domenica 9 marzo 2008

RILEGGENDO FREUD..........

da www.pol-it.org


Queste lezioni sull’opera di Freud sono in realtá riletture in comune di Freud. Sono state fatte con una certa sistematicitá. Puó darsi che contengano sviste ed errori, che son dovuti al fatto che sono lezioni fatte a braccio, come, secondo me, dovrebbero farsi le lezioni.


É stato un tentativo di leggere l’opera di Freud con gli specializzandi in Psichiatria, giovani medici con un range di etá da 26 a 32 anni e credo che l’impostazione e l’argomento allarghino notevolmente laudience potenziale e la diffusione tramite la rete e POL.it consenta a molti di avvicinarsi in maniera giudata al pensiero freudiano .


L’ambizione era quella di leggere tutto Freud e nel tempo contiamo di proporre per intero o quasi questo percoso intellettuale e culturale.


Questa pubblicazione é dovuta alla collaborazione del Dr. Giannino Ulivi, che ha registrato le lezioni, della Dr.ssa Maria Parisi, che con grande intelligenza le ha traferite su computer e delle giovani psichiatre, Dr.ssa Paola Rossi e Dr.ssa Silvia Oldrati, che le hanno riviste.


 


Non posso non ringraziare per la sensibilità e la disponibilità mostrate la Casa Editrice Bollati Bringhieri che ha consentito generosamente l’indispinsabile citazione di passi delle opere tratti dai volumi dell’Opera Omnia da essa pubblicata in versione italiana.


 



 


INDICE LEZIONI



  1. Lezione 1 Il giovane Freud

  2. Lezione 2 Tra Bernheim e Charcot

  3. Lezione 3 Gli Studi sull'Isteria

  4. Lezione 4 Gli Studi sull'Isteria - 2

  5. Lezione 5 Gli Studi sull'Isteria - 3

  6. Lezione 6 Freud e Fliess

  7. Lezione 7 Progetto di una psicologia

Stato dell'arte della tecnica psicoanalitica della schizofrenia

di Gaetano Benedetti


I. Psicoterapia individuale:


A. Sviluppi storici e modifiche tecniche attualmente significative. Modifiche nella propria tecnica. La concezione della nostra scuola, delineatasi attraverso scritti e simposi internazionali nel corso soprattutto degli ultimi venti anni, concretatasi nei nostri gruppi di lavoro a Basilea e a Milano così come nel trattamento e supervisione di oltre 500 pazienti in Svizzera e in Italia, è descrivibile, sinteticamente con i tre concetti della internalizzazione e trasformazione intrapsichica della immagine del partner terapeutico del paziente, il cui Sé si sviluppa, simmetricamente, lungo tale processo; della positivizzazione dell'esperienza psicotica attraverso associazioni, sogni e fantasie del terapeuta, che pongono questi nel mondo del paziente per trasformarlo dal di dentro attraverso i vissuti terapeutici; della psicopatologia progressiva, ossia della riedizione, da parte del paziente, della propria esperienza psicotica attraverso l'identificazione con il terapeuta e la conseguente trasformazione delle immagini psicopatologiche in intenzioni comunicative. La transitività terapeutica, ossia la configurazione positivizzante di ciò che è sentito negativo del paziente, concorre alla dualizzazione della psicosi e così, attraverso la categoria della reciprocità, esce dall'autismo e crea la intersoggettività. Questa equivale alla formazione di un "soggetto transizionale", che ha radici contemporaneamente, nella persona dell'uno e dell'altro partner e che completa la diade terapeuta-paziente con una figura di triangolazione. Il soggetto transizionale è spesso visibile nel simbolo e nell'arte schizofrenica; la sua progressiva "personificazione" da parte del paziente sublima i processi patologici di appersonazione psicotica e li intesse quindi in un movimento progressivo della psicosi, procedendo così a una nuova formazione di identità. Il motivo maggiore delle nostre modifiche sta nel riconoscimento di una incapacità dell'Io psicotico alla sintesi ed integrazione senza l'internalizzazione di una immagine terapeutica attiva, positivizzante e, a sua volta, capace di internalizzare profondamente la miseria psicotica e un'immagine di potenzialità ideali del malato. In tutto questo processo noi stiamo molto attenti alle capacità curative dell'Inconscio terapeutico, quali si manifestano nei sogni, nelle associazioni, nelle fantasie ecc. L'incontro con il paziente psicotico attiva talora l'Inconscio terapeutico fino alla creazione di sogni simultanei!

