistiche e

banali o iperanaliriche o stereotipate.

I brani che ricadono sotto la categoria di funzione riflessiva chiara o comu-

ne, alla quale si attribuisce il punteggio di 5, sono caratterizzati da riferimenti

chiari ed espliciti alla natura degli stati mentali e a come essi si rapportano al

comportamento.

Le interviste classificate come caratterizzate da capacità riflessiva notevole,

 il cui punteggio è 7, sono in genere più complete e contengono affermazioni

non solo chiare ed esplicite di comprensione degli stati mentali, ma possiedo-

no anche originalità ed elaborazioni personali, come pure consapevolezza di

nessi causali.

Infine, nella categoria di capacità riflessiva eccezionale, di punteggio 9,

rientrano quelle interviste in cui le caratteristiche appena descritte appaiono

eccezionalmente rappresentate, sia in senso qualitativo che quantitativo: l'in-

tervistato offre un quadro talmente completo e originale che testimoniano un

elevatissimo livello di insight.

Per quanto riguarda infine l'aggregazione delle diverse valutazioni effettua-

te sui brani individuati (specialmente le risposte alle "demand questions"/), gli

autori precisano che non esiste una formula semplice per arrivare alla valuta-

zione globale finale: sebbene vengano indicate delle linee guida per far rien-

trare il colloquio in una categoria piuttosto che in un'altra, "nessuna dovrà

essere usata ciecamente", o dovrà prevalere sull'impressione che il valutatore

ha del colloquio nel suo insieme in base alle sue precedenti esperienze di altre

narrazioni valutate in precedenza.

Alla fine della quinta versione del manuale (l'acquisizione conoscitiva del

quale non può prescindere, ai fini del suo uso, dal seguire una formazione

diretta dagli autori, o da persone da loro formate) viene dunque presentata la

seguente classificazione globale:

FUNZIONE RIFLESSIVA NEGATIVA                      Punteggio -1

Tipologie:           -1A (rifiuto della F.R.)

-1B (F.R. non integrata, bizzarra o impropria)

ASSENZA DI FUNZIONE RIFEESS1VA                   Punteggio 1

Tipologie:           1A (diniego della F.R.)

1 B (distorsione al servizio del sé)

FUNZIONE RIFLESSIVA DUBBIA O BASSA          Punteggio 3

Tipologie             3A (F.R. ingenua o semplicistica)

3B (F.R. iperanalitica o "iperattiva")

3C (F.R. bassa mista)

FUNZIONE RIFLESSIVA CHIARA O COMUNE      Punteggio 5

Tipologie            5A (comprensione ordinaria e costante)

5B (comprensione ordinaria ma incostante)

FUNZIONE RIFLESSIVA NOTEVOLE                       Punteggio7

FUNZIONE RIFLESSIVA ECCEZIONALE                 Punteggio 9

Conclusioni

Secondo la teoria della definizione dei concetti scientifici avanzata da Percy

Bridgman
(1959), un termine concettuale deve essere considerato sinonimo

di una serie di operazioni empiricamente eseguibili e pertanto può essere

legittimamente acquisito come scientifico solo se tali operazioni vengono

rese esplicite: questo permetterebbe di discriminare, con accettabile approssi-

mazione, i concetti genuinamente scientifici da quelli assimilabili a idee

metafìsiche o ad asserzioni di natura puramente verbale. Tale impostazione

"operazionalista" (che, tra gli altri, influenzò profondamente il pensiero di

Harry Sullivan, nella sua critica al linguaggio e alla metodologia psicoanaliti-

ca) sembra potersi pienamente ritrovare nel progetto scientifico sotteso alla

struttura del manuale, a proposito del quale, come osserva Jeremy
Holmes

(1998), la rilevanza sta proprio nell'uso del termine "funzione", in quanto

questo modo di intendere le finalità di un trattamento aiuterebbe a
ridefìni-

re
gli obiettivi delle terapie psicoanalitiche, orientate così allo sviluppo di

specifiche capacità e non più al raggiungimento di generici "insights" o d
i

cambiamenti strutturali, concetti appesantiti di indimostrati riferimenti

metapsicologici. Questo alleggerimento delle premesse teoriche aumenta di

conseguenza l'area comune a studi originati da differenti orientamenti, e

comporta pertanto una evidente ricaduta positiva per tutta l'area della ricer-

ca applicata alla cllnica, al fine di comprendere, con sempre maggiore finez-

za, "chi fa cosa e come".

In conclusione, ci sembra anche importante segnalare che la crescente

maturità di tale impostazione è testimoniata dal fatto che queste procedure

manualizzate arrivano a determinare misurazioni la cui validità è sostenuta

ora da un sempre maggior numero di convincenti riscontri, provenienti da

studi compiuti in svariati ambiti (Fonagy et al., 1998).

Bibliografia

benjaminL.S.(1996), Teoria interpersonale dei disturbi di personalità, in clarkinj., lenzenweger M. (Ed.s), Theories of Personality Disorder, trad. it. (1997) I disturbi della personalità. Le cinque principali teorie, Raffaello Cortina Editore, Milano.

bowlbyj.(1951), Maternal care and mental health, W.H.O., Geneve; rrad.ir. (1957) Giunti-Barbera,Firenze.

carcionea-, dimaggio G.G., falcone M., magnolfi G-, manarem F. et al. (1997), Scala di valutazione della metacognizione (S. VA.M.}, 1 Congresso nazionale SPR Italia.

chamblessD.L. (1996), In defense of dissemination of empirically supported psychological interventions, in “Clinical Psychology. Science & Practice”, 3, pp.230-35.

baron-cohen S., tager-flusberg H. & cohen D.J. (1993), Understan-

ding other minds: Perspective from autism, University Press, Oxford.

bateman A., holmes J. (1995), Introduction to Psychoanalysis, Routledge,

London.

blatt S., auerbach J.S. (1998), Role ofAnger and Aggression in Borderline

and Schizofrenic Patients, 8th IPA Conference on Psychoanalytic Research.

bridgman P. (1959), The way things are, Cambridge Press, Cambridge.

bucci W. (1998), The application of psychoanalytic principle to treatment of

violent adolescents, 8th IPA Research Conference.

fonagy P (1989), On tolerating mental states: theory of mind in borderline

patients, Bullettin of the Anna Freud Center, 12, pp. 91-115.

fonagy P. (1991), Thinking about thinking: some clinical and theoretical consi-

derations in the treatment of borderline patient,
in “Int. J. Psychoanal”, 72,

pp.1-18.

fonagy P. et al. (1995), Attachment, the Reflective Self and borderline states, in

Goldberg S. et al. (eds),
Attachment Theory: Social, Developmental and Cli-

nical Perspective, The Analytic Press, Hillsdale, N.J.

fonagy P, steele M., steele H., target M. (1997), Reflective-Functioning

Manual Version 4.1, University College London, London.

fonagy P, steeele M., steele H., target M. (1998), Reflective-Functioning

Manual. Version 5, University College London, London.

gillM., hoffmann 1. (1982), A method for studyng the analysis of aspects of

the Patient's Experience of the Relationship in Psychoanalysis and Psychothe-

rapy, in “J. Am. Psychoanal. Ass.”, vol. 30, pp. 137-67.

gottschalk L., hambidge G. (1955), Verbal Behavior analysis: a systematic

approach to the problems of quantifyng psychologic processes, in “].
Proj. Tech.”,

19, pp. 307-409.

gottschalk L., winget C., gleser G. (1969), Manual of instructions for

using the Gottschalk-Gleser content analysis scales,
University of California

Press, Berkeley-Los Angeles.

grenyer B. (1994), Mastery Scale I: a research and scoring manual, University

of Wollongong, Wollongong.

holmes J. (1998), The changing aims of psychoanalytic psychotherapy: an inte-

grative perspective, in “Int. J. Psychoanal.”, 79, pp. 227-40.

horowitz L., gabbard G., allen J., frieswyk S., colson D., newsom

G., coyne L. (1996),
Psicoterapia su misura; trad. it. (1988) Raffaello Cor-

tina Editore, Milano.

lubor.sky L., popp P, luborsky E., mark D. (1994), Thè core conflictual

relationship theme, in “Psychotherapy Research”, 4, pp. 172-83.

luquet P .(1988), Langage, pensée et structure psychique, in “Revue Francais

de Psychoanalyse”, 52, pp. 267-302.

main M. (1991), Metacognitive knowledge, metacognitive monitoring, and singular (coherent) vs (incoherent) multiple modlis of attachment: findings and directions for future research, in Marris E, Stevenson-Hinde J. & Parkes C.(Des), Attacchment Across the Life Cicle, Routledge,NewYork.

main M., goldyn R. (in press), Adult attachment classifìcation system, in main M. (ed), Behavior and the development of representational models of attachment,

 CambridgeUniversityPress,Cambridge.

marty P. (1991), Mentalisation et Pychosomatique, Laboratoire Delagrange,
Paris.

morton }., frith U. (1995), Casual modeling: a structural approach to developmental psychopathology, in cicchetti D., cohen D., DevelopmentalPsychopathology: theory and methods,Wiley, New York.

premackD., woodruff G. (1978), Does the chimpamzee have a theory of mind?, in “Behavioural and Brain Sciences”, 1, pp. 515-26.

schac't., henry W. (1994), Modeling in“Psychotherapy Research”, 4, pp. 208-21.

A.(1995), La memoria sensoriale delle relazioni. Bollati Boringhieri, Torino.

waldron
S., scharf R., firestein S. (1997), Measuring psichoanalytic work and benefit: the analityc process scales, manoscritto non pubblicato.

winnicott D. (1953), Esplorazioni psicoanalitiche,  trad it. (1995) Raffaello Cortina Editore, Milano.
seganti
recurrent patterns of interpersonal relationship with structural analysis of social behavior: the SASB-CMP,

Gherardo Amadei, presso I.R.C.C.S. Clinica Psichiatrica 1. Università di Mila-

no, U.O.P. Policlinico 1, via F. Sforza 35, 20122 Milano

 

 

Ricerca in psicoterapia









Perché un’ennesima rivista?



S. Freni



«Ricerca in Psicoterapia» finalmente decolla!

Numerose e di varia natura sono state le difficoltà che si sono frapposte alla rapida realizzazione del progetto di dotare la SPR-Italia di una pubblicazione periodica capace di rappresentare i ricercatori interessati a sviluppare in Italia la ricerca empiricamente fondata nel campo della psicoterapia dove siamo decisamente in ritardo rispetto agli standard di gruppi internazionali radunati attorno alla Society for Psychotherapy Research (SPR) e rappresentati dalla rivista «Psychotherapy Research» (Guilford Publications, New York). La difficoltà maggiore, almeno per me, è derivata da una resistenza a creare un’ennesima rivista di psicoterapia quale espressione di un’ennesima associazione di psicoterapia; provo infatti un certo disagio e talora franco rigetto per questa strana corsa dei vari gruppi di psicoterapeuti a legittimarsi e pubblicizzarsi attraverso pubblicazioni che quasi sempre assumono caratteri di difesa corporativa degli aderenti a questa o quell’altra delle ormai numerosissime scuole di psicoterapia esistenti oggi in Italia. Non esiste invece un contenitore capace di dar conto e incoraggiare i tenui tentativi di ricercatori che cominciano a organizzarsi e che nel I convegno nazionale della SPR-Italia di Settembre 1997 si sono riuniti a Tabiano Terme esprimendo unanimemente l’esigenza di una pubblicazione in grado di rappresentare lo spirito della SPR, una associazione scientifica libera da esigenze corporative interessata a sviluppare la ricerca empiricamente fondata in psicoterapia indipendentemente dagli orientamenti teorici e formativi degli psicoterapeuti e delle loro scuole di appartenenza; e indipendentemente dal tipo di pratica psicoterapeutica. Tuttavia sono convinto che questo pullulare di scuole, indirizzi, interessi vari, nel campo della psicoterapia, abbia un suo risvolto positivo perché genera esigenze di ricerca, di confronto ed esperienze che, nel bene e nel male, testimoniano di un avanzamento complessivo del campo della psicoterapia. Pertanto, in questa rivista saranno ospitati, senza alcun pregiudizio di parte, tutti i contributi che esprimono un interesse per la ricerca scientifica in psicoterapia. Chiarisco subito, a scanso di equivoci, che qui per "scientifico" non si intende soltanto "empiricamente fondato", cioè misurabile, attendibile, replicabile, secondo i criteri minimali di scientificità correnti nella comunità scientifica allargata; per noi é scientifico anche un lavoro di ricerca cosiddetta euristica capace di presentare in modo quasi empirico o predisposto a essere trasposto sul piano empirico, un modello teorico o teorico-clinico, una proposta, una intuizione, una riflessione, una rassegna critica ecc. ecc. Vogliamo, cioè, incoraggiare un modo di concepire la ricerca scientifica in psicoterapia che realizzi un circolo virtuoso per aprire un dialogo reciprocamente fecondo tra ricerca euristica e ricerca empirica nella consapevolezza della distinzione dei rispettivi piani epistemologici, allo stato attuale non riducibili a un continuum. Ciò è anche più coerente con la sensibilità scientifica attuale, che, grazie all’affermazione del paradigma della complessità, spinge a superare decisamente la classica distinzione tra scienze umanistiche e scienze naturali.

Vi sono anche fondati motivi per credere che l’avanzamento della ricerca potrà gettare le basi per una psicoterapia basata sulla ricerca come risposta creativa alla caotica esplosione di centinaia di scuole e tecniche psicoterapeutiche e come prospettiva di reale integrazione di modelli e tecniche che avranno dimostrato una reale maggiore efficacia sia in termini terapeutici rispetto a specifici quadri clinico-psicopatologici, sia in termini di effettivo avanzamento della conoscenza e della sua fruibilità pratica.

Per citare solo qualche esempio, non vi sono dubbi che il modello del CCRT (tema relazionale conflittuale centrale) proposto da Luborsky si è rivelato una misura attendibile correlata al concetto teorico-clinico di transfert-ripetizione nel senso originario di Freud. Infatti, tramite il CCRT, si riesce a evidenziare, su un piano empiricamente fondato, alcune caratteristiche essenziali del transfert-ripetizione e misurarne le variazioni nel corso del processo terapeutico in funzione di variabili diverse, come, per esempio, gli interventi dei terapeuti.

Bisogna anche dire che negli ambienti di training dove è stato adottato il CCRT come metodo di valutazione del transfert e della capacità del terapeuta di riconoscerlo e trattarlo con interventi interpretativi adeguati, è stato apprezzato molto il fatto di poter disporre di un modello di valutazione facilmente condivisibile da esaminati ed esaminatori

Voglio ricordare anche i modelli della attività referenziale di Wilma Bucci e della funzione autoriflessiva del gruppo di Fonagy, l’ampio lavoro di ricerca sull’attaccamento di Main, la diagnosi di piano di Weiss e Sampson e la SASB di Lorna Benjamin. Questi approcci, oltre ai vantaggi derivati da una migliore valutazione del processo di separazione-individuazione e delle funzioni cognitive e metacognitive, hanno il merito di favorire una integrazione creativa tra psicoanalisi e cognitivismo.



Impostazione generale della rivista.