Un esempio illustrativo è necessario per non rimanere nell'astratto. Cito un caso in cui le tendenze proiettive (paranoidi) della paziente condussero questa, dopo una fase di transfert positivo, a una grave crisi transferale. Questa si rispecchiava nel sogno della paziente di trovarsi completamente sola, dopo un viaggio in ascensore, e di dover ridiscendere l'altissimo edificio scivolando lungo la facciata. Nella medesima notte il terapeuta entrava anche egli, con un sogno, nella situazione di pericolo, capovolgendola: egli si percepiva con la paziente in un'abitazione comune costruita su un picco di roccia. All'ammalata atterrita egli assicurava che, essendo il pavimento di vetro trasparente, loro potevano osservare esattamente tutta l'armatura in cemento (senza il diaframma paranoide). La meditazione comune di questi due sogni mostrava: 1. la loro simultaneità, garanzia di un'intesa dei due sistemi inconsci; 2. l'entrata del terapeuta nella situazione di panico della paziente, che contemporaneamente veniva resa positiva e aperta al dialogo; 3. l'internalizzazione e trasformazione dell'imago della paziente nel sogno del suo terapeuta. Nel compiere la propria analisi il terapeuta poteva anche rendersi conto di come situazioni senza difesa, da lui vissute nella propria infanzia, gli permettevano l'identificazione parziale con il vissuto della paziente. Questa, a sua volta, sviluppava, dopo l'elaborazione comune dei due sogni, un sistema paranoide nuovo (psicopatologia progressiva), che si distingueva dal primo per la trasformazione del terapeuta persecutore nel terapeuta in pericolo, riaprendo così la porta della comunicazione con lui. Questa terapia ha, nel trattamento di pazienti schizofrenici, più di mezzo secolo di vita e risale allo psicoanalista Federn che, per primo, sostenne la tesi dell'impossibilità di un trattamento psicologico senza un lavoro con le famiglie dei pazienti. Tale lavoro consisteva allora in una presa di contatto, non sistematico, con i problemi delle famiglie, nello sforzo di ottenere la loro collaborazione nella gestione di aspetti sociali e nella psicoterapia individuale. Solo in secondo tempo si sviluppava l'insight terapeutico, e cioè che le famiglie di pazienti schizofrenici rappresentavano in sé un oggetto terapeutico, sia perché spesso sono portatrici, almeno in parte, delle cause psicologiche della malattia, sia perché, secondariamente, oberate dal peso della vita in comune con gli infermi. Con R. Schindler si sviluppava negli anni cinquanta la "Terapia bifocale" della schizofrenia, consistente nel trattamento parallelo di gruppi di pazienti e delle loro famiglie. Gli ultimi venti anni hanno visto uno sviluppo di siffatte tecniche sia in Europa sia in America; esse hanno permesso di riconoscere la complessità dei problemi creati dai malati nelle loro famiglie e la necessità di curare sia le famiglie che i pazienti, tanto nell'interesse della famiglia che in quello dei malati. In Norvegia e in America si è arrivati al punto di ospedalizzare membri della famiglia contemporaneamente ai pazienti. Da tutte queste tecniche si distinguono quelle che non si limitano al contatto terapeutico con la famiglia, ma trattano i pazienti in sedute comuni, di pazienti e delle loro famiglie. Il setting è stato così mutato radicalmente.
Gli indirizzi tecnici fondamentali sono qui tre: quello essenzialmente interpretativo, di origine più antica (Freud, Jung), illuminato in seguito da nomi come Rosen e infine Rosenfeld. Metodi ben diversi fra loro, ma tutti diretti a mediare insight al malato, come recentissimamente nella cosiddetta terapia EIO (Exploratory Insight-Oriented) riassunta da Gunderson [vedi lo studio di Boston]. Successivamente quello interpersonale, che ai nomi dei fondatori Sullivan e Fromm-Reichmann aggiunge quelli più recenti di Arieti, Searles, O. Will, Síírala. Esso si è orientato in direzioni diverse, unite però dalla preoccupazione dei terapeuti di mediare ai loro pazienti vissuti integrativi di rapporto, di far loro rivivere situazioni passate di abbandono, simbiosi perversa, dipendenza distruttiva in situazioni transferali nuove, le quali accolgano la psicopatologia dell'infermo in un contesto comunicativo. Infine il metodo della realizzazione simbolica, iniziato da M. Sechehaye e divenuto, nei suoi aspetti fondamentali, la base di tante terapie fondate sul simbolo e la produttività artistica nella riflessione psicoanalitica. Lo sviluppo degli ultimi decenni è segnato da autori che come Lidz, Racamier, Wynne raccolgono, nel termine di psicodinamico, l'intero approccio terapeutico. La modifica sta in una tendenza alla sintesi, come mostrano oggi le cosiddette "strategie multimodali". In ciascuna di esse si lasciano riconoscere "opposti dialettici", che non si escludono a vicenda, ma si applicano, di volta in volta, a seconda dello stadio di evoluzione del paziente, della gravità della sindrome e anche della personalità dell'analista. a) Conviene, ad esempio, lasciar regredire il paziente schizofrenico, affinché egli ritrovi, nella ripetizione della simbiosi, l'origine e la soluzione dei suoi problemi o è meglio confrontarlo con la struttura della realtà psicosociale? b) E' più utile comprendere assieme a lui le dinamiche specifiche del suo passato o, anzitutto, offrirgli nel rapporto terapeutico un modello valido del presente? c) Bisogna prima analizzare le sue resistenze, anche se di altro tipo che non quelle neurotiche, o aiutarlo, come già insegnava Federn, a ricostruire una capacità di resistere che, nella psicosi, in seguito allo sfaldamento dell'Io viene perduta?

Le risposte della letteratura recente mostrano una maggiore flessibilità di scuole e migliore coscienza dei pluralismi.


B.


II. Terapia familiare:


 


Il progresso ulteriore di queste ultime tecniche sta, come per le tecniche individuali, nello sviluppo di strategie multimodali: abbiamo, da un canto, diversi metodi, quello direttivo di Haley, quello strutturale di Minuchin, quello contestuale di Boszormeny-Nagy, quello dinamico di Stierlin, ecc. . Ma ciascuno di essi è, più o meno, anche una strategia multimodale: sono percepibili l'influenza della teoria della comunicazione e il viraggio dalla comprensione all'azione psicosociale ad esempio nei lavori di Haley, di Weakland, di Fish, nonché l'influenza della psicoanalisi, della teoria dei sistemi, del paradosso nei metodi di Selvini, Stierlin, ecc..


III. Terapia ambientale e di gruppo:


Sebbene le tecniche non siano psicoanalitiche nella riflessione cosciente e nella formulazione esplicita dei loro autori, esse vanno qui ricordate perché i progressi maggiori stanno nel passaggio dalla formula dell'adattamento alla norma sociale a quello della comprensione psicodinamica dei pazienti; comprensione di cui la psicoanalisi è stata sempre il battistrada. Gli ultimi quindici anni hanno visto considerevoli progressi nella chiarificazione di ciò che costituisce un ambiente terapeutico per schizofrenici. Già nel 1965 Greenblatt dimostrava che piccoli gruppi di pazienti, trattati intensivamente con terapia ambientale e farmaci si avvantaggiano notevolmente rispetto a pazienti trattati con gli stessi medicamenti, ma in ambiente custodito tradizionale. Seguivano, nel 1972 e nel 1977, i lavori di Paul e collaboratori, i quali non solo confermavano tali risultati, ma precisavano che pazienti trattati per quattro mesi nel modo suddetto continuavano, anche dopo le cessazioni di ogni terapia, a svilupparsi favorevolmente in confronto ai malati rimasti a regime farmacologico e di custodia. Non solo, ma i primi, anche senza farmaci, andavano più raramente incontro a recidive. In particolare, notevoli erano i vantaggi riguardanti gli apprendimenti sociali. Nel 1977 Carpenter e collaboratori ripetevano gli esperimenti al National Institute of Mental Health (NIMH) e stabilivano che, fra pazienti trattati farmacologicamente e pazienti non trattati in tal modo, non c'era differenza alcuna riguardo la sintomatologia e il funzionamento sociale, purché ambedue i gruppi fossero oggetto di "terapia ambientale" (milieu terapia). A questo punto Mosher e collaboratori crearono un tipo di ambiente psicodinamico (chiamato Casa Soteria) ove piccoli gruppi di pazienti vennero trattati per sei settimane da personale non specializzato in psichiatria, ma addestrato nell'aiutare i pazienti a integrare i sintomi psicotici in esperienze significative. Ancora una volta i risultati furono lusinghieri e sorpassarono, quanto a scomparsa di sintomi e recupero di capacità lavorative e relazionali, quelli ottenuti con pazienti trattati in ospedale psichiatrico. Alla luce di una catamnesi biennale le recidive furono del 52%, contro 68% nei gruppi di controllo. Tale studio confermava così che i farmaci non sono necessari nel trattamento ambientale di schizofrenici cronici.


Voglio concludere con l'osservazione che la psicoterapia individuale da me seguita, con i suoi concetti di simmetria parziale e simbolica fra terapeuta e paziente, positivizzazione della psicopatologia, incoraggiamento dell'espressione dei sentimenti, si articola come una variante individuale di siffatte concezioni.

La terapia psicoanalitica alla luce della teoria dell'attaccamento

di John Bowlby (The Tavistock Clinic, Department for Children and Parents)



Storicamente la teoria dell'attaccamento si è sviluppata a partire dalla teoria psicoanalitica delle relazioni oggettuali, ed ha molto in comune specialmente con le idee di Winnicott, Fairbairn e Guntrip. Essa porta avanti queste idee in due aree principali:

a) il ruolo privilegiato attribuito ai legami emotivi significativi tra gli individui;

b) l'influenza di differenti modalità di interazione familiare nel determinare lo sviluppo del bambino.