Dopo numerose riunioni di redazione, grazie anche ai suggerimenti dell’editore, abbiamo deciso di organizzare la rivista nelle seguenti rubriche che passerò in rapida rassegna con un breve commento esplicativo:



Editoriale: ha lo scopo di porre in risalto qualche aspetto della rivista o del campo di ricerca di cui ci occupiamo o di eventi particolari di interesse generale. In tal senso, l’editoriale è a disposizione di tutti i colleghi che volessero proporre temi con le suddette caratteristiche sia a livello personale sia per invito o per traduzione.

Segnavia: abbiamo voluto definire così uno spazio della rivista specificamente dedicato a quei lavori che diano il senso complessivo di una ricerca, di una filosofia di ricerca, sia dell’attualità che del passato. Pensiamo che per un po’ di tempo sotto questo titolo andranno ospitati lavori da tradurre e comunque firmati da colleghi che abbiano raggiunto un riconoscimento internazionale nel campo della ricerca empirica in psicoterapia. Per questo abbiamo chiesto a Guilford Press l’autorizzazione a tradurre e pubblicare in italiano i lavori più rappresentativi in tal senso pubblicati su «Psychotherapy Research».

Strumenti e metodi: è lo spazio destinato a ospitare lavori caratterizzati dalla presentazione e/o validazione di strumenti, modelli, metodi per la ricerca empirica in psicoterapia con il preciso scopo di diffonderne la conoscenza e creare una familiarità nel loro uso a scopo di ricerca, nel rispetto delle regole etiche dei ricercatori (autorizzazione degli autori o loro delegati, correttezza dell’applicazione ecc.).

Ricerca euristica: come accennavo prima, non vogliamo escludere la ricerca euristica da questa rivista perché riteniamo che essa costituisca la base e la sorgente di pensieri, proposte, intuizioni, modelli che poi possono essere operazionalizzati in modelli empirici. Pertanto in questo spazio verranno ospitati lavori anche di impostazione non empiricamente fondata, purché dotati di originalità e di possibili aperture verso applicazioni empiricamente valide.

Ricerca clinica: vuole significare quei lavori che in modo più specifico esemplificano la ricaduta nella clinica di una ricerca empiricamente fondata. Anche se la ricerca in psicoterapia è sempre intrinsecamente clinica, in questo spazio si vuole porre in risalto l’aspetto di casistiche cliniche, processi terapeutici, risultati ecc. ecc.

Psicoterapia nelle istituzioni: non vi è alcun dubbio che è stato il lavoro dei colleghi che praticano la psicoterapia nelle istituzioni uno dei motori più potenti per l’affermazione e la diffusione della ricerca scientifica nel campo della psicoterapia. In tal senso, l’organizzazione dei servizi per la salute mentale potrebbe offrire in Italia una occasione preziosa di ricerca scientifica se riusciremo a utilizzare al meglio le risorse disponibili chiamando a collaborare competenze diverse per progetti di comune interesse nel rispetto delle varie singolarità. In tal senso la rivista darà il massimo spazio alle proposte degli psicoterapeuti che operano nelle istituzioni, sostenendole come meglio sarà possibile.

Lavori in corso: abbiamo definito così uno spazio dedicato a quei lavori in progress con lo scopo di seguirne nel tempo l’impianto metodologico, lo svolgimento e il loro perfezionamento anche come effetto delle critiche costruttive sia dei lettori che, ancor di più, del comitato di referees.

Biblioteca del ricercatore: piuttosto che una generica rassegna di libri o di altre riviste, abbiamo pensato potesse essere utile presentare di volta in volta un volume, un documento, utile ai fini della creazione di una ideale biblioteca di una persona interessata alla ricerca scientifica in psicoterapia.

Il punto di vista dei lettori: ci sembra importante che chiunque possa intervenire nella nostra rivista mediante brevi note o commenti scritti su temi diversi aprendo ove possibile un dibattito utile a tutti. Ciò richiederà un uso discreto e creativo di questo spazio; per questo faccio appello al senso di misura e di ponderazione di tutti coloro che vorranno intervenire. Se lo scrivente desidera risposte da parte di specifiche persone deve richiederlo in modo esplicito, altrimenti il suo contributo verrà semplicemente pubblicato senza alcun commento.

Notizie SPR e SPR-Italia: non potrà essere un vero e proprio notiziario. Riporteremo, di volta in volta, quelle informazioni che appariranno contestualmente e temporalmente più utili.



È chiaro che la divisione della rivista in rubriche ha lo scopo di creare una griglia utile all’editore per impostare i singoli numeri; non è quindi automatica la presenza di tutte le rubriche in tutti i numeri; per esempio, in questo primo numero non compare la voce ricerca euristica.



A proposito di comitato di referees!

Al più presto la rivista sarà dotata di un comitato di referees, costituito da colleghi esperti in specifiche aree di ricerca; il comitato non avrà il semplice e spiacevole compito di accettare o respingere lavori. Sarà piuttosto uno strumento di educazione alla ricerca, perché fornirà suggerimenti e consigli utili per portare alla pubblicazione anche quei lavori che presentassero lacune di vario genere. Insomma vogliamo portare anche nella rivista il principio che anima le manifestazioni scientifiche della SPR: chi più sa insegna a chi sa meno.

Buon lavoro e inviateci subito tanti buoni lavori da pubblicare!





Il nucleo interpersonale della psicoterapia



P. Crits-Christoph

University of Pennsylvania





Le narrative riguardo alle interazioni con altre persone costituiscono una parte significativa del racconto del paziente durante le sedute di psicoterapia. Questo articolo prende in considerazione la nostra ricerca sulle narrative interpersonali come unità di base per la ricerca in psicoterapia. Vengono attentamente considerati studi sull’attendibilità nella localizzazione di queste narrative, seguiti dalla presentazione di studi sulla frequenza e sulle determinanti delle narrative. Le narrative possono anche essere utilizzate per esaminare la relazione paziente-terapeuta, e diversi studi hanno suggerito che pur esistendo un certo grado di somiglianza nei temi tra le relazioni esterne alla terapia e la relazione con il terapeuta, non in tutti i pazienti si evidenzia l’effetto del transfert. Si è trovata invece una associazione tra la capacità del terapeuta di formulare e interpretare accuratamente i temi relazionali che si manifestano nelle narrative e il risultato, il mantenimento e lo sviluppo dell’alleanza terapeutica durante il corso del trattamento. Vengono prese in considerazione le implicazioni di questi risultati nella ricerca e nella pratica.



Narratives about interactions with other people constitute a significant part of patient talk during psychotherapy sessions. This article reviews our research on interpersonal narratives as a basic unit of analysis in psychotherapy research. Studies on the reliability of locating such narratives are reviewed, followed by a presentation of studies on the frequency and determinants of narratives. Narratives can also be used to examine the patient-therapist relationship, and a series of studies has suggested that while there is some degree of similarity of themes between outside of therapy relationships and the relationship with the therapist, not all patients evidence this "transference" effect. Therapists’ ability to formulate and accurately interpret the relationship themes that are apparent in narratives has been found to be associated with outcome, retention, and the development of the therapeutic alliance over the course of treatment. The implications of these findings for research and practice are discussed.



A partire dalle discussioni di Freud (1912-58) sul concetto di transfert attraverso le teorie delle relazioni d’oggetto della Klein (1948) e di Winnicott (1958) e la prospettiva psicoanalitica interpersonale di Sullivan (1953), le teorie psicodinamiche si sono focalizzate sul mondo interpersonale dei partecipanti alla psicoterapia come punto centrale del processo del trattamento. Le moderne scuole di terapia psicodinamica breve (Luborsky, 1984; Strupp & Binder, 1984; Benjamin, 1991) hanno continuato a focalizzarsi su questo tema e hanno aggiunto metodi espliciti di identificazione dei temi interpersonali all’interno delle sedute di psicoterapia. Tale interesse nei processi interpersonali, comunque, non è esclusivo delle scuole a indirizzo psicodinamico: altri trattamenti come la terapia interpersonale per la depressione di Klerman, Weissman, Rounsaville e Chevron (1984) e la prospettiva cognitiva interpersonale di Safran e Siegal (1990) hanno attribuito al processo interpersonale, in un modo o nell’altro, un ruolo centrale all’interno del modello psicoterapico.

I processi interpersonali psicoterapeutici in termini di qualità della relazione paziente-terapeuta (alleanza terapeutica) sono stati oggetto centrale della ricerca in psicoterapia degli ultimi quindici anni e, infatti, l’alleanza è stata individuata come un fattore predittivo dell’esito del trattamento all’interno di un’ampia gamma di psicoterapie diverse (Horvath & Symonds, 1991). Vi è anche un rinnovato interesse nella diagnosi interpersonale e nei fattori interpersonali in psicopatologia (Benjamin, 1993; Horowitz & Virkus, 1986). Le ricerche nel campo della psicologia sociale e della personalità hanno messo in evidenza un notevole interesse nei temi e "schemi" interpersonali (Singer & Salovey, 1991).

Vi sono numerosi modi di fare ricerca rispetto ai processi interpersonali in psicoterapia. La ricerca può focalizzarsi sui problemi interpersonali del paziente e sulla variazione di questi durante il trattamento o su come questi possano essere predittivi del cambiamento dei sintomi (per es., Davies-Osterkamp, Strauss & Schmitz, 1996; Horowitz, Rosemberg, Bauer, Ureno & Villasenor, 1988). L’efficacia dell’approccio dei trattamenti che hanno un rilievo interpersonale può essere oggetto di ricerca (per es., Elkin et al., 1989; Frank, Kupfer, Perel & Cornes, 1990). Alcuni studi hanno codificato come paziente e terapeuta si comportano l’uno nei confronti dell’altro nelle sedute (per es. Henry, Schacht & Strupp, 1986). Come già detto, ricerche relative alla qualità dell’alleanza terapeutica hanno fornito informazioni importanti rispetto alla psicoterapia.

Un’ulteriore finestra sul mondo interpersonale del paziente e sul processo terapeutico è l’esame delle storie o narrative che il paziente racconta durante le sedute. Uno dei programmi di ricerca al Center for Psychotherapy Research dell’Università della Pennsylvania si è focalizzato sulle narrative raccontate durante le sedute di psicoterapia. Lo scopo di questo articolo è di rivedere questo programma di ricerca ponendo l’attenzione su quattro domande: 1) Quanto sono frequenti le narrative all’interno delle sedute e quali sono i fattori che determinano le differenze individuali nella qualità e frequenza delle narrative? 2) Quanto coerenti sono i temi interpersonali all’interno delle diverse narrative raccontate da un paziente in psicoterapia? 3) Cosa possono rivelare le narrative del rapporto paziente-terapeuta? 4) Qual è l’impatto degli interventi del terapeuta quando essi si indirizzano ai temi interpersonali evidenti nelle narrative? Prima di rispondere a queste domande descriverò il processo che porta alla localizzazione delle narrative all’interno delle sedute di psicoterapia.



Localizzare le narrative interpersonali nelle sedute



L’idea di focalizzarsi sulle narrative interpersonali durante le sedute iniziò come parte del metodo del Tema Relazione Conflittuale Centrale (ccrt) di Luborsky (1977). Per permettere ai giudici clinici di formulare i temi relazionali principali (il ccrt), era necessario trovare un modo di dirigere l’attenzione dei valutatori a quelle parti della seduta di terapia in cui era più probabile trovare del materiale clinico rilevante. Nel ccrt le narrative relazionali sono chiamate "episodi relazionali". Luborsky e Crits-Christoph (1990) definiscono l’episodio relazionale come quella parte della seduta durante la quale vi è la narrazione esplicita di una relazione con altre persone o con il sé. Un singolo episodio relazionale coinvolge la stessa persona e le stesse idee, e accade in un dato tempo. Un episodio relazionale è caratterizzato dall’interazione fra almeno due persone: "Io dissi...; lei disse...; allora io poi dissi...; ora mi sento..." e così via. Un episodio relazionale non è semplicemente descrittivo: "Lei è così; lei è cosà".

Gli episodi relazionali vengono localizzati nelle trascrizioni di sedute individuali di terapia. L’identificazione degli episodi da parte dei giudici è facilitata dal fatto che le narrative tipicamente presentano un inizio, un tempo intermedio e una fine. Un paziente può indirettamente segnalare che sta per iniziare una narrativa facendo una pausa o cambiando improvvisamente argomento. Spesso le narrative iniziano con frasi come: "Avrebbe dovuto sentire la telefonata quando la chiamai" o "Le farò un esempio", e si concludono con frasi che implicano una chiusura, per esempio: "Credo che abbiano cercato di farmi diventare qualcosa che io non sono diventato". I giudici valutano la qualità/completezza (su di una scala da 1 a 5) di ciascun episodio identificato, e solo gli episodi nella media (per es., 2,5) o di maggior completezza vengono presi in considerazione per la valutazione dei contenuti.

Tre tipi generali di episodi relazionali sono stati identificati. Ci sono episodi con altre persone, il terapeuta e il sé. Le altre persone includono i partner o il coniuge del paziente, figli, amici, datori di lavoro, insegnanti ecc., e addirittura gruppi di persone. Le narrative con il terapeuta possono richiamare interazioni precedenti fra paziente e terapeuta, o possono essere una messa in atto. Nel secondo esempio, il paziente e il terapeuta agiscono un ruolo durante la seduta stessa. Gli episodi relazionali con il sé come oggetto sono rari, dal momento che non sono solo descrizioni del sé: essi richiedono un aspetto interpersonale.

Numerosi studi condotti dal nostro gruppo di ricerca e da altri hanno preso in esame l’attendibilità nella individuazione degli episodi relazionali nelle trascrizioni. Crits-Christoph, Luborsky, Dahl, Popp, Mellon e Mark (1988) hanno esaminato l’attendibilità nella individuazione degli episodi relazionali in un campione di 111 episodi individuati da ciascuno dei due giudici. L’attendibilità associata dei giudici rispetto alla completezza degli episodi fu .68. Per gli episodi di completezza accettabile (per es., valutati 2,5 o più), rispetto all’identificazione dell’inizio dell’episodio, nell’85% delle volte i due giudici non eccedevano le sette righe di testo di differenza, e nel 70% rispetto alla fine degli episodi.

Bond, Hansell e Shevrin (1987) hanno esaminato la concordanza nel localizzare gli episodi relazionali all’interno di interviste diagnostiche di tre pazienti. La concordanza fu valutata in termini di quanto i due giudici concordavano che una determinata riga di testo dovesse essere inclusa o meno nell’episodio relazionale. Il coefficiente Kappa per i tre pazienti risultava da .48 a .68 per questo tipo di concordanza.

McMullen e Conway (1997) fecero localizzare gli episodi relazionali a due giudici in 23 sedute, usando audioregistrazioni piuttosto che trascrizioni. Definendo la concordanza rispetto a 10 sul contatore del registratore risultò che i giudici concordavano per il 71% delle volte sull’inizio degli episodi e per il 67.5% sulla fine degli stessi.