Principi di psicopatologia e di sviluppo della personalità


La teoria dell'attaccamento considera la capacità di instaurare forti legami emotivi con particolari individui come una componente di base della natura umana, già presente in nuce nel neonato e che continua attraverso la vita adulta fino alla vecchiaia. Durante l'infanzia e la fanciullezza i legami sono verso i genitori (o con sostituti genitoriali), ai quali il bambino si rivolge per cercare protezione, aiuto e assistenza. Durante lo sviluppo normale dell'adolescenza e della vita adulta questi legami permangono, ma hanno come complemento nuovi legami, comunemente di natura eterosessuale. Sebbene lo stimolo della fame e quello sessuale a volte giochino un ruolo importante in tali relazioni, il legame esiste di per se stesso ed ha una sua propria funzione di sopravvivenza, e precisamente di tipo protettivo. Così secondo la teoria dell'attaccamento, i legami sono considerati non subordinati né derivanti dallo stimolo della fame e da quello sessuale. Ugualmente, il pressante desiderio di assistenza e di sicurezza in situazioni di avversità non viene visto come infantile, come implica invece la teoria della dipendenza. Invece, la capacità di instaurare legami con altri, a volte nel ruolo di colui che cerca assistenza, e a volte nel ruolo di chi la offre, viene considerata una importante caratteristica della salute mentale e di un efficiente funzionamento della personalità.


Di regola, il comportamento caratterizzato dalla ricerca di assistenza viene mostrato da un individuo più debole e meno esperto nei confronti di un altro considerato più forte e/o più saggio. Un bambino, o un adulto nel ruolo di colui che cerca assistenza, si mantiene nel raggio di azione di colui che offre assistenza, e il grado di vicinanza dipende dalle circostanze: onde il concetto di comportamento di attaccamento. L'offrire assistenza, che è il principale ruolo dei genitori e che è complementare al comportamento di attaccamento, viene considerato alla stessa stregua del cercare assistenza come una componente di base della natura umana (Bowlby, 1984).

L'esplorazione dell'ambiente, incluso il gioco, viene vista come una terza componente di base della natura umana, e precisamente come una componente opposta a quella del comportamento di attaccamento. Quando un individuo (di qualunque età) si sente sicuro, è probabile che egli esplori l'ambiente circostante e si allontani dalla sua figura di attaccamento. Quando invece egli è allarmato, ansioso, stanco o a disagio, egli sente un forte bisogno di avvicinarsi alla sua figura di attaccamento. Così noi osserviamo la tipica modalità di interazione tra il bambino e il genitore, conosciuta come esplorazione da una base sicura. Posto che egli sappia che il genitore è disponibile e che gli risponderà in caso di bisogno, un bambino normale si sente abbastanza sicuro per esplorare e, mano a mano che cresce, per aumentare la distanza sia nello spazio che nel tempo - da ore, a giorni, a settimane o mesi.


La seconda area alla quale la teoria dell'attaccamento presta particolare attenzione è il ruolo dei genitori nel determinare lo sviluppo del bambino. Esistono oggi sempre maggiori e convincenti prove che la modalità di attaccamento sviluppata da un individuo durante gli anni dello sviluppo - infanzia, fanciullezza e adolescenza - è profondamente influenzata dal modo col quale i suoi genitori (o altre figure genitoriali) lo trattano. Queste prove derivano da un grande numero di studi sistematici, molti dei quali longitudinali: per esempio gli studi sullo sviluppo sociale ed emotivo durante i primi cinque anni di vita, iniziati da Ainsworth (in corso di stampa), e notevolmente ampliati da Main e Sroufe; gli studi sugli effetti del lutto nei bambini, per esempio di Raphael (1983) e di Brown e Harris (1978); gli studi catamnestici sui bambini allevati nelle istituzioni; e così via. Tra le pubblicazioni più recenti vanno ricordate quelle di Bretherton e Waters (in corso di stampa) Emde e Harmon (1984), Stern (1985), Rutter (1981), e Bowlby (1982, 1984, 1985).


Oggi siamo riusciti a identificare in modo attendibile tre principali modalità di attaccamento, e con esse le condizioni delle famiglie che le promuovono. Una prima modalità è la modalità di attaccamento sicuro, nella quale l'individuo è fiducioso che il suo genitore (o figura genitoriale), sarà disponibile, sensibile e di aiuto nel caso egli andasse incontro a situazioni avverse o terrorizzanti. Con questo tipo di rassicurazione, il bambino si sente coraggioso nelle sue esplorazioni del mondo circostante. Questa modalità è promossa da un genitore, nei primi anni in particolare dalla madre, con l'essere prontamente disponibile, sensibile ai segnali del suo bambino e capace di rispondergli amorevolmente quando egli cerca protezione e/o sicurezza.


Una seconda modalità è quella dell'attaccamento ansioso-ambivalente, nella quale l'individuo non è sicuro che il genitore sarà disponibile, o sensibile, o di aiuto in caso di bisogno. A causa di questa insicurezza, egli è soggetto a manifestare angoscia di separazione, tende ad essere sempre avvinghiato alla madre (clinging), ed è ansioso nelle sue esplorazioni del mondo. Questa modalità è causata da un genitore che è disponibile e di aiuto in certe occasioni, ma non in altre, nonché da separazioni e specialmente da minacce di abbandono usate a scopo di controllo.

Una terza modalità è quella dell'attaccamento ansioso-evitante, in cui l'individuo non si aspetta, quando cerca assistenza, di essere aiutato, ma al contrario si aspetta di essere respinto. Tale individuo cerca di vivere la sua vita senza l'amore e il supporto degli altri. Egli cerca di diventare emotivamente autosufficiente, e può essere diagnosticato come «narcisista», o come dotato di un «falso sé». Questa modalità è il risultato di un costante atteggiamento di rifiuto da parte della madre quando egli le si avvicina per ottenere protezione o conforto. I casi più gravi sono il risultato di rifiuti ripetuti, di maltrattamenti o di una prolungata istituzionalizzazione.

Gli studi longitudinali hanno dimostrato che queste modalità di attaccamento, una volta instauratesi, tendono a permanere nel tempo.


Questo è perché il modo con cui un genitore tratta un bambino, nel bene o nel male, tende a continuare immodificato, e anche perché ogni modalità tende a perpetuarsi. Così un bambino sicuro di sé è un bambino più felice e più gratificante quando ci si prende cura di lui, e anche meno esigente di uno ansioso. Un bambino ansioso-ambivalente invece tende ad essere piagnucoloso e appiccicoso; mentre un bambino ansioso-evitante si tiene a distanza e tende a tiranneggiare gli altri bambini. In ciascuno di questi casi il comportamento del bambino ha buone probabilità di stimolare una risposta sfavorevole dal genitore, cosicché si instaurano dei circoli viziosi.

Sebbene per queste ragioni le modalità di attaccamento, una volta formate, tendano a permanere nel tempo, non è necessariamente così in tutti i casi. L'evidenza mostra che durante i primi due o tre anni di vita la modalità di attaccamento è una proprietà della relazione, per esempio quella verso la madre può essere diversa da quella verso il padre, e mostra anche che se il genitore cambia il suo modo di trattare il bambino, cambierà anche, conseguentemente, la modalità di attaccamento.


Più passa il tempo, comunque, più la modalità di attaccamento diventa una caratteristica del bambino stesso, il che significa che questi tenderà ad imporla nelle nuove relazioni, quali quelle con un insegnante o con una madre adottiva.

Durante il corso dello sviluppo noi costruiamo nella nostra mente dei modelli di rappresentazione del nostro ambiente ed anche di noi stessi come figure agenti all'interno di esso. Tra i vari elementi di questo ambiente sia fisico che sociale del bambino, nulla è più importante per lui dei suoi genitori e del modo come essi di solito lo trattano. Il modello mentale che rappresenta la madre e il suo modo di comportarsi verso di lui, e l'analogo modello del padre, vengono costruiti dal bambino durante i primi due anni di vita sulla base delle sue concrete esperienze di vita. Allo stesso modo, egli costruisce un modello di se stesso riguardo sia alle sue capacità fisiche di azione che alle sue capacità sociali di interazione.


Questi modelli poi regolano il modo con cui egli si sente nei confronti dei genitori e di se stesso, con cui egli si aspetta che ciascuno di loro lo tratti, e con cui egli si comporterà verso di loro. L'esperienza mostra che questi modelli dei genitori e di sé nella interazione, una volta costruiti, hanno un'alta probabilità di essere presi per veri, e le modalità di interazione a cui portano diventano abituali e in gran parte inconsce. Essi così tendono a permanere invariati persino quando l'individuo si trova di fronte a circostanze del tutto differenti. Una cosa che influenza fortemente la loro persistenza è il comportamento di un genitore il quale, non avendo fornito per qualunque motivo al figlio una assistenza adeguata e sicura, distorca la realtà affermando che la causa di tutti gli attriti tra lui e il figlio risiede nelle deficienze del figlio stesso, e che i genitori di per se stessi non hanno alcuna colpa. Quando questo messaggio viene dato a un bambino con tutta l'autorità di un genitore e ripetutamente durante gli anni dell'infanzia, inevitabilmente il bambino cresce con una immagine di se stesso falsamente negativa. Portati avanti nella vita adulta, questi falsi modelli possono condurre a interazioni con potenziali amici o amanti, le quali, siccome sono basate su assunzioni inconsce ed errate, con tutta probabilità provocano fraintendimenti, fallimenti e sofferenze.


Principi di psicoterapia


La teoria della psicopatologia e dello sviluppo della personalità appena descritta può essere usata per guidare ciascuna delle tre principali forme di psicoterapia analitica oggi esistenti: la terapia individuale, familiare e di gruppo. In questa sede io parlerò solo della prima.

L'analista che applica la teoria dell'attaccamento vede come suo compito quello di fornire le condizioni in cui il suo paziente possa esplorare i modelli di rappresentazione di se stesso e delle sue figure di attaccamento in modo che possa rivederle alla luce di nuove esperienze e nuove evidenze. Il ruolo dell'analista può essere descritto elencando sinteticamente quattro compiti principali. Il primo è quello di fornire al paziente una base sicura dalla quale egli possa esplorare i vari aspetti infelici o dolorosi, della sua vita, passata e presente, molti dei quali per lui sono difficili persino da pensare senza la presenza di un compagno fidato che gli fornisca supporto ed incoraggiamento.