Nel più grande studio su questo argomento (Crits-Christoph, Connolly, Shappel, Elkin, Krupnick e Sotsky, 1997) vennero identificati gli episodi relazionali in sedute provenienti dal Treatment of Depression Collaborative Research Program (tdcrp, Elkin et al., 1989). Due giudici identificarono gli episodi relazionali in 548 sedute di 72 pazienti. Quando il primo giudice identificava un episodio relativamente completo, il secondo lo localizzava nel 95% delle volte. Per l’80% di questi episodi i due giudici differivano per sette righe o meno nell’identificare l’inizio dell’episodio relazionale. Nell’indicare la fine dell’episodio, i due giudici per l’80% delle volte restavano entro le 14 righe di differenza. L’attendibilità fra giudici (coefficiente di correlazione intraclasse) per la valutazione della completezza delle narrative era di .75.

Questa serie di quattro studi suggerisce che l’attendibilità nel localizzare gli episodi relazionali è adeguata, ma non eccezionale. Episodi di miglior qualità (per es., maggior completezza) sono più facili da localizzare. La relativa difficoltà nell’individuare gli episodi è probabilmente in funzione dell’ambiguità e della discontinuità relativa al flusso verbale libero delle sedute di psicoterapia. Ciò non di meno è stata trovata una attendibilità sufficiente a giustificare l’uso delle narrative come singola unità di analisi per la ricerca sul processo in psicoterapia.



Frequenza e qualità delle narrative



Nelle sedute tdcrp, gli episodi furono estratti da 548 sedute tratte da 72 pazienti in terapia sia cognitiva che interpersonale (Crits-Christoph et al., 1997). Per ciascun paziente furono trascritte quattro sedute appartenenti al principio della terapia più quattro più avanti nel trattamento per quei pazienti che completarono la maggior parte del trattamento che consisteva in 16 settimane. Furono localizzati un totale di 3245 episodi identificati da ciascuno dei due giudici, di cui 1302 raggiungevano un punteggio di almeno 2.5 sulla scala della completezza. In tal modo vi erano in media circa 2.4 narrative relativamente complete per ciascuna seduta.

Un altro studio (Crits-Christoph, Demorest, Muenz e Branackie, 1994) ha identificato gli episodi relazionali in tre sedute iniziali della terapia di 60 pazienti. Questi pazienti avevano partecipato a un trial clinico di ricerca sull’efficacia della psicoterapia cognitiva e supportivo-espressiva come trattamento per la dipendenza da oppiacei in una clinica per veterani del Vietnam (VA-Opiate sample, Woody et al., 1983). In questo campione vi era una media di 4.1 episodi relativamente completi per seduta.

Abbiamo esaminato alcune caratteristiche descrittive di base degli episodi relazionali sia nel campione tdcrp che in quello VA-Opiate. In entrambi i campioni l’"altro" nella narrativa era per circa metà delle volte un maschio e per metà una femmina (48% donne nel campione VA-Opiate; 45% donne nel campione tdcrp). Più frequentemente le narrative riguardavano relazione intime (68% nel campione VA-Opiate; 82% nel tdcrp). Nel campione VA-Opiate "l’altro" era sia una figura di autorità (50%) o un pari grado (48%). A ogni modo nel tdcrp le narrative riguardavano più spesso pari grado (60%) e meno frequentemente figure di autorità (31%). Il fatto che le narrative degli uomini dipendenti dagli oppiacei, rispetto a quelle raccontate dai pazienti depressi nel gruppo tdcrp, riguardassero relativamente meno spesso relazioni meno intime con figure autoritarie è probabilmente in funzione delle normali narrative di questo gruppo relative a personale medico e persone appartenenti al sistema legale, dato l’alto tasso di problemi medico legali di questo gruppo. Nel campione tdcrp la media delle narrative conteneva circa 350 parole del paziente e 70 del terapeuta, benché vi fosse un’alta variabilità di queste medie.

Di maggior interesse dal punto di vista della ricerca in psicoterapia è la misura delle differenze individuali nella qualità e quantità degli episodi relazionali all’interno della seduta. L’esistenza di differenze stabili, fra i pazienti, in qualità e quantità delle narrative farebbe sorgere delle domande su che cosa determini tali differenze, e se narrative più numerose e migliori possano essere facilitate dalla tecnica del terapeuta come parte di uno sforzo volto a sollecitare importante materiale di carattere interpersonale come base per gli interventi. Crits-Christoph et al. (1997) trovarono, infatti, differenze individuali piuttosto consistenti nella frequenza per seduta delle narrative, nella completezza, nella lunghezza di queste (numero di parole del paziente) e nella proporzione di parole dette dal terapeuta all’interno delle narrative (coefficiente di correlazione intraclasse fra .63 e .88 nella comparazione fra variabilità nello stesso paziente e fra pazienti).



Determinanti delle narrative



L’esistenza di forti differenze individuali nella qualità e quantità della narrativa ha portato a testare diverse ipotesi riguardanti le potenziali determinanti di queste differenze individuali. Crits-Christoph et al. (1997) hanno scoperto che il più potente correlato della frequenza e qualità della narrativa era la modalità di trattamento, con la versione della terapia cognitiva realizzata nel tdcrp (Beck, Rush, Shaw & Emery, 1979) che evoca narrative in minor numero e meno dettagliate comparate alla terapia interpersonale di Klerman et al. (1984). L’alleanza terapeutica era correlata positivamente con il numero delle parole del paziente per ogni episodio relazionale, e i pazienti con stili relazionali più coinvolti (versus distaccati) stimolavano più parole da parte del terapeuta per narrativa. Il grado in cui i pazienti credevano che i fattori interpersonali fossero coinvolti nella eziologia dei loro sintomi depressivi, e il grado in cui loro si aspettavano che focalizzarsi durante la terapia sui problemi interpersonali potesse essere utile, ha influenzato la frequenza e la completezza della narrativa più nella terapia cognitiva che in quella interpersonale. Quest’ultima scoperta suggerisce che i terapeuti cognitivisti modifichino il focus del loro trattamento in base alle convinzioni dei pazienti riguardo a ciò che è importante e utile. Così, questi dati sono coerenti in relazione alla importanza della "responsività" del terapeuta discussa da Stiles e Shapiro (1994). I terapeuti interpersonali, al contrario, appaiono meno "responsivi" su questa dimensione (per es., mantengono un approccio interpersonale incuranti del fatto che il paziente lo consideri utile). Naturalmente, questo focus è affidato a un manuale di trattamento della terapia interpersonale, presupponendo che tutti i casi di depressione abbiano una componente interpersonale.

In generale, il numero e la qualità degli episodi relazionali nelle sedute di terapia sembra essere primariamente una funzione della qualità dell’alleanza terapeutica e del tipo di trattamento. Le scoperte sull’alleanza rinforzano nuovamente la centralità di questo aspetto della psicoterapia, aggiungendosi all’ampia letteratura sull’importanza dell’alleanza sull’esito (Horvath & Symonds, 1991). Non è inaspettato che un paziente depresso possa sentirsi più a suo agio raccontando dettagliatamente interazioni interpersonali problematiche (per es., raccontando di una persona amata deceduta) in un contesto di alleanza positiva. Il fatto che sia importante la natura della modalità di trattamento suggerisce che ci sia l’opportunità per il terapeuta di facilitare lo sviluppo di più narrative, e di narrative più complete, in psicoterapia. Perché potrebbe essere utile fare questo? Gli studi sul contenuto delle narrative sono collegati a questo problema e vengono passati in rassegna nella sezione seguente.



Contenuto delle narrative



Vi sono numerose ragioni per indagare i contenuti interpersonali delle narrative nelle sedute. Per prima cosa, i differenti contenuti interpersonali, che riflettono i temi interpersonali predominanti dei pazienti, possono essere in relazione con l’esito del trattamento o con altre variabili del processo. McMullen e Conway (1997), per esempio, hanno trovato che i pazienti che presentavano episodi relazionali contenenti più atti ostili del sé avevano un peggior esito del trattamento rispetto a pazienti le cui azioni del sé, nelle narrative, venivano siglate come principalmente amichevoli-sottomesse. Indagini sul contenuto interpersonale delle narrative possono anche gettare luce sulla natura dei temi relazionali e dei problemi interpersonali di per sé, includendo temi interpersonali che appaiono nelle relazioni con il terapeuta. In ultimo, la valutazione del contenuto interpersonale può servire come base per la comprensione delle azioni del terapeuta rispetto ai temi interpersonali trattati nelle sedute.

Il principale sistema che abbiamo usato nella nostra ricerca sui temi interpersonali contenuti nelle narrative è il metodo del ccrt (Luborsky, 1977). Dettagli di questo metodo e una revisione di precedenti studi che hanno fatto uso di questo strumento sono stati presentati altrove (Luborsky e Crits-Christoph, 1990). Questi studi comprendono ricerche sull’attendibilità nella valutazione dei pattern del ccrt nelle narrative (Crits-Christoph et al., 1988), cambiamenti nel pattern del ccrt lungo il corso di una psicoterapia dinamica (Crits-Christoph e Luborsky, 1990), pattern del ccrt nei sogni versus narrative (Popp, Diguer, Luborsky e Faude, 1996). Qui descriverò brevemente l’essenza del metodo del ccrt e riesaminerò alcuni degli studi più recenti che includono varianti del ccrt.

Il metodo del ccrt impiega giudici clinici per formulare le tre principali componenti dei patterns interpersonali: i desideri o bisogni del paziente in situazioni relazionali, la percezione della risposta degli altri verso il paziente e la conseguente risposta del paziente (risposta del sé). Per ogni paziente giudici indipendenti leggono gli episodi relazionali individuati nelle sedute (generalmente vengono usati un minimo di dieci episodi per paziente), identificano i desideri principali, le risposte dell’altro e le risposte del sé contenute in ciascun episodio. Dopo aver letto tutti gli episodi di un determinato paziente i giudici rileggono gli episodi e modificano la loro valutazione di ciascuno basandosi sulla comprensione del materiale ottenuta dalla lettura di tutti gli episodi. Il ccrt finale deriva dalla lista dei desideri, risposte dell’altro, risposte del sé, con la più alta frequenza all’interno di tutti gli episodi appartenenti a un paziente.

Una modifica del metodo del ccrt, chiamata Quantitative Assessment of Interpersonal Themes (quaint, Crits-Christoph, Demorest & Connolly, 1990) è stata usata in alcuni degli studi più recenti. Il metodo quaint ha modificato l’originale sistema del ccrt in tre modi: 1) gli episodi relazionali in precedenza privati o modificati nelle informazioni che possono favorire l’identificazione vengono estratti dalle trascrizioni ed episodi di differenti pazienti vengono distribuiti in modo casuale (in modo che i giudici non possano identificare quale episodio appartiene a un determinato paziente e ogni episodio viene siglato indipendentemente dagli altri); 2) un vocabolario standard ben validato, lo Structural Analysis of Social Behavior system (Benjamin, 1974), viene usato per codificare i desideri, le risposte dell’altro e le risposte del sé; 3) ciascun episodio viene valutato (su di una scala da 1 a 5) per tutte le categorie, fornendo una dettagliata immagine della totale ampiezza dei possibili contenuti di ciascun episodio. Questi raffinamenti del metodo del ccrt furono compiuti in modo che potessero essere effettuati studi più oggettivi dei pattern di elementi interpersonali attraverso differenti narrative di uno stesso individuo. In più l’uso delle categorie SASB fornisce un punto fermo per la metodologia di ricerca legato a un modello teorico derivato dal modello interpersonale comportamentale, piuttosto che affidarsi alle categorie empiriche che si svilupparono nel contesto del metodo originale del ccrt.

Un esempio di due episodi relazionali siglati con il sistema quaint è mostrato nella figura 1. Anche se il metodo quaint completo utilizza 104 categorie diverse (32 desideri, 32 risposte dell’oggetto, 40 risposte del sé), il nostro studio ha trovato che comunemente da 29 a 38 di questi items vengono siglati con sufficiente attendibilità (per es., con attendibilità fra giudici maggiore di .65) da poter essere considerati per l’analisi. La figura 1 rappresenta la valutazione media (la media dei tre giudici) per 12 desideri, 12 risposte dell’oggetto e 14 risposte del sé per l’episodio con l’amico Joe e per un altro episodio dello stesso paziente con la madre di questo. L’episodio con Joe era caratterizzato da un’alta percentuale del desiderio "essere aiutato e protetto" e del desiderio "essere assertivo e autonomo". La principale risposta dell’oggetto era "è degno di fiducia e affidabile", e la più frequente risposta del sé era "mi sento costretto e impotente". Anche l’episodio con la madre era caratterizzato dal desiderio "essere assertivo e autonomo" e dalla risposta del sé "mi sento costretto e impotente". Nessuna risposta dell’oggetto era frequente nell’episodio con la madre. Il profilo delle siglature nell’episodio con Joe può essere confrontato con il profilo delle siglature dell’episodio con la madre utilizzando una correlazione di Pearson attraverso i due profili. In questo caso, la correlazione era .64, indicando un alto grado di somiglianza fra i due profili, come appariva evidente nell’analisi dei singoli items.

Questo metodo di confronto dei profili di singoli episodi fu utilizzato da Crits-Christoph, Demorest, Muenz e Baranackie (1994) per esaminare la stabilità dei temi interpersonali in tutti gli episodi raccontati dai pazienti nelle tre sedute iniziali del trattamento. Circa 10 narrative di ciascuno dei 60 pazienti del campione VA-Opiate furono siglate da tre giudici indipendenti usando il sistema quaint. Per ciascun paziente, il profilo dei 38 items per ciascun episodio relazionale fu correlato con tutti gli altri episodi di quel paziente e fu calcolata la correlazione media fra le narrative. Dato che queste correlazioni medie erano calcolate fra i profili di ciascun paziente, test di significatività statistica potevano non essere appropriati.







FIGURA 1. Valutazione dei desideri, delle risposte degli altri (ro) e delle risposte del sé (rs) all’interno di due narrative.



Per poter controllare livelli di correlazione casuali fra i profili, abbiamo condotto test permutazionali (Gibbons, 1985). I test permutazionali forniscono un livello base di correlazione che potrebbe verificarsi per caso. Questo metodo implica il confronto della correlazione media corretta tra i profili e la correlazione media ottenuta risistemando (permutando) casualmente gli items per ciascun profilo che venga confrontato (per es., l’item 1 nella narrativa 1 si associa casualmente con l’item 17 nella narrativa 2, e così via). Le permutazioni casuali sono state ripetute 1000 volte per profilo in ciascuna narrativa, e la corretta correlazione media è stata confrontata con la distribuzione delle correlazioni medie ottenute dalle permutazioni.

La più importante scoperta rivelata da questa analisi fu la ricorrenza di una debole correlazione media dei profili narrativi in un paziente. Le correlazioni medie di ciascun paziente erano comprese fra .00 e .44, con una mediana di .13 (Crits-Christoph et al., 1994). Sulla base dei test permutazionali, fu trovata una concordanza interna dei temi interpersonali attraverso le narrative per 49 dei 60 pazienti. Così, sebbene i risultati abbiano mostrato una bassa concordanza dei temi interpersonali in media all’interno del campione di pazienti, c’era una ampia variabilità nella pervasività dei temi interpersonali e la maggior parte dei pazienti ha mostrato una concordanza interna maggiore di quanto ci si potesse aspettare per caso. Nessun paziente, però, ha mostrato un singolo tema che comparisse in tutte le narrative.