Il secondo è quello di assistere il paziente nelle sue esplorazioni incoraggiandolo a prendere in considerazione i modi con i quali egli instaura relazioni con le figure significative della sua vita, quali sono le sue aspettative verso i sentimenti e i comportamenti propri e altrui, quali pregiudizi lo possono portare a scegliere una determinata persona con la quale egli spera di instaurare una relazione intima, e a creare situazioni a lui sfavorevoli.

Il terzo compito dell'analista è quello di incoraggiare il paziente ad esaminare una relazione particolare, quella tra loro due, e cioè la relazione di transfert, nella quale quasi certamente il paziente trasferisce tutte quelle percezioni e aspettative derivate dai modelli di rappresentazione dei genitori e di se stesso, ovvero dalle sue precedenti modalità di attaccamento.

Il quarto compito è quello di incoraggiare il paziente a considerare come le sue attuali percezioni ed aspettative possono essere prodotte da situazioni incontrate durante l'infanzia e l'adolescenza, specialmente nel rapporto con i suoi genitori.


Sebbene durante il trattamento vi sia un rapido passaggio tra un compito e l'altro e si facciano collegamenti tra di essi, può essere utile considerarli uno alla volta. Il ruolo dell'analista nel fornire al paziente una base sicura è analogo a quello di una madre che fornisce al suo bambino una base sicura. L'analista cerca di essere attendibile, sensibile e attento e, per quanto gli è possibile, di vedere il mondo attraverso gli occhi del paziente, cioè di essere empatico. Nello stesso tempo egli è consapevole che il paziente, a causa delle sue avverse esperienze passate, può credere che l'analista non sia degno di fiducia, ma invece fraintendere o equivocare quello che l'analista dice o fa. Tra le molte difficoltà che un paziente può avere nel collaborare al trattamento vi è l'aspettativa che l'analista lo respingerà, lo umilierà, lo punirà o lo abbandonerà o che lo sfrutterà.

Non solo, ma se i genitori hanno più volte detto al paziente di non parlare mai con nessuno delle sofferenze vissute all'interno della famiglia, egli avrà molta difficoltà a parlarne con l'analista, o persino a ricordarle. Inoltre, se in passato il paziente si è trovato di fronte a costanti rifiuti da parte di una figura di attaccamento alla quale egli si era rivolto per ottenere aiuto quand'era in difficoltà, egli, consciamente o inconsciamente, anticiperà un rifiuto da parte dell'analista se per caso si dovesse trovare in difficoltà e avere bisogno di aiuto. L'analista, soltanto quando è consapevole della profonda e radicata paura del paziente di essere respinto o umiliato, può capire perché questi inibisce le lacrime e tutte le espressioni di sofferenza quando ricorda gli eventi e le situazioni che gli dovevano aver causato in quel momento il più grande dolore e terrore.


In questa breve esposizione che ho fatto, vari analisti riconosceranno aspetti che sono a loro molto familiari, anche se spesso chiamati con nomi diversi. L'alleanza terapeutica è equivalente a una base sicura, un oggetto interno è un modello rappresentazionale di una figura di attaccamento, la ricostruzione è l'esplorazione dei ricordi del passato, la resistenza (a volte) è la profonda riluttanza a disobbedire ad antiche ingiunzioni a non parlare, provenienti dai genitori. Tra le differenze vi è l'enfasi posta sul ruolo dell'analista come compagno per il proprio paziente nella esplorazione di se stesso e delle sue esperienze, e meno sull'analista che fornisce interpretazioni al paziente. Il paziente viene incoraggiato a vedere che, con aiuto e supporto, può scoprire da solo la vera natura dei modelli che guidano i suoi pensieri, sentimenti e azioni e che, esaminando la natura delle sue esperienze precedenti con i genitori o con i sostituti genitoriali, egli capirà cosa lo ha portato a costruire quei modelli ora attivi all'interno di lui. Un compito ulteriore per il paziente è quello di riconsiderare l'adeguatezza di quei modelli per le situazioni nelle quali al presente si trova e per le esperienze che egli ora può avere, e di modificare i modelli nei modi che egli ritiene ora i più appropriati.


Una parte del lavoro dell'analista è quella di permettere al paziente di avere pensieri che gli erano stati in precedenza proibiti dai suoi genitori, di provare sentimenti in precedenza disprezzati e di considerare la possibilità di compiere azioni in precedenza giudicate imperdonabili. Un'altra parte del lavoro dell'analista è di assistere il suo paziente nel ricordare terrorizzanti o disturbanti eventi dei suoi primi anni di vita, aprendo nuove possibilità alla luce della sua conoscenza dei comportamenti dei genitori che egli ora sa che contribuirono a creare i problemi per i quali soffre. Per essere a conoscenza di tutte quelle nuove informazioni che stanno rendendosi disponibili, grazie a sistematici studi longitudinali. Sfortunatamente, molti analisti oggi non solo ignorano i risultati di queste ricerche, ma non sono neanche a conoscenza della loro esistenza. Inoltre, a causa della lunga tradizione psicoanalitica secondo la quale viene data molta enfasi al ruolo della fantasia, fino alla virtuale esclusione dei fatti reali della vita, molti analisti sono prevenuti dall'accettarli quando ne vengono a conoscenza.

In questa breve esposizione ho messo a fuoco (usando un linguaggio tecnico) i principi che credo dovrebbero guidare un analista e poco ho detto sulle modalità con cui questi principi dovrebbero essere applicati nella pratica (usando il linguaggio della vita di tutti i giorni).

Questa, io credo, è un'arte che ogni analista deve acquisire a modo suo, in parte imparando da chi ha più esperienza, ma imparando ancora di più, forse, dalle esplorazioni che egli intraprende con i suoi pazienti.


Riflessioni sui mutamenti nel mio metodo psicoanalitico

di Donald Meltzer


Potrei forse cercare di delineare in modo più personale quello che io considero l'impatto delle idee di Bion sul mio stile di vita, sulla mia visione del mondo (modello della mente, struttura della storia, evoluzione delle organizzazioni politiche, ruolo dell'artista nella comunità natura della psicoanalisi in quanto oggetto ecc.)

Nei termini del concetto di Bion di «cambiamento catastrofico» e dell'impatto della «nuova idea», non è difficile stabilire che cosa abbia rappresentato questa idea e quale rivoluzione essa abbia provocato nel mio modo di pensare e di lavorare... nonché nel mio comportamento in generale. Questa «nuova idea» era palesemente qualcosa del tipo: «In principio c'era l'oggetto estetico, e l'oggetto estetico era il seno e il seno era il mondo».

La parola «seno» è qui da me usata naturalmente come termine tecnico, con la sola implicazione della descrizione, piuttosto che il contrario. Da un lato mi stupisce che questa idea non mi abbia raggiunto attraverso Adrian Stokes, il quale l'aveva sempre tenuta presente, dall'altro è difficile dire che dove essa si ritrovi nei lavori di Bion.

Non si trova nella Griglia, è solo accennata in Trasformazioni e ricorre in una posizione secondaria in Attenzione e interpretazione. Solo in Memoria del futuro essa trova uno spazio inequivocabile. Tuttavia essa mi aveva raggiunto attraverso Bion, prima di quella pubblicazione, insinuandosi nei miei pensieri e, di certo, nel mio studio di consultazione. Non solo mi ero reso conto che il metodo psicoanalitico aveva assunto ai miei occhi, una qualità estetica, ma avevo cominciato ad osservare, tramite i sogni, che le cose stavano così anche per alcuni dei miei pazienti.


Riandando al passato, penso che un ruolo importante lo abbia avuto il lavoro sull'autismo, con la sua elaborazione del concetto di dimensionalità; la elevata sensibilità estetica di molti bambini autistici era così evidente che non si poteva fare a meno di chiedersi se la loro carenza evolutiva non fosse fondata su processi diretti a eludere l'impatto con la bellezza del mondo. Lo smantellamento dei sensi e la bidimensionalità sembravano metodi molto delicati per ottenere ciò senza fare violenza all'oggetto, sia esternamente che internamente. Il processo di smantellamento dei sensi era comunque troppo massiccio, troppo simile ad un assassinio dell'anima per far luce sul problema. Ma la bidimensionalità comportava domande affascinanti. In un primo momento sembrava che questo appiattimento del mondo del significato fosse ovvio, come se la riduzione del significato risultasse in un naturale impoverimento degli affetti. Le idee di Bion suggerivano il contrario e cioè che un sistema che limita la intensità degli affetti produce un indebolimento del significato. Se le cose stavano così, allora l'orientamento bidimensionale verso il mondo sarebbe una difesa contro l'impatto con l'oggetto in quanto capace di suscitare emozioni. Ma in che modo avveniva ciò?

L'idea di Melanie Klein era che l'interesse per l'interno del corpo della madre, e pertanto la pulsione epistemofilica in generale, traesse origine dall'intensa emozionalità del rapporto tra madre e bambino.

La bidimensionalità potrebbe allora essere il risultato di una negazione della realtà psichica dell'oggetto, piuttosto che di una regressione a uno stadio precedente dello sviluppo cognitivo?


Allo stesso modo venivano messe in dubbio precedenti affermazioni legate al disegno tracciato da Melanie Klein circa la posizione schizo-paranoide e la posizione depressiva. Esther Bick aveva chiarito i processi identificatori legati alla bidimensionalità (identificazione adesiva) in modo tale che risultava possibile ipotizzare l'esistenza di una organizzazione della mente che precede la posizione schizo-paranoide, il che rafforzerebbe l'assunzione di una sequenza genetica con una forte logica interna, collocando la posizione depressiva a un livello di esperienza più sofisticato. Ma la formulazione kleiniana dei fattori che operano per mettere in moto l'istinto epistemofilico non sembrava del tutto soddisfacente. Il fatto che la Klein non avesse fatto distinzione tra curiosità invadente e sete di conoscenza, quali fattori dell'interesse del bambino piccolo per l'interno del corpo della madre, indeboliva l'edificio concettuale.