Questi risultati ci hanno portato a rifiutare l’idea che lo stesso tema interpersonale probabilmente apparirà in tutte le narrative. In una ricerca successiva (descritta in seguito) siamo passati a dei metodi che permettono una molteplicità di temi attraverso un gruppo di narrative per paziente. Il fatto che un certo grado di ripetitività dei temi interpersonali sia percepibile nelle narrative, comunque, è un passo importante nel confermare un aspetto del concetto del transfert come una rappresentazione mentale che viene applicata alle relazioni attuali e a quelle nuove nella vita del paziente. Nella prossima sezione descriverò come abbiamo usato le narrative per indagare in modo più specifico il fenomeno clinico del transfert, in particolare nella relazione terapeutica.



Il contenuto delle narrative riguardo al terapeuta



Come menzionato in precedenza, i pazienti spesso raccontano narrative riguardo ai loro terapeuti. Per esempio, i pazienti a volte raccontano qualche cosa che il terapeuta ha precedentemente detto loro e come loro hanno reagito a questo. Si verificano anche episodi relazionali che sono "messi in atto", che accadono in tempo reale tra paziente e terapeuta. Il metodo del ccrt dà l’opportunità di studiare il contenuto di questi episodi relazionali che coinvolgono il terapeuta. Di primario interesse è se i modelli di comportamento messi in atto con il terapeuta siano simili o diversi dai modelli che sono evidenti nelle altre relazioni del paziente fuori dalla terapia (per es., la nozione clinica di transfert nella relazione terapeutica). Fino a oggi abbiamo sviluppato tre studi per cercare di esaminare questa nozione clinica fondamentale.

Il primo di questi studi (Fried, Crits-Christoph & Luborsky, 1992) ha usato il metodo originale del ccrt applicato agli episodi relazionali che avevano come oggetto il terapeuta versus tutti gli altri episodi relazionali. Per 35 pazienti in psicoterapia dinamica, un gruppo di tre giudici ha calcolato la somiglianza dei pattern del ccrt negli episodi col terapeuta versus quella dei pattern del ccrt negli episodi con "altre persone". Per ciascun paziente, i giudici hanno calcolato anche la somiglianza dei pattern del ccrt degli episodi col terapeuta rispetto ai ccrt derivati dagli altri pazienti, per controllare livelli di somiglianza casuali. I risultati indicavano un ulteriore livello casuale di somiglianza per il desiderio e la risposta del sé del ccrt, ma non per la risposta dall’altro. Ulteriori analisi esplorative hanno rivelato che il livello di somiglianza aumentava quando erano disponibili più episodi relazionali coinvolgenti il terapeuta, probabilmente come risultato di un pattern di ccrt con il terapeuta più attendibile; questo emerge con l’aumentare del numero degli episodi con il terapeuta stesso.

Dal momento che questo primo studio (Fried et al., 1992) ha usato il metodo originale del ccrt, esso è stato limitato dal fatto che i giudici del ccrt valutavano insieme gli episodi relazionali del terapeuta e gli episodi con le altre persone come un set (per es., sapevano quale narrativa riguardava il terapeuta e quale "altre persone" per ciascun paziente, e infatti revisionavano i punteggi dopo aver letto l’intero set). Nel nostro successivo studio riguardante gli episodi relazionali che coinvolgono il terapeuta, abbiamo utilizzato il metodo quaint che non permette ai giudici di conoscere quale narrativa proviene da quale paziente. Inoltre, il metodo quaint fornisce un più completo profilo dei desideri, delle risposte degli altri e delle risposte del sé. In questo secondo studio (Connolly, Crits-Christoph, Demorest, Azarian, Muenz & Chittams, 1996), 35 dei 60 pazienti dipendenti da oppiacei esaminati nello studio da Crits-Christoph et al. (1994) erano selezionati in base alla presenza di almeno una narrativa riguardante il terapeuta. Basandosi sui risultati di Crits-Christoph et al. (1994) che mostrano solo un piccolo grado di coerenza dei temi attraverso tutti gli episodi relazionali, rifiutiamo il concetto che il pattern del ccrt si possa applicare a tutti gli episodi.

Invece che affidarci al pattern del ccrt che appare il più elevato in frequenza in tutte le narrative, per lo studio di Connolly et al. (1996) abbiamo utilizzato una metodologia che coinvolge l’analisi a cluster dei temi per ciascun paziente. I 38 items dei profili quaint per ciascuna narrativa dei pazienti sono stati intercorrelati e cluster analizzati. È stata selezionata, per definire un cluster, una correlazione media inter-narrativa di almeno .30. La figura 2 mostra un esempio di analisi a cluster dell’intero set delle narrative raccontate dal paziente che ha collegato le due narrative presentate nella figura 1. Come si può vedere, le due narrative più altamente intercorrelate riguardo a Joe e la madre formano un cluster, un altro cluster è definito da episodi simili riguardo alla ragazza e al padre, un terzo cluster contiene le narrative riguardo un poliziotto e l’amico Pete e un quarto cluster è sulle storie riguardo il padrone di casa, i genitori, i genitori di un’amica (Karen) e un dottore. I distinti temi contenuti in ciascuno di questi cluster possono quindi essere esaminati in termini del loro grado di similarità alle narrative riguardanti il terapeuta.





FIGURA 2. Cluster analisi delle narrative di un paziente basate sul contenuto interpersonale



Abbiamo ottenuto un set simile dei cluster delle narrative per ciascuno dei 35 pazienti studiati. Per ciascun cluster è stato calcolato un profilo medio facendo la media delle narrative in quel cluster. Il cluster che conteneva il più alto numero di profili di narrative è stato chiamato "cluster principale". Tutti i profili dei cluster sono stati quindi correlati con il profilo delle narrative riguardo al terapeuta per ciascun paziente. Ancora una volta sono stati utilizzati test permutazionali per valutare il significato statistico.

I risultati degli studi di Connolly et al. (1996) hanno rivelato che tutti i pazienti dell’esempio avevano almeno un cluster che conteneva episodi relazionali multipli, supportando l’ipotesi che i pazienti mostrano simili temi interpersonali almeno attraverso alcune relazioni nella loro vita. Inoltre, la maggioranza dei pazienti ha più di un cluster di narrative, che indica che diversi temi sono spesso evidenti. La comparazione delle narrative con "altre persone" con gli episodi relazionali del terapeuta ha rivelato una correlazione significativa tra alcuni profili di cluster e il profilo del terapeuta per il 60% dei pazienti. Il "cluster principale" ha dimostrato una correlazione significativa col profilo del terapeuta nel 34% dei pazienti.

Una spiegazione alternativa per la somiglianza trovata tra gli episodi relazionali con il terapeuta e gli altri episodi è che i terapeuti possono creare l’esistenza di un pattern. Esistono diversi modi in cui questo può accadere. Primo, un dato terapeuta può fungere da stimolo per creare un particolare tema interpersonale nella relazione paziente-terapeuta. Per esempio, un paziente che ha problemi di dipendenza può evocare comportamenti rifiutanti da parte del terapeuta il quale è a disagio con la dipendenza che il paziente sta agendo. Il paziente quindi racconta una narrativa riguardo a come si è sentito rifiutato dal terapeuta durante l’ultima seduta; nello stesso modo si sente rifiutato dagli altri. In questo caso c’è un elemento transferale (il paziente porta schemi pre-esistenti alla transazione relazionale problematica), ma anche l’altra persona contribuisce (per es., una risposta controtransferale dal terapeuta). In una variante di questa possibilità, un dato terapeuta può avere un atteggiamento leggermente rifiutante (o quantomeno separante) con tutti i pazienti, e questo conduce all’attivazione di cliché di transfert nella relazione terapeutica per quei pazienti che sono sensibili al rifiuto (questo vuole essere un esempio di una scarsa armonia paziente-terapeuta).

Un altro modo in cui può verificarsi la somiglianza tra gli episodi con il terapeuta e gli altri episodi è quando il paziente presenta un tema interpersonale ripetitivo manifestato nelle relazioni fuori-della-terapia, e il terapeuta interpreta questo tema come rilevante per la relazione terapeutica anche se in realtà non c’è evidenza di questo tema nella relazione paziente-terapeuta (per es., non si è verificato transfert verso il terapeuta). I terapeuti psicodinamici che sono portati a iper interpretare il transfert possono evidenziare questo tipo di formulazione inaccurata della natura della relazione paziente-terapeuta e possono convincere il paziente di questa formulazione. Il paziente può quindi sentirsi portato a raccontare una storia sul terapeuta che appare aderire alla conclusione di questi, quindi producendo delle somiglianze nelle narrative al di fuori della terapia con gli episodi relazionali con il terapeuta. In un altro esempio estremo un terapeuta può evocare una intera serie di narrative riguardanti altre persone che contengono materiale che sembra confermare la formulazione inaccurata del terapeuta. Né il tema nella narrativa paziente-terapeuta, né il tema nelle narrative altre-persone è accurato in questo scenario, ma i temi si assomigliano per il potere persuasivo del terapeuta nel convincere il paziente che la formulazione è corretta.

Negli studi di Connolly et al. (1996) si è trovato un equivalente grado di correlazione del profilo del "cluster principale" con il profilo del terapeuta per la terapia cognitiva e la terapia psicodinamica. Comunque, la terapia psicodinamica ha rivelato correlazioni significativamente alte del cluster secondario con le narrative del terapeuta, mentre la terapia cognitiva ha rivelato correlazioni significativamente alte tra le singole narrative (non collegate ad altre narrative nel loro contenuto) e gli episodi relazionali del terapeuta. Quanto questi risultati indichino che il terapeuta riformula in modo inaccurato ciò che sta accadendo nella relazione paziente-terapeuta, e di conseguenza evochi narrative che appaiono in linea con questa formulazione, piuttosto che differenti abilità dei terapeuti dinamici o cognitivi alla presa in esame di temi ripetitivi (dinamici) o di specificità situazionali (cognitivo-comportamentale), può non essere rivelato dai dati, ma solleva interessanti possibilità per quanto riguarda ulteriori approfondimenti.

Mentre nessuna di queste spiegazioni alternative è facile da escludere, abbiamo condotto un terzo studio sulla somiglianza delle narrative con il terapeuta e le narrative con altre persone tentando di eliminare l’influenza del terapeuta. In questo studio (Connolly, Crits-Christoph, Barber & Luborsky, 1997), le narrative riguardo alle altre persone erano ottenute, prima che la terapia cominciasse, attraverso l’uso di una intervista semi-strutturata, e le narrative del terapeuta erano ottenute dalle sedute di trattamento. Questi dati erano parte di uno studio più grande (Diguer, Barber & Luborsky, 1993) sulla terapia dinamica breve per la depressione maggiore. Per 18 pazienti che hanno avuto almeno un episodio relazionale col terapeuta, le valutazioni col metodo quaint erano formulate sulle narrative ottenute prima della terapia, e un secondo set di giudici per la quaint ha valutato le narrative del terapeuta ottenute dalle sedute di trattamento. I risultati erano molto concordanti con i primi studi (Connolly et al., 1996), con il 50% dei pazienti che mostravano un moderato o elevato grado di somiglianza tra un cluster narrativo multiplo e il profilo tematico del terapeuta, e il "cluster principale" che mostrava questa somiglianza nel 33% dei pazienti.

I risultati generali di questi tre studi della relazione terapeutica come rivelato nelle narrative sono che: 1) il "transfert" verso il terapeuta si verifica, ma non è rilevabile con i nostri metodi per tutti i pazienti (solo per metà); 2) il tema "trasferito" alla relazione con il terapeuta non è sempre il tema interpersonale più pervasivo; 3) il terapeuta non sembra "creare" i temi nella relazione terapeutica. Questi studi, comunque, sono tutti limitati dall’uso delle prime sedute di terapia (generalmente le sedute 3-6) per esaminare la relazione paziente-terapeuta. Le prime sedute di terapia sono state usate in questi studi per l’enfasi data dalla terapia breve alla formulazione rapida e all’intervento. Comunque, uno studio (Crits-Christoph, Demorest & Connolly, 1990) su di un singolo paziente usando una versione preliminare del metodo quaint ha trovato che, effettivamente, la somiglianza tra i temi con altre persone e con il terapeuta non si verificava entro la prima metà di un trattamento di 31 sedute, ma emergeva nella seconda. Nei nostri studi attuali delle sedute tdcrp saremo in grado di esaminare se il transfert verso il terapeuta emerge abitualmente più spesso durante la seconda metà delle terapie brevi.



Interventi del terapeuta basati sulle formulazioni delle narrative



Se si verifica il transfert verso il terapeuta, questo suggerisce che la tecnica psicodinamica spesso raccomandata dell’interpretazione dei temi del transfert nella relazione paziente-terapeuta è il modo più efficace di indurre un cambiamento nel corso del trattamento? La letteratura sulla frequenza delle interpretazioni del transfert è stata rivista da Henry, Strupp, Schacht & Gaston (1994), i quali hanno trovato poco supporto alla nozione che più interpretazioni della relazione paziente-terapeuta hanno prodotto migliori esiti. Infatti, diversi studi recenti (Connolly, Crits-Christoph, Shappell, Barber & Luborsky, 1997; Hoglend, 1993; Piper, Joyce, McCallum & Azim, 1993) in realtà hanno scoperto che elevate percentuali di interpretazioni della relazione paziente-terapeuta sono associate a limitati risultati, almeno per alcuni sottogruppi significativi di pazienti. Questi risultati negativi forse non sorprendono, alla luce dei nostri dati, che indicano che circa metà dei pazienti in terapia breve non mostrano un evidente effetto del "transfert verso il terapeuta", almeno durante le prime sedute del trattamento. I terapeuti che si focalizzano in larga parte sulla relazione terapeutica probabilmente evocano una reazione negativa o almeno confusa riguardo alla terapia. Comunque, nonostante la mancanza di effetti del transfert trovati nella relazione terapeutica e la letteratura emergente degli effetti negativi di alte percentuali di interpretazione del transfert, ci sono diverse ragioni che dimostrano come sia prematuro l’abbandono dell’attenzione della ricerca sul ruolo del transfert nella relazione terapeutica. Può essere che l’attenzione a questo tipo di transfert sia particolarmente rilevante per un sottogruppo di pazienti (per es. pazienti con disturbi borderline di personalità), mentre invece sia meno rilevante per molti altri pazienti. Può essere inoltre che mentre elevate percentuali di interpretazione del transfert sono problematiche, una sola interpretazione fornita al momento opportuno riguardo la relazione terapeutica possa avere un impatto significativo.

Invece che focalizzarsi sulla frequenza di un certo tipo di intervento (per es., quelli collegati alla relazione paziente-terapeuta), la nostra ricerca sui temi interpersonali nelle narrative ci ha portato a esaminare l’accuratezza degli interventi del terapeuta. L’accuratezza è giudicata in base al grado in cui il terapeuta indirizza i temi interpersonali che sono contenuti nelle narrative. La valutazione dell’accuratezza rispecchia il processo nel quale i terapeuti sono impegnati mentre conducono la terapia dinamica supportivo-espressiva di Luborsky (1984): i terapeuti dapprima ascoltano le descrizioni dei pazienti delle loro interazioni con gli altri, quindi formulano un modello di ccrt e interpretano questo modello al paziente, mantenendo questo focus in una terapia dinamica breve. È da notare che l’accuratezza si riferisce alle risposte del terapeuta verso i temi interpersonali generali del paziente (per es., le relazioni fuori della terapia), non specificatamente verso i temi nella relazione col terapeuta.

Il nostro metodo di ricerca per valutare l’accuratezza comprende i seguenti punti: 1) localizzare le narrative nelle sedute; 2) valutare i temi interpersonali in queste narrative usando sia il metodo originale del ccrt sia il metodo quaint; 3) identificare ed estrapolare gli interventi principali del terapeuta durante le sedute (per es., le interpretazioni); 4) valutare il grado in cui ciascun intervento è rivolto a ciascuna componente del ccrt (per es., desideri, risposte dagli altri, risposte dal sé). Ciascuno di questi compiti di valutazione è svolto da gruppi separati di giudici che lavorano in modo indipendente.

Un esempio, preso da Crits-Christoph, Barber & Kurcias (1993), può servire a illustrare il nostro concetto di accuratezza. Il ccrt (usando il metodo originale) formulato da giudici clinici su un paziente contiene un desiderio (di essere in contatto con gli altri, di essere vicino), due risposte negative dagli altri (critico, non utile) e due risposte dal sé (non coinvolto con le persone, ansioso). Il terapeuta ha dato la seguente interpretazione al paziente in una seduta: «I miei pensieri riguardo a ciò sono di questo tipo: se lei si avvicina a qualcun altro, la sua percezione è che la possa controllare e farle fare cose e dirle di fare delle cose e... il fatto di non voler essere controllato potrebbe mettere una distanza tra lei e gli altri». Questa dichiarazione del terapeuta è stata valutata come accurata sul desiderio (di essere vicino) e sulla prima risposta dal sé (non coinvolto con la persona), ma non accurata nelle risposte dagli altri o sulla seconda risposta dal sé (ansioso).

Usando questa metodologia, abbiamo esaminato il rapporto tra accuratezza e risultati, contrasto e alleanza. Nel primo studio sull’accuratezza, Crits-Christoph, Cooper e Luborsky (1988) hanno valutato l’accuratezza delle interpretazioni tratte da due sedute all’inizio del trattamento per 45 pazienti in psicoterapia dinamica moderatamente lunga (circa un anno). È stato scoperto che l’accuratezza sui desideri principali e le risposte dagli altri era correlata in modo significativo (r = .44, p < .01) ai risultati del trattamento, anche dopo aver controllato gli effetti di errori generali nella tecnica e la qualità dell’alleanza terapeutica. L’accuratezza relativa alle risposte negative del sé non è collegata ai risultati. Queste scoperte suggeriscono che quando i terapeuti si rivolgono con accuratezza agli aspetti interpersonali del materiale del paziente (per es., i desideri verso gli altri e le loro risposte attese o effettive), invece che agli stati emotivi dei pazienti (per es., la risposta del sé del ccrt), si verificano grandi progressi.

Uno studio successivo ha investigato la relazione dell’accuratezza dell’intervento con lo sviluppo dell’alleanza terapeutica (Crits-Christoph, Barber & Kurcias, 1993). I risultati dello studio indicavano che l’accuratezza composta dal desiderio e dalla risposta dall’altro del ccrt correlavano in modo significativo con il cambiamento nell’alleanza precoce e tardiva (circa 9 mesi) nel trattamento. Questo risultato è indipendente dall’impatto del grado di salute-malattia psicologica sull’alleanza. Quando l’accuratezza era bassa, l’alleanza positiva iniziale si deteriorava e la scarsa alleanza iniziale non migliorava.

Quindi, la qualità della relazione con il terapeuta non è semplicemente una funzione di ciò che il paziente porta in terapia, ma appare influenzata dagli interventi tecnici del terapeuta.

Il concetto di accuratezza dell’intervento è stato anche esaminato da altri studiosi. Piper, Joyce, McCallum & Azim (1993) trovarono che la corrispondenza delle interpretazioni con l’iniziale formulazione dinamica del terapeuta era correlata significativamente con i risultati di un campione di 64 pazienti trattati con terapia dinamica breve. Silberschatz, Fretter e Curtis (1986) hanno trovato che, per ciascuno dei tre pazienti osservati, il grado in cui le interpretazioni dei terapeuti erano rivolte in modo accurato a una formulazione del paziente dedotta indipendentemente aveva un valore predittivo di una risposta più immediatamente positiva alle interpretazioni. Proseguendo lo studio di Silberschatz et al. (1986), Norville, Sampson e Weiss (1996) aggiunsero quattro pazienti in più per un totale di sette e trovarono che l’accuratezza media del terapeuta era altamente correlata con il risultato del trattamento. Sebbene il concetto di accuratezza sia emerso da una tradizione psicodinamica, eravamo anche interessati al grado in cui questo è applicato ad altre forme di terapia. Può essere, per esempio, che efficaci terapeuti cognitivi-comportamentali si focalizzino anche sui temi relazionali ripetitivi maladattivi dei loro pazienti, pur usando i modelli e il linguaggio di una prospettiva cognitivo-comportamentale. Abbiamo esaminato l’accuratezza in relazione ai drop-out dalla terapia in un campione di 34 pazienti dipendenti da oppiacei trattati con terapia cognitiva tratti dal trial clinico di Woody et al. (1983). I risultati indicarono che l’accuratezza dell’interpretazione è correlata significativamente alla durata del trattamento nella terapia cognitiva (Crits-Christoph & Baranackie, 1991). Tra i casi dove si verificava un basso livello di accuratezza (sotto la mediana), nessuno dei pazienti era rimasto in trattamento più a lungo di 10 sedute. Dove c’era un elevato livello di accuratezza, il 39% dei pazienti era stato in trattamento più a lungo di 10 sedute. La ricerca attuale esaminerà la relazione dell’accuratezza con i risultati, includendo le ricadute e il ripresentarsi dei sintomi, seguendo sia la terapia cognitiva che quella interpersonale.

La possibilità che l’accuratezza nel focalizzare i temi interpersonali sia un concetto teoricamente trasversale solleva la questione di quanto ciò sia simile al concetto clinico di empatia che è importante per molte scuole di psicoterapia. Comunque, la nostra misura dell’accuratezza si riferisce più specificamente a un modello interpersonale, gli elementi del ccrt (desideri, risposte degli altri, risposte del sé), piuttosto che a una comprensione di ciò che il paziente sta esprimendo o sentendo in quel momento. Abbiamo esaminato questa relazione direttamente, correlando una misura delle qualità Rogeriane (la Facilitative Conditions subscale of the Collaborative Study Psychotherapy Rating Scale, Hill, O’Grady & Elkin, 1992) con l’accuratezza dell’intervento. Per pazienti sia in terapia dinamica (r=.08, p>.10) che cognitiva (r= - .26, p > .10), non era evidente una relazione statistica significativa tra queste misure.



Conclusioni e raccomandazioni



Le narrative riguardanti le interazioni con gli altri forniscono una finestra sulla comprensione dei temi interpersonali (relazionali) ripetitivi. Il nostro approccio allo studio delle narrative ha unito un metodo ideografico (analisi a cluster dei dati di un singolo paziente) con un metodo nomotetico (le categorie standard del comportamento interpersonale basate sulla sasb). Questo metodo combinato ideografico e nomotetico possiede il potenziale per catturare importanti fenomeni clinici a livello individuale, ma non in termini generalizzabili per gruppi più ampi di pazienti. Ciò nonostante questo contributo metodologico può essere utile per migliorare la ricerca sul processo interpersonale in psicoterapia.

A un livello pratico i risultati dei nostri studi sulla natura dei temi interpersonali in psicoterapia sono più coerenti con i modelli che pongono enfasi su patterns multipli piuttosto che su di un singolo tema. L’estensione rispetto alla quale ciascuno dei temi di un paziente appare differentemente correlato al processo terapeutico (es. alleanza) e al risultato della terapia rimane una domanda interessante per ulteriori ricerche. Studi sull’accuratezza del terapeuta rispetto ai temi interpersonali dovranno tenere conto della molteplicità dei temi che compaiono.

Ci si può anche interrogare sulle numerose implicazioni dei nostri risultati nella pratica clinica. Se un terapeuta è interessato a porre l’attenzione sui processi interpersonali in terapia, i nostri dati suggeriscono che nel modificare il proprio modello di trattamento e porre attenzione alla qualità dell’alleanza il terapeuta può incoraggiare l’articolazione da parte del paziente di narrative più numerose e di migliore qualità, in questo modo ottenendo un ampio materiale clinico per la formulazione di tali dinamiche interpersonali. Un’altra implicazione dei nostri risultati per la pratica si riferisce al grado di attenzione alla relazione paziente-terapeuta. Mentre i nostri studi suggeriscono che si verifichi il transfert nei confronti del terapeuta, ciò non è evidente per tutti i pazienti (almeno nelle prime fasi del trattamento). La conseguenza nella pratica della terapia breve è che un alto livello di attenzione alla relazione terapeutica non è probabilmente indicato per molti pazienti. L’attenzione, durante la terapia, ai temi interpersonali al-di-fuori della relazione terapeutica (cioè il transfert nella vita quotidiana) potrebbe essere un metodo sufficiente, se non migliore, per produrre il cambiamento.

Lo studio dei processi interpersonali in psicoterapia è un compito difficile e complesso, ed è difficile stabilire delle sicure connessioni causali. Ciò non di meno finora la ricerca del nostro gruppo e di altri suggerisce che sia possibile studiare questi fenomeni e che una parte dell’azione terapeutica della terapia psicodinamica, come di quella cognitivo-comportamentale, probabilmente include processi interpersonali in seduta e fuori da questa. Svelare i meccanismi interpersonali di cambiamento in psicoterapia può esserci di aiuto nel costruire trattamenti più efficaci, insegnare la psicoterapia in modo più efficace e forse fornire informazioni sulla natura della psicopatologia e delle relazioni umane in generale.



Bibliografia



Beck A.T., Rush A.J., Shaw B.F. & Emery G. (1979), Cognitive therapy of depression, Guilford Press, New York.

Benjamin L.S. (1974), Structural analysis of social behavior, in «Psychological Review», 81, 392-425.

Benjamin L.S. (1991), Brief sasb-directed reconstructive learning therapy, in Crits-Christoph P. & Barber J.P. (Eds.), Handbook of short-term dynamic psychotherapy, pp. 248-86, Basic Books, New York.

Benjamin L.S. (1993), Interpersonal diagnosis and treatment of personality disorders, Guilford Press, New York.

Bond J.A., Hansell J. & Shevrin H. (1987), Locating transference paradigms in psychotherapy transcripts: Reliability of relationship episode location in the core conflictual relationship theme (ccrt) method, in «Psychotherapy», 24, pp. 736-49.

Connolly M.B., Crits-Christoph P., Barber J.P. & Luborsky L. (1997), Interpersonal themes before therapy compared to themes in the relationship with the therapist, unpublished manuscript.

Connolly M.B., Crits-Christoph P., Demorest A., Azarian K., Muenz L. & Chittams J. (1996), Varieties of transference patterns in psychotherapy, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 64, pp. 1213-21.

Connolly M.B., Crits-Christoph P., Shappell S., Barber J.P. & Luborsky L. (1997, June), The role of transference interpretations in brief supportive-expressive psychotherapy for depression, paper presented at the meeting of the Society for Psychotherapy Research, Geilo, Norway.

Crits-Christoph P. (1991, July), When therapists miss the mark, paper presented at the meeting of the Society For Psychotherapy Research, Lyons, France.

Crits-Christoph P. & Baranackie K. (1991, November), The Process of cognitive and dynamic psychotherapies for substance abusers, paper presented at the meeting of the North American Society for Psychotherapy Research, Panama City, FL.

Crits-Christoph P., Barber J.P. & Kurcias J.S. (1993), The accuracy of therapists’ interpretations and the development of the therapeutic alliance, in «Psychotherapy Research», 3, pp. 25-35.

Crits-Christoph P., Connolly M.B., Shappell S., Elkin I., Krupnick J. & Sotsky S. (1997), Interpersonal narratives in cognitive and interpersonal psychotherapies, manuscript submitted for publication.

Crits-Christoph P., Cooper A. & Luborsky L. (1988), The accuracy of therapists’ interpretations and the outcome of dynamic psychotherapy, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 56, pp. 490-95.

Crits-Christoph P. & Luborsky L. (1990), The changes in ccrt pervasiveness during psychotherapy, in Luborsky L. & Crits-Christoph P., Understanding Transference: The ccrt Method, Basic Books, New York.

Crits-Christoph P., Luborsky L., Dahl L., Popp C., Mellon J. & Mark D. (1988), Clinicians can agree in assessing relationship patterns in psychotherapy: The core conflictual relationship theme method, in «Archives General Psychiatry», 45, pp. 1001-04.

Crits-Christoph P., Demorest A. & Connolly M.B. (1990), Quantitative assessment of interpersonal themes over the course of psychotherapy, in «Psychotherapy», 27, pp. 513-21.

Crits-Christoph P., Demorest A., Muenz L.R. & Baranackie K. (1934), Consistency of interpersonal themes for patients in psychotherapy, in «Journal of Personality», 62, pp. 499-526.

Davies-Osterkamp S., Strauss B.M. & Schmitz N. (1996), Interpersonal problems as predictors of symptom related treatment outcome in long term psychotherapy, in «Psychotherapy Research», 6, pp. 164-76.

Diguer L., Barber J.P. & Luborsky L. (1993), Three concomitants: Personality disorder, psychiatric severity, and outcome of dynamic psychotherapy of major depression, in «American Journal of Psychiatry», 150, pp. 1246-48.

Elkin I., Shea M.T., Watkins J.T., Imber S.D., Luborsky S.M., Collins J.F., Glass D.R., Pilkonis P.A., Leber W.R., Docherty J.P., Fiester S.J. & Parloff M.B. (1989), nimh Treatment of Depression Collaborative Research Program: General effectiveness of treatments, in «Archives of General Psychiatry», 46, pp. 971-82.

Frank E., Kupfer D.I., Perel J.M. & Comes C. (1990), Three-year outcomes for maintenance therapies in recurrent depression, in «Archives of General Psychiatry», 47, pp. 1093-99.

Freud S. (1912/1958), The dynamics of transference, in Strachey J. (Ed. and Trans.), The standard edition of the complete psychological works of Sigmund Freud, 24 volumes, Hogarth Press, London, 1953-1974, 12, pp. 99-108.

Fried D., Crits-Christoph P. & Luborsky L. (1992), The first empirical demonstration of transference in psychotherapy, in «The Journal of Nervous and Mental Disease», 180, pp. 326-31.

Gibbons J.D. (1985), Pitman tests, in Kotz S. & Johnson N.L. (Eds.), Encyclopedia of Statistics, John Wiley, New York.

Henry W.P., Schacht T.E. & Strupp H.H. (1986), Structural Analysis of Social Behavior: Application to a study of interpersonal process in differential psychotherapeutic outcome, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 54, pp. 27-31.

Henry W.P., Strupp H.H., Schacht T.E. & Gaston L. (1994), Psychodynamic approaches, in Bergin A.E. & Garfield S.L. (Eds.), Hand-book of psychotherapy and behavior change, pp. 467-508, John Wiley, New York.

Hill C.E., O’Grady K.E. & Elkin I. (1992), Applying the Collaborative Study Psychotherapy Rating Scale to rate therapist adherence in cognitive-behavior therapy, interpersonal therapy, and clinical management, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 60, pp. 73-79.

Hoglend P. (1993), Transference interpretations and long-term change after dynamic psychotherapy of brief to moderate length, in «American Journal of Psychotherapy», 47, pp. 494-507.

Horowitz L.M. & Vitkus J. (1986), The interpersonal basis of psychiatric symptoms, in «Clinical Psychology Review», 6, pp. 443-69.

Horowitz L.M., Rosenberg S.E., Bauer B.A., Ureno G. & Villasenor V.S. (1988), Inventory of Interpersonal Problems: Psychometric properties and clinical applications, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 56, pp. 885-92.

Horvath A.O. & Symonds D.B. (1991), Relation between working alliance and outcome in psychotherapy: A meta-analysis, in «Journal of Counseling Psychology», 38, pp. 139-43.

Klein M. (1948), Contributions to psychoanalysis, pp. 1321-45, Hogarth Press, London.

Klerman G.L., Weissman IM.M., Rounsaville B.J. & Chevron E.S. (1984), Interpersonal psychotherapy of depression, Basic Books, New York.

Luborsky L. (1977), Measuring a pervasive psychic structure in psychotherapy: The core conflictual relationship theme, in Freedman N. & Grand S. (Eds.), Communicative structures and psychic structures, pp. 367-95, Plenum Press, New York.

Luborsky L. (1984), Principles of psychoanalytic psychotherapy A manual for supportive-expression treatment, Basic Books, New York.

Luborsky L., Barber J.P. & Diguer L. (1992), The meanings of narratives told during psychotherapy: The fruits of a new observational unit, in «Psychotherapy Research», 1, pp. 277-90.

Luborsky L., Pr Crits-Christoph P. (1990), Understanding transference: The ccrt method, Basic Books, New York.

McMullen L.M., Pr Conway J.B. (1997), Dominance and nurturance in the narratives told by clients in psychotherapy, in «Psychotherapy Research», 7, pp. 83-99.

Norville R., Sampson H., LY, Weiss J. (1996), Accurate interpretations and brief psychotherapy outcome, in «Psychotherapy Research», 6, pp. 16-29.

Piper W.E., Joyce A.S., McCallum M. & Azim H.F.A. (1993), Concentration and correspondence of transference interpretations in short-term psychotherapy, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 61, pp. 586-95.

Popp C.A., Diguer L., Luborsky L. & Faude J. (1996), Repetitive relationship themes in waking narratives and dreams, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 64, pp. 1073-78.

Safran J.D. & Segal Z.V. (1990), Interpersonal Process in cognitive therapy, Basic Books, New York.

Silberschatz G., Fretter P. & Curtis J. (1986), How do interpretations influence the process of psychotherapy?, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 54, pp. 646-52.

Singer. J.L. & Salovey P. (1991), Organized knowledge structures and personality, in Horowitz M.J. (Ed.), Person schemas and maladaptive interpersonal patterns, pp. 33-80, University of Chicago Press, Chicago.

Stiles W.B. & Shapiro D.A. (1994), Disabuse of the drug metaphor: Psychotherapy process-outcome correlations, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 62, pp. 942-48.

Strupp H.H. & Binder J.L. (1984), Psychotherapy in a new key, Basic Books, New York.

Sullivan H.S. (1953), The interpersonal theory of psychiatry, W.W. Norton, New York.

Winnicott D. (1958), Collected papers, Basic Books, New York.

Woody. G.E., Luborsky L., McLellan, A.T., O’Brien C.P., Beck A.T., Blaine J., Herman I. & Hole A. (1983), Psychotherapy for opiate addicts: Does it help?, in «Archives of General Psychiatry», 40, pp. 639-45.





* Questo articolo è basato sul Presidential Address dell’incontro annuale della Society for Psychotherapy Research, Geilo, Norvegia, giugno 1997. Per gentile concessione della Guilford Publications, Inc., New York.

La ricerca presentata in questo articolo è stata finanziata dai fondi P50-MH-45178, K02-MH00756 e RO1-MH40472 del National Institute of Mental Health.

Traduzione italiana a cura di Monica Romanengo e Marina Verga, per gentile concessione della Giulford Press, Inc. New York.

Corrispondenza con l’autore: Paul Crits-Cristoph, Ph.D., Department of Psychiatry, University of Pennsylvania, Room 700, 3600 Market St. Philadelphia, PA 19014. E-mail: crits@landru.cpr.upenn.edu.


Drop out in psicoterapie psicodinamicamente orientate:

Uno studio con il metodo del ccrt



C. Masserini, E. Fava, L. Arduini, S. Borghetti, P. Calini, G. Corbellini, A. Ferri, M. Fontolan, S. Gatta, M. Mazzariol, E. Pazzi, E. Spoletini*, P. Pazzaglia.





Riassunto



Il fenomeno delle interruzioni non concordate del trattamento (drop out) costituisce un evento frequente nella pratica psichiatrica. Nel presente lavoro sono analizzate le interruzioni precoci di psicoterapie psicodinamicamente orientate dal punto di vista dei modelli relazionali dei pazienti e delle loro modificazioni nelle prime fasi della terapia. Utilizzando il metodo ccrt di Luborsky, sono stati studiati 16 trattamenti audioregistrati effettuati in ambito pubblico da sette differenti terapeuti. Otto pazienti avevano interrotto il trattamento, mentre altri otto l’avevano continuato. L’evoluzione nel tempo del ccrt nei due gruppi ha mostrato differenze significative. Mentre nei drop outs il modello maladattativo delle relazioni resta invariato, nei pazienti che proseguono la psicoterapia si osserva la comparsa di componenti a valenza positiva nel ccrt. A sei mesi di trattamento, i pazienti drop out hanno un aumento delle risposte positive d’oggetto, ma non delle risposte positive dal sé, mentre i pazienti di controllo mostrano un aumento delle risposte positive dal sé, in assenza di un aumento significativo delle risposte d’oggetto. I risultati sono discussi alla luce dei risvolti nella pratica clinica e nello sviluppo di ulteriori linee di ricerca.



Abstract



Sixteen patients newly admitted in a psychodynamic psychotherapy treatment were studied using the Luborsky’s ccrt method. They represent a tape-recorded sample of a broader population of subjects requesting psychotherapy at the Psychotherapy Service of the University of Milan. Eight patients discontinued their therapy within 12 months. Eight patients continued. At the initial time of the treatment and six months later, the ccrt patterns were compared among the two groups. No difference could be seen at the beginning. Significant differences were found at the six months post baseline ccrt between dropouts and continuers. While the continuers change their maladaptative ccrt pattern, the drop out patients do not. While the continuers show an increase of positive responses from the others and from self, the drop outs show an increase of positive responses from the others without an increase of positive responses from self.

The data seem to suggest that drop outs in our sample are incapable of making use of the "good object" to get better.



Introduzione



Le interruzioni non concordate del trattamento (drop out) costituiscono un evento frequente in tutte le forme di terapia psichiatrica.

In letteratura è segnalato un tasso dei casi di drop out che ha valori variabili in funzione del contesto del trattamento, del tipo di terapia e della diagnosi. I tassi più bassi ovviamente compaiono in quei contesti in cui i pazienti sono stati selezionati e hanno accettato l’invio a specifiche forme di trattamento. Per esempio, Hunt e Andrews (1992) segnalano un tasso del 17% in un gruppo di pazienti con disturbi d’ansia in psicoterapia cognitivo-comportamentale, Wexler e Cicchetti (1992) segnalano tassi dal 19% al 35 % nei disturbi depressivi in funzione del tipo di trattamento ricevuto e Yeomans et al. (1994) segnalano un tasso del 36 % in un gruppo di pazienti borderline in trattamento psicodinamico. Se si considerano invece i primi contatti avvenuti nei servizi pubblici (Baekeland e Lundwall, 1975; Taube, Burns e Kessler, 1984; Morlino, Martucci, Musella, Bolzan, de Girolamo, 1995) e anche nel privato (Pekarik, 1986; Garfield, 1994) i valori salgono frequentemente oltre il 50% dei casi.

Il tasso dei drop out sembra scarsamente correlato a variabili di ordine diagnostico e socio-demografico (Phillips, 1985; Beckham, 1992; Hunt et al., 1992; Pollack, Mordecai e Gumpert, 1992), mentre su di esso inciderebbero più significativamente variabili connesse con la motivazione e le attese del paziente e, in modo meno costante, con alcune caratteristiche del paziente (Frayn e Adams, 1992; Hilsenroth, Handler, Toman, Padawer, 1995; Calini et al., 1998).

La maggior parte dei ricercatori insiste sull’importanza delle relazioni che precocemente s’instaurano tra paziente e terapeuta e sulla percezione che il paziente ha del terapeuta e del tipo di aiuto che questi gli sta fornendo (Fiester, 1977; Mohl, Martinez, Ticknor, Huang, Cordell, 1991; Beckham, 1992).

Partendo da queste ultime considerazioni, è stato suggerito che il tasso dei drop out sia un indicatore della performance di un servizio (Phillip, 1985).

Questi studi hanno avuto finora il limite di non poter contare su strumenti in grado di fornire dati affidabili e riproducibili su quanto avviene tra terapeuta e paziente sin dalle prime fasi della terapia.

Lo sviluppo di metodi di ricerca che, a partire dalla registrazione dei colloqui, analizzano in modo affidabile le interazioni tra paziente e terapeuta, come, per esempio, il ccrt (Core Conflictual Relationship Theme) di Luborsky (Luborsky, 1977) e la sasb (Structural Analysis of Social Behavior) di Benjamin (Benjamin, 1974; Henry, 1996), rendono ora possibile un’analisi sistematica di alcuni aspetti di queste relazioni.

Non è inoltre chiarito, nei diversi contesti, il significato clinico dei drop out, cioè le implicazioni che il fenomeno dell’interruzione del trattamento può avere rispetto all’evoluzione della storia clinica del paziente.

Ricerche recenti hanno portato al superamento della concezione secondo la quale drop out equivale semplicemente a fallimento terapeutico.

Una parte importante dei pazienti drop out, specie i drop out tardivi, avrebbe esiti paragonabili a quelli dei pazienti che continuano la terapia (Pekarik, 1992a, 1992b).

La notevole rilevanza del fenomeno del drop out, l’ambiguità del suo significato clinico, la sua implicazione rispetto alla valutazione del funzionamento dei servizi e dell’efficacia dei trattamenti suggeriscono l’opportunità di un approfondimento di studi in questo ambito.

In questo lavoro analizzeremo le interruzioni precoci di psicoterapie psicodinamicamente orientate dal punto di vista dei modelli relazionali dei pazienti (che interrompono e che continuano) e delle loro modificazioni nelle prime fasi della terapia. L’obiettivo è quello di cogliere assetti relazionali a rischio e la loro evoluzione nelle prime fasi della terapia.

I modelli relazionali e la loro evoluzione nel tempo sono stati valutati con il metodo ccrt di Luborsky e Crits-Cristoph (1990).



Materiali e metodi



Pazienti

I pazienti considerati nello studio appartengono alla popolazione dei pazienti che sono seguiti ambulatoriamente nel servizio di psicoterapia della IV Cattedra di Psichiatria della Università di Milano. La tipologia di questa popolazione è ampiamente descritta nel lavoro di Calini et al. (1998) e corrisponde alla tipologia trovata negli utenti dei servizi ambulatoriali della Regione Lombardia nello studio di Pazzi et al. (1997).

Sono stati inclusi nello studio i primi otto pazienti che hanno abbandonato la psicoterapia, con modalità di drop out; il gruppo di controllo è costituito da otto pazienti in psicoterapia trattati contemporaneamente ai precedenti, scelti in modo da essere omogenei nei confronti dei primi rispetto ai principali parametri anagrafici, diagnostici e ai trattamenti farmacologici eventualmente associati.

Tutti i pazienti erano seguiti in un setting istituzionale con sedute di psicoterapia psicodinamicamente orientata (supportivo-espressiva), da sette terapeuti, di cui cinque esperti (più di 10 anni di esperienza) e due in formazione (da 2 a 5 anni di esperienza).

I terapeuti avevano diversi orientamenti teorici, ma erano abituati a lavorare insieme e a discutere in gruppo i casi clinici.

I pazienti, prima di iniziare il trattamento psicoterapico, avevano usufruito di colloqui di valutazione diagnostica presso il nostro servizio ambulatoriale di consultazione, attuati da psichiatri diversi dai successivi terapeuti.

Le caratteristiche anagrafiche e la diagnosi clinica secondo i codici icd-10 dei pazienti sono descritte nella tabella 1.

Degli otto pazienti che hanno attuato il drop out, quattro hanno interrotto dopo almeno sei mesi di trattamento (casi 1, 2, 4, 5), un paziente ha interrotto dopo un anno (caso 3) (late drop out o tardivi) e tre (casi 6, 7, 8) hanno interrotto prima di sei mesi (early drop out o precoci). In particolare il caso 6 ha interrotto dopo quattro sedute, il caso 7 dopo cinque sedute e il caso 8 dopo dieci sedute.



Nei casi di controllo che non hanno interrotto il trattamento, il caso 15 ha concluso la terapia dopo due anni e gli altri sette sono ancora in trattamento a distanza di più di due anni dalla presa in carico psicoterapica.

La frequenza delle sedute era di una seduta alla settimana per la maggioranza dei pazienti, soltanto in due casi (caso 9 e caso 14) è stata di due sedute alla settimana.



Materiale

Tutte le terapie sono state integralmente registrate, previo consenso informato sottoscritto dal paziente. Tre sedute all’inizio del trattamento (la II, III, IV) sono state scelte per la ratificazione e contrassegnate come tempo T0. Tre sedute a distanza di sei mesi dalle precedenti sono state ratificate e contrassegnate come tempo T1.

Sono stati ratificati tutti gli episodi relazionali presenti nelle tre sedute considerate.

L’insieme delle sedute doveva contenere, come indicato dal manuale di Luborsky, un minimo di dieci episodi relazionali, in caso contrario si è proceduto alla trascrizione di una ulteriore seduta successiva alle prime tre.



Metodo

Il metodo ccrt (Core Conflictual Relationship Theme) di Luborsky è stato utilizzato in questo studio. Il ccrt è basato sull’individuazione di unità narrative tratte dalle trascrizioni dei colloqui audioregistrati delle sedute di psicoterapia.

Queste unità narrative contengono la descrizione di episodi relazionali (er) che il paziente liberamente racconta nel corso delle sedute e che descrivono la interazione del paziente con diversi personaggi (oggetti) della sua vita passata e presente, terapeuta compreso.

In generale gli episodi relazionali contengono tre componenti: i desideri, cioè l’espressione di bisogni, intenzioni e desideri del soggetto (W = wish), le risposte ricevute o attese dagli altri (ro = Response from the others o risposta dall’oggetto), e le risposte del Sé, cioè le reazioni del soggetto stesso nell’interazione con l’altro (rs = Response from self = risposta dal Sé).

La procedura del ccrt prevede la trascrizione e la lettura del testo delle sedute psicoterapiche, la individuazione degli episodi relazionali e, all’interno di questi, l’individuazione dei desideri espressi, delle risposte dagli altri e delle risposte dal sé, utilizzando le regole enunciate nel manuale di L. Luborsky e P. Crits-Christoph (1990).

Le proprietà psicometriche del metodo ccrt sono state oggetto di accurate ricerche condotte presso l’Università della Pennsylvania da L. Luborsky e collaboratori.

L’attendibilità del metodo è risultata soddisfacente (Luborsky e Diguer, 1995; Barber, Luborsky e Crits-Christoph, 1995; Popp et al., 1996).

L’attendibilità è stata replicata in Italia presso la Clinica Psichiatrica dell’Università di Milano da Freni, Azzone, Gigli (1993) e presso la Facoltà di Psicologia dell’Università "La Sapienza" di Roma dal gruppo di Dazzi (Dazzi et al., 1997).

Anche all’interno del nostro gruppo, dopo un iter di formazione in comune, è stata testata l’attendibilità del metodo, raggiungendo una concordanza finale interna nelle ratifiche del 60% per la componente desiderio, del 90% per la componente ro e del 70% per la componente rs. La concordanza è stata testata tramite i raggruppamenti a clusters1 (Barber, Crits-Christoph, Luborsky, 1992).

Le ratifiche delle sedute sono state eseguite da coppie di ratificatori diversamente assortite e successivamente ricontrollate da altri ratificatori, in cieco rispetto ai risultati dei trattamenti.

Tutti gli episodi relazionali, la cui completezza era uguale o superiore al punteggio di 2,5, presenti nelle tre sedute sono stati ratificati. In totale sono stati ratificati 435 episodi relazionali.

Gli elementi che compongono gli episodi relazionali (w, ro, rs) delle sedute sono dapprima espressi in categorie "su misura", che corrispondono alla verbalizzazione del paziente, e successivamente tradotti in categorie standard, secondo il manuale di Luborsky e disposti in ordine di frequenza. Si procede poi a calcolare la pervasività di ogni componente secondo la formula:

"Pervasività di una componente del ccrt = N° di episodi in cui è presente la componente analizzata diviso per il N° totale degli episodi presenti nelle sedute considerate".

Prendendo in considerazione le componenti a pervasività più alta di Wish, ro e rs, è possibile formulare il ccrt di ogni singolo paziente sia espresso per categorie standard sia espresso per raggruppamento in clusters.



Analisi dei risultati

Dal momento che il numero degli episodi relazionali nel gruppo delle tre sedute che costituiscono i due tempi d’osservazione (T0 e T1) non è sempre uguale a dieci episodi (vedi tabella 1), per rendere confrontabili i dati tra i pazienti si è proceduto a esprimerli in pervasività normalizzata.

Pervasività normalizzata = pervasività di ciascuna categoria (o cluster) presente nella ratifica diviso la somma delle pervasività di tutte le categorie (o clusters) espresse nella ratifica di quella componente (w, ro, rs) del ccrt.

Per ogni paziente è stato formulato il ccrt espresso per categorie standard e il ccrt espresso per clusters: il ccrt di un paziente è costituito dall’insieme delle componenti w, ro e rs che ha ottenuto la pervasività più alta.

I risultati sono stati analizzati da un punto di vista prevalentemente descrittivo per quanto riguarda il modello di ccrt emerso nei singoli casi.

Successivamente si sono analizzate le singole componenti del ccrt, espresse in raggruppamenti a clusters, e si è analizzato quantitativamente, a diversi livelli, come si distribuivano gli otto clusters di Desideri, ro e rs nel gruppo dei pazienti drop out e nel gruppo dei controlli, applicando il "t" di Student sulle medie per campioni appaiati e per campioni non appaiati, a seconda dei confronti da effettuare.



Risultati



Analisi della formulazione del ccrt nei due gruppi

L’analisi dei risultati parte dalla formulazione del ccrt per ogni paziente, vale a dire dall’insieme delle tre componenti che ha raggiunto la più alta pervasività e che costituisce il tema relazionale conflittuale centrale per il paziente, in quel determinato momento di osservazione.

Il dato descrittivo che ci sembra più evidente è la diversità di comparsa di risposte positive2 dall’oggetto e dal sé nel gruppo dei pazienti drop out rispetto ai controlli nel ccrt al tempo T1: nessuna risposta positiva è presente nel ccrt, espresso in clusters, dei drop out al tempo T1, mentre sono presenti tre risposte ro positive e tre risposte rs positive nei pazienti di controllo a T1, che non erano presenti all’inizio del trattamento (T0).

Nelle tabelle 2 e 3 sono indicate le categorie standard del ccrt che si sono espresse con maggiore pervasività nel gruppo dei drop out e dei pazienti di controllo.

I pazienti che proseguono il trattamento manifestano al tempo T1 dei modelli relazionali prevalenti (ccrt) più adattativi rispetto all’inizio della terapia. Infatti in quattro pazienti su otto compaiono risposte positive sia nelle ro che nelle rs e in due su otto compaiono risposte positive nelle ro. In totale quindi in sei pazienti su otto si vede una modificazione in senso positivo del ccrt rispetto alla formulazione iniziale.

I cinque pazienti drop out tardivi conservano al tempo T1 un ccrt sostanzialmente invariato rispetto all’inizio del trattamento.

Se sottoponiamo questa distribuzione di frequenza al test esatto di Fisher (1934), otteniamo un valore di p < 0.02, che ci permette di concludere che esiste una differenza significativa tra i due gruppi per quanto riguarda l’andamento del tema relazionale centrale conflittuale.





Analisi di tutte le componenti presenti nella ratifica del ccrt dei due gruppi

Un secondo livello di analisi quantitativa dei risultati è stato ottenuto tenendo conto di tutti gli elementi emersi nelle ratifiche e non soltanto di quelli più pervasivi che entrano nella formulazione del tema relazionale conflittuale centrale secondo Luborsky.

In questo modo vengono utilizzati e pesati tutti i dati raccolti dalle ratifiche, senza privilegiare quelli a pervasività più alta.



Confronto all’inizio del trattamento tra drop out e controlli (tempo T0)

Il primo confronto effettuato riguarda le differenze tra i due gruppi di pazienti all’inizio del trattamento. Ci si chiede cioè se alcune caratteristiche relative ai desideri, alle risposte dall’altro e alle risposte dal sé caratterizzino maggiormente un gruppo rispetto all’altro. In questo caso le configurazioni assunte dalle distribuzioni delle categorie del ccrt si porrebbero come possibili predittori di drop out.

A questo proposito non è emersa nei pazienti che attuano drop out alcuna configurazione nelle distribuzioni delle categorie del ccrt al tempo T0 che sia statisticamente correlabile a una maggiore evenienza di drop out.

Appaiono comunque delle indicazioni di possibili tendenze: i pazienti che interrompono il trattamento tendono ad avere all’inizio una minore pervasività del desiderio di "contrastare, ferire e controllare gli altri" (cluster 2, p = 0,22) e una maggiore pervasività del desiderio di "riuscire e aiutare gli altri" (cluster 8, p = 0,19) rispetto ai pazienti di controllo. I pazienti che interrompono hanno inoltre una minore pervasività della risposta d’oggetto ro "cattivo" (cluster 4, p = 0,25), una minore pervasività della risposta dal sé rs "dotato di autocontrollo e sicuro di sé" (cluster 5, p = 0,16) e di "sintomi somatici" (categoria 31, p = 0,18).



Confronto all’interno dei controlli e all’interno dei drop out tra T0 e T1.

Il secondo confronto riguarda come i gruppi di pazienti cambiano nel tempo al loro interno, cioè i valori al tempo T0 sono stati confrontati con i valori raggiunti al tempo T1.

Nei pazienti drop out, che hanno i due tempi di osservazione (i cinque drop out tardivi), la pervasività dei desideri e delle risposte dal Sé non cambia significativamente nel tempo considerato. Si può soltanto notare un trend di aumento a T1 del desiderio del cluster 5 (p = 0,21) "essere vicino e accettare gli altri" rispetto ai valori al tempo T0.

Per quanto riguarda invece le risposte dall’altro (Fig.1): aumentano in modo significativo le pervasività del cluster 1 "forte", indipendente, felice (p = 0,02) e del cluster 8 "comprensivo", aperto, accogliente (p = 0,016), mentre si abbassa la pervasività del cluster 6 "disposto ad aiutare", collabora (p = 0,05).

Nei controlli le pervasività dei desideri e delle risposte dall’altro non cambiano significativamente nel tempo. Si può soltanto notare un tendenza di aumento a T1 del desiderio del cluster 8 (p = 0,18) "riuscire".









Riguardo le risposte del Sé (Fig.2), aumentano significativamente al tempo T1 le pervasività delle categorie appartenenti al cluster 1 "disposto ad aiutare", capisco, sono aperto (p < 0,05) e al cluster 3 "rispettato e accettato", mi sento a mio agio, felice, amato, mi piacciono gli altri (trend p < 0,07). Diminuisce significativamente la pervasività delle categorie appartenenti al cluster 6 "mi sento impotente", incapace di controllarmi, insicuro, dipendente (p < 0,03).



Confronto a sei mesi tra drop out e controlli ( tempo T1)

Il terzo confronto riguarda le configurazioni assunte dai due gruppi dopo sei mesi di trattamento. Il confronto è a questo punto effettuato tra gli otto pazienti che continuano il trattamento e i cinque pazienti che hanno interrotto la terapia nei sei mesi successivi al primo retest (drop out tardivi).

Nei due gruppi di pazienti, dopo sei mesi di trattamento, si riscontrano sia differenze significative che trends di significatività relativamente alla pervasività di alcune categorie delle ro e delle rs (Fig.1 e 2). Tali differenze sono probabilmente la conseguenza del diverso modo di modificarsi dei pazienti come visto nel paragrafo precedente.

Infatti i drop out, a sei mesi, presentano rispetto ai valori dei controlli una pervasività più alta nelle categorie ro "forte" (cluster 1, p = 0.02) e una pervasività più bassa delle categorie ro "dominatore" (cluster 2, p = 0.03) e ro "disposto ad aiutare" (cluster 6, trend p = 0.08).

Inoltre a sei mesi si osserva una differenza per le categorie rs cluster 1 "disposto ad aiutare", capisco, sono aperto, che è significativamente più basso nei drop out rispetto ai controlli (p < 0.05).



Considerazione sui pazienti drop out precoci

Per quanto non sia possibile un’analisi statistica per l’esiguità dei casi, vogliamo osservare che i tre pazienti che interrompono precocemente la terapia hanno i valori di pervasività in assoluto più alti delle risposte rs dei cluster 6 "impotente" e del cluster 7 "deluso e depresso".



Lettura clinica dei risultati

Un ultimo livello d’analisi ci porta a considerare, caso per caso, le caratteristiche del modello relazionale centrale, che si è instaurato nella prima fase del trattamento dei pazienti che interrompono la terapia, integrando questo dato con considerazioni di ordine clinico, nate dalla discussione sui casi.

Pensiamo che questo livello d’analisi, che esula in parte dal modello dello studio, ci possa dare un’idea del vissuto che corrisponde all’abbandono della terapia e di ciò che il trattamento non è riuscito a modificare (vedi Tab. 2).

Nel caso 1 sembra prevalere la rabbia di non avere controllo e possesso di un oggetto dalle caratteristiche pregiate da cui il paziente desidera essere amato.

Nel caso 2 il soggetto sembra vivere la dipendenza dal terapeuta, percepito come disponibile, in termini depressivi e autosvalutativi.

Nel caso 3 l’oggetto permane a T1 rifiutante e ciò determina il permanere di sentimenti di ansia e impotenza. Questo è il solo caso in cui la terapia non modifica le qualità originarie della relazione con l’oggetto e assistiamo, secondo il terapeuta, al mantenimento difensivo di una relazione di rifiuto rispetto al rischio di una colpevole realizzazione istintuale.

Nel caso 4 sembra manifestarsi apertamente un conflitto autonomia-dipendenza. Se l’oggetto è vicino provoca un sentimento di ansia, se è lontano genera rabbia.

Nel caso 5 le caratteristiche attribuite all’oggetto a cui il paziente si lega, realizzando il proprio bisogno di dipendenza, sono tali da suscitare reazioni di ostilità e opposizione.

Nei casi che interrompono precocemente il trattamento non è osservabile l’evoluzione del transfert, ma soltanto la situazione iniziale. Tuttavia anche nel caso 7 e nel caso 8 sembrano individuabili difficoltà con un oggetto che possiede anche caratteristiche positive.



Discussione e conclusioni



Al tempo T0 non compaiono distribuzioni di categorie ccrt che possano essere considerate predittori di drop out: i pazienti che abbandonano il trattamento non sembrano essere diversi, rispetto alle categorie ccrt, dai pazienti che continuano.

A sei mesi (T1), i due gruppi invece si differenziano significativamente sia che venga considerato soltanto il tema relazionale conflittuale prevalente, sia che venga considerato l’insieme di tutte le categorie (o clusters) che compaiono nelle narrative del paziente.

L’esposizione al trattamento sembra dunque avere prodotto cambiamenti rilevabili e rilevanti nei due gruppi e tra i due gruppi. Non possiamo escludere che una "predisposizione" al drop out sia stata presente anche prima dell’inizio del trattamento, sotto soglia rispetto agli strumenti che abbiamo utilizzato, ma appare evidente che, con il passare del tempo, si manifestano fenomeni di una certa ampiezza che caratterizzano e distinguono i due gruppi.

Questi cambiamenti si sono dimostrati più significativi di quelli rilevati in uno studio del ccrt, in funzione degli esiti a sei mesi, in un campione più vasto di pazienti che hanno proseguito il trattamento (manoscritto non pubblicato).

Nei casi drop out quindi "accade qualcosa".

Innanzi tutto i pazienti che proseguono il trattamento tendono a muoversi nella stessa direzione dei pazienti che ottengono esiti positivi dal trattamento psicoterapico, come osservato da Luborsky, Crits-Cristoph, Mintz, Auerbach (1988), cioè tendono a positivizzarsi le componenti più pervasive dei loro ccrt, in particolare a livello di risposta dall’altro e di risposta dal sé. Nei drop out ciò non si osserva.

Utilizzando il metodo di considerare tutte le risposte date, nei pazienti drop out tardivi si osserva a T1 un cambiamento significativo nell’area delle risposte dall’oggetto, che appare più "forte" e "comprensivo" anche se tendenzialmente meno "disposto ad aiutare". Non cambiano le risposte dal sé, che sono caratterizzate come all’inizio da "impotenza" e "delusione".

Nei pazienti che invece continuano il trattamento le trasformazioni significative avvengono nell’area delle risposte dal sé: sono più "disposti ad aiutare, capire, essere aperti" e meno "impotenti" di quanto si sentissero all’inizio.

Quindi l’effetto del trattamento nei due gruppi presenta una fisionomia diversa, caratterizzata dalla incapacità dei pazienti drop out di reagire in modo più positivo a situazioni relazionali apparentemente migliorate nelle componenti ro.

L’inverso si realizza nel gruppo di controllo, dove si osserva una capacità di reagire meglio a situazioni in cui permangono frequenze elevate di risposte negative dall’oggetto.

Potremmo concludere che i pazienti drop out (o una parte di essi) sembrano avere una difficoltà a reagire positivamente alla presenza e disponibilità degli altri.

A una osservazione più accurata possiamo osservare che le migliorate qualità degli oggetti non sono considerate in termini di maggiore aiuto per il soggetto, che le vive con sentimenti di delusione e impotenza.

L’esame delle categorie ccrt, caso per caso, e la valutazione clinica ci aiutano a comprendere meglio questo apparente paradosso: l’altro "forte e comprensivo" suscita reazioni di rabbia, umiliazione e invidia oppure stimola un bisogno di dipendenza, altamente conflittuale, e questi pazienti sono incentivati a sentirsi "non aiutati", "impotenti" e a interrompere il rapporto con il terapeuta.

L’applicazione alla clinica dei dati ottenuti in un contesto sperimentale è una operazione non priva di pericoli come semplificazioni, approssimazioni, fraintendimenti e generalizzazioni scorrette.

Gli studi empirici, per loro natura, tendono a fondarsi su indicatori percepibili e misurabili di fenomeni più complessi, che quindi non sono colti nella loro interezza.

Il metodo ccrt di Luborsky non fa eccezione a questa regola, anche se è considerato uno dei migliori strumenti per analizzare gli stili relazionali prevalenti e le loro modificazioni nel tempo, cogliendo aspetti dei processi transferali e rappresentazionali che sottendono i modelli di comportamento relazionale osservabile.

È necessaria quindi grande cautela nel pensare di trarre dai nostri dati delle indicazioni utili alla clinica; tuttavia il suggerimento clinico che sembra emergere dal nostro studio è l’attenzione precoce allo sviluppo di queste forme di transfert e il loro tempestivo trattamento. Il terapeuta "buono" non è di per sé un buon terapeuta.

L’approfondimento della ricerca porterebbe quindi ad analizzare gli interventi del terapeuta e la loro adeguatezza nell’affrontare questo tipo di problemi, a partire dal fatto che il terapeuta se ne sia accorto o meno. In questo senso la ricerca è orientata a individuare risposte specifiche rispetto a problemi specifici posti dalla pratica clinica.

Rimane aperto il problema dell’estendibilità di queste osservazioni al di fuori del contesto dei trattamenti psicoanaliticamente orientati, cioè se questo tipo di assetto è caratteristico anche di pazienti che interrompono il trattamento in altri contesti terapeutici.

Possiamo infatti pensare che in differenti contesti di cura siano individuabili gruppi di pazienti drop out o a basso livello di compliance, che sviluppano particolari modelli relazionali, rilevabili al ccrt, la conoscenza dei quali potrebbe essere preziosa per migliorare la qualità dei trattamenti o per indirizzare i pazienti stessi a forme di trattamento più aderenti ai loro bisogni.



Appendice

Denominazione dei clusters secondo Barber et al.



Desideri: 1. Impormi ed essere indipendente. 2. Contrastare, ferire e controllare gli altri. 3. Essere controllato, ferito e non responsabile. 4. Tenermi a distanza ed evitare i conflitti. 5. Essere vicino e accettare gli altri. 6. Essere amato e capito. 7. Sentirmi bene e a mio agio. 8. Riuscire e aiutare gli altri.

Risposte d’oggetto: 1. Forte. 2. Dominatore. 3. Sconvolto. 4. Cattivo. 5. Rifiutante e contrastante. 6. Disposto ad aiutare. 7. Gli piaccio. 8. Comprensivo.

Risposte dal sé: 1. Disposto ad aiutare. 2. Poco recettivo. 3. Rispettato e accettato. 4. Ostacolo gli altri e li ferisco. 5. Dotato di autocontrollo e sicuro di sé. 6. Impotente. 7. Deluso e depresso. 8. Ansioso e pieno di vergogna.



Legenda



Tabella 1: dati anagrafici e diagnosi secondo i codici dell’icd – 10 della casistica. ER = numero di Episodi Relazionali. T0 = inizio della terapia. T1 = sei mesi dall’inizio della terapia.

Tabella 2: ccrt espresso per raggruppamenti in categorie standard3 nei pazienti drop out. Tra parentesi i valori della pervasività normalizzata. In grassetto le risposte a valenza positiva.

Tabella 3: ccrt espresso per raggruppamenti in categorie standard nei pazienti di controllo. Tra parentesi i valori della pervasività normalizzata. In grassetto le risposte a valenza positiva.

Figura 1: in ascissa il cluster di appartenenza delle risposte d’oggetto espresse nella ratifica del ccrt. In ordinata i valori di pervasività della media di ciascun gruppo. Il cluster 1 (forte) è più alto nei drop out a T1 sia rispetto al valore al T0 sia rispetto al valore dei controlli a T1. Il cluster 2 (dominatore) è più basso nei drop out a T1 rispetto al valore dei controlli. Il cluster 6 (disposto ad aiutare) è più basso e il cluster 8 (comprensivo) è più alto nei drop out a T1 rispetto ai valori a T0.

Figura 2: in ascissa il cluster di appartenenza delle risposte dal sé espresse nella ratifica del ccrt. In ordinata i valori di pervasività della media di ciascun gruppo. Il cluster 1 (disposto ad aiutare) e il cluster 3 (rispettato e accettato) aumentano nei controlli da T0 a T1. Il cluster 6 (impotente) si riduce nei controlli da T0 a T1.



Bibliografia



Baekeland F. & Lundwall L. (1975), Dropping out of treatment: A critical review, in «Psychological Bulletin», 82, pp. 738-83.

Barber J.P., Crits-Christoph P., Luborsky L. (1992), in Capire il transfert, pp. 69-70, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Barber J.P., Luborsky L., Crits-Cristoph P., Diguer L. (1995), A comparison of Core Conflictual Relationship Themes before psychotherapy and during early sessions, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 63, 1, pp. 145-48.

Beckham E.E. (1992), Predicting patient dropout in psychotherapy, in «Psychotherapy», 29, pp. 177-82.

Benjamin L.S. (1974), Structural analysis of social behavior, in «Psychological Revew», 81, pp. 392-425.

Calini P., Fava E., Barlocco A., Barattini D., Baruh L., Fontolan M., Galvano C.G., Lazzari M., Osimo F., Pazzi E. (1997), I predittori di drop out nelle psicoterapie psicoanaliticamente orientate, in «Minerva Psichiatrica», 38, pp. 1-14.

Dazzi N., De Coro A., Ortu F., Andreassi S., Cundari M., Ostuni V., Sergi G. (1997), The ccrt in an Italian sample of psycotherapies: a study on the "wish" component, in «New Trends in Experimental and Clinical Psichiatry», XIII, 4, pp. 227-33.

Derogatis L.R., Lipman R.S., Covi L. (1973), SCL-90: An outpatient psychiatric rating scale (preliminary report), in «Psychopharmacological Bulletin», 9, pp. 13-27.

Fiester A.R. (1997), Clients’ perceptions therapists with high attrition rates, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 45, pp. 954-55.

Fisher R.A. (1934), Statistical method for research workers, 5th ed., Oliver & Boyd, Edimburg.

Frayn D.H. (1992), Assessment factors associated with premature psychotherapy termination, in «American Journal of Psychotherapy», 46, pp. 250-61.

Freni S., Azzone P., Gigli G. (1993), Esperienza allargata di siglatura e formulazione del ccrt di una seduta psicoterapeutica audioregistrata, in «Prospettive psicanalitiche nel lavoro istituzionale», 11, pp. 75-99.

Garfield S.L. (1994), Research on client variables in psychotherapy, in Garfield S.L. & Bergin A.E. (Eds), Handbook of psychotherapy and behaviour change (4th ed., pp. 213-56), John Wiley and Sons, New York.

Henry P.H. (1996), Structural analysis of social behavior as a common metric for programmatic psychopathology and psychotherapy research, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 64, pp. 1263-75.

Hilsenroth M.J., Handler L., Toman K.M., Padawer J.R.(1995), Rorschach and MMPI-2 indices of early psychotherapy termination, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 63, pp. 956-65.

Hunt C. & Andrews G.(1992), Drop out rate as performance indicator in psychotherapy, in «Acta Psychiatrica Scandinavica», 85, pp. 275-78.

Luborsky L. (1977), Measuring a pervasive psychic structure in psychotherapy. The core conflictual relationship theme, in Freedman N., Grand S. (Eds), Communicative structures and psychic structures, Plenum Press, New York.

Luborsky L.(1984), Principles of Psychoanalitic Psychotherapy, Basic Books, New York, 1984.

Luborsky L., Crits-Cristoph P., Mintz J., Auerbach A. (1988), Who will benefit from psychoterapy? Predicting therapeutic outcomes, New York, Basic Book.

Luborsky L. & Crits-Christoph P. (1992), Understanding Transference, Basic Books, New York, 1990; trad. it. Capire il transfert, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Luborsky L., Diguer L.(1995), A novel ccrt reliability study: Reply to Zender et. al., in «Psychotherapy Research», 5, (3), pp. 237-41.

Mohl P.C., Martinez D., Ticknor C., Huang M., Cordell L. (1991), Early drop out from psychotherapy, in «Journal of Nervous and Mental Diseases», 179 (8), pp. 478-81.

Morlino M., Martucci G., Musella V., Bolzan M., de Girolamo G. (1995), Patients dropping out of treatment in Italy, in «Acta Psychiatrica Scandivavica», 92, pp. 1-6.

Pazzi E., Fava E., Lammoglia M., Calini P., Lomazzi L., D’Angelo P., Carta I. (1997), La psicoterapia nei servizi pubblici: il punto di vista degli utenti, in «Rivista Sperimentale di Freniatria», vol. CXXI, N. 5, pp. 870-94.

Pekarik G. (1986), The use of termination status and treatment duration patterns as an indicator of clinical improvement, in «Journal of Clinical Psychology», 39, pp. 909-13.

Pekarik G. (1992a), Relationship of clients’reasons for dropping out of treatment to outcome and satisfaction, in «Journal of Clinical Psychology», 48, pp. 91-98.

Pekarik G. (1992b), Postreatment adjustment of clients who drop out early vs. late in treatment, in «Journal of Clinical Psychology», 48, pp. 379-87.

Phillips E. (1985), Psychotherapy revised: new frontiers in research and practice, New Jersey, Eribaum, Hillsdale.

Pollack J., Mordecai E., Gumpert P. (1992), Discontinuation from long-term individual psychodynamic psychotherapy, in «Psychotherapy Research», 2, pp. 224-34.

Popp C.A., Diguer L., Luborsky L., Faude J., Johnson S., Morris M., Schaffer N., Schmidt K. (1996), Repetitive relationship themes in waking narratives and dreams, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 64, 5, pp. 1073-78.

Taube C.A., Burns B.J., Kessler L. (1984), Patients of psychiatrists and psychologists in office-based practice: 1980, in «American Psychologist», 39, pp. 1435-47.

Yeomas F.E., Gutfreund J., Selzer M.A. et al. (1994), Factors related to dropouts by borderlines patients: treatment contract and therapeutic alliance, in «Journal of Psychotherapy, Practice and Research», 3, pp. 16-24.

Wexler B.E., Cicchetti V.D. (1992), The outpatient treatment of depression. Implications of outcome research for clinical practice, in «Journal of Nervous and Mental Diseases», 180, pp. 277-86.





Dr.ssa Cinzia Masserini, via G.F. Besta 1, 20161 Milano



Istituto di Clinica Psichiatrica, Università degli Studi di Milano, Sezione di Affori, UOP 48 a Direzione Universitaria.

*Dipartimento di Fisica, Università degli Studi di Milano.





La bibbia del ricercatore



HANDBOOK OF PSYCHOTERAPY AND BEHAVIOR CHANGE

A cura di Allen E. Bergin e Sol L. Garfield,

John Wiley & Sons, New York, 1994, pp. 864.

Recensione di P. Azzone





Anche la ricerca empirica in psicoterapia ha la sua bibbia. Dalla prima edizione del 1981 fino alla quarta del ’94 l’Handbook of Psychotherapy and behavior change di Bergin e Garfield si è via via imposto come il testo fondamentale della ricerca in psicoterapia. Gli psicologi americani lo considerano il testo più importante sulla psicoterapia, e nei dipartimenti di psicologia delle università americane è il secondo tra i testi più frequentemente consigliati nei corsi post-laurea.

Senza dubbio al successo del testo ha concorso in modo decisivo la sua ineccepibile completezza. Tutti gli argomenti sono trattati in modo estremamente analitico, le bibliografie sono ricchissime e assolutamente esaurienti, ogni capitolo rappresenta una fondamentale revisione di un determinato problema, steso da un esperto assoluto, con lunghissima esperienza in quello specifico settore di ricerca.

Altrettanto completa e attuale è l’organizzazione del testo. Gli autori hanno diviso il materiale in 4 parti. La prima parte è dedicata ai fondamenti metodologici, etici e concettuali. Qui il lettore sarà lieto di trovare due ricchissimi capitoli sulla metodologia della ricerca: uno sui fondamenti generali (Metodologia, disegno e valutazione nella ricerca in psicoterapia, di Alan E. Kazdin) e uno sulla Valutazione degli esiti e dei processi in psicoterapia, di Michael Lambert e Clara Hill. Il contributo di Kazdin esamina in modo articolato i disegni utilizzati nella ricerca empirica in psicoterapia, dallo studio single-case alla meta-analisi, le problematiche relative alla somministrazione e al controllo dei trattamenti e alla scelta dei terapeuti e le difficoltà insite nella elaborazione dei dati. Michael Lambert e Clara Hill analizzano in modo ricco e approfondito le strategie più adeguate per la misurazione e lo studio empirico del processo e dell’esito della psicoterapia, e delle loro reciproche interrelazioni.

La seconda parte del volume è dedicata all’efficacia della psicoterapia e agli specifici ingredienti che ne sono responsabili. Un capitolo tratta le variabili del paziente, uno le variabili del terapeuta e infine David Orlinsky, Klaus Grawe e Barbara Parks presentano i risultati delle ricerche sulle variabili di processo e sul loro impatto sugli esiti dei trattamenti.

La terza parte dell’opera si rivolge agli orientamenti teorico clinici predominanti nella pratica della psicoterapia e alle problematiche di ricerca specifiche di ciascuno di essi, con una grande mole di dati sulle terapie comportamentali, cognitivo-comportamentali, psicodinamiche ed esperienziali. La quarta parte del volume affronta i problemi relativi al trattamento di particolari gruppi di pazienti (bambini e adolescenti, minoranze etniche) o di particolari setting di trattamento (terapie della coppia o della famiglia, gruppi). Nella quarta parte del volume viene trattato anche il delicato problema dell’integrazione tra psicoterapia e terapie somatiche.

Senza dubbio il libro merita pienamente il prestigio che si è conquistato (e certamente conserverà nel futuro) tra tutti coloro che si occupano a qualsiasi livello (come studenti, ricercatori, clinici) della ricerca in psicoterapia e siamo convinti che gli autori colgano nel segno quando spiegano il grande favore incontrato dal testo con la loro scelta di assumere una "posizione eclettica di apertura alle diverse prospettive" insistendo "su una loro valutazione empirica".