Le scoperte fatte con i bambini autistici confermavano che il sadismo e i processi di scissione non avevano un ruolo centrale nella loro malattia, bensì che sadismo e scissione si sviluppavano fortemente durante il processo di guarigione e di avanzamento nello sviluppo.

L'insoddisfazione nei confronti del modello della mente, utilizzato nello studio di consultazione, deve avere gradualmente provocato un allontanamento dal pensare in termini di fasi genetiche, per orientarlo verso una concezione in termini di campo.


La complessità implicita era scoraggiante, ma ogni accoglimento delle idee di Bion sembrava esigerla. Mi sovvenne di Melanie Klein la quale, in un convegno, ad alcuni che avevano criticato le sue argomentazioni, rispose che non era lei a rendere le cose difficili: esse lo erano in se stesse. Naturalmente la psiche umana è la cosa più complessa che ci sia nell'universo. E ci deve essere un limite oltre il quale la madre, studiandosi, non riesce a penetrare i propri misteri. Forse il mistero stesso è un aspetto molto importante della sua essenza.

L'importanza attribuita da Bion alla coscienza, non in quanto sistema, bensì come organo della mente, l'organo della attenzione, si era già chiaramente imposta a seguito delle esperienze con i bambini autistici. In questi bambini la diffusione dell'attenzione con il conseguente smantellamento di ciò che Bion, un po' per scherzo, aveva chiamato «senso comune» (la «consensualità» di Sullivan) sembrava un modo, allo stesso tempo, potente e delicatamente rispettoso per eludere l'impatto con la vita, sia attorno che dentro di sé. L'indicazione terapeutica circa l'importanza di afferrare e trattenere la loro attenzione con un parlare interessante, basato su osservazioni acute aveva dimostrato la sua efficacia, ma anche la sua tendenza a spossare il terapeuta.


L'orientamento in termini di «campo», che accetta livelli molteplici di funzionamento simultaneo e più o meno integrato e che sembra provocare la domanda «come» e non solo «quando», è il livello mentale chiamato a operare per sovrapporsi al livello meramente neurofisiologico. L'approccio di Bion al problema, nel presumere che la prima operazione sarebbe la creazione di pensieri i quali, in seguito, richiedono un apparato per pensarli (manipolarli, usarli) sembra essere il punto cruciale di rottura con l'implicazione tradizionale secondo la quale il pensare è precedente in quanto funzione, e genera pensieri. Ciò gli ha reso possibile la creazione della Griglia e il passaggio all'esame delle Trasformazioni attraverso le quali il pensiero inizia a utilizzare i pensieri. Oltre a questo, gli ha fornito una struttura per considerare i falsi pensieri, le bugie, i fraintendimenti, la non-verità, le concezioni errate, la propaganda, il cinismo. Se a ciò si aggiunge il grande passo di opporre l'emozione alla anti-emozione (positiva e negativa, L, H, K) disponiamo di un nuovo abaco per pensare sul pensare.


La possibilità di considerare quello che è il mentale come «livello» e che esso venga «chiamato in causa» mediante la focalizzazione dell'attenzione sulla emotività stimolata da una esperienza, concede una nuova libertà alle nostre riflessioni sul problema. E non è solo il chiarimento semantico che ravviva l'atmosfera in quanto spazza via la tradizionale preoccupazione primaria per la logica e, quindi, per la matematica e la linguistica come nostra suprema fonte di informazione, dal tempo dei Greci fino al Tractatus. Il concetto «vuoto» di funzione alfa è la nostra chiave nuova. Ma la serratura cui si adatta è anch'essa spostata: questo è il punto cruciale. Siamo stati tratti in inganno dal nostro confondere la creazione di oggetti estetici come opera eccezionale di un genio altamente evoluto con la percezione della bellezza-del-mondo, che Wordsworth affermò essere insita nelle «nuvole di gloria» (Wordsworth W., Ode on Intimations of Immortality) che prende corpo nella mentalità dei bambini e nella loro disponibilità allo «splendore nell'erba» (Wordsworth W., ibidem). Se il poeta avesse inseguito il problema della perdita di codesta sensibilità, anziché accettare la facile spiegazione, di tipo sociologico in sostanza, secondo la quale «prendendo e consumando saccheggiamo le nostre facoltà» (Wordsworth W., Sonetto), sarebbe stato in grado di riconoscere con maggiore chiarezza la natura della sofferenza che questa sensibilità porta come conseguenza.


In modo simile l'attenersi alla formulazione freudiana circa la dualità degli istinti ha indotto Melanie Klein soltanto ad aggirare il problema e giustificare la evidente ambivalenza implicita nell'istinto epistemofilico, basandosi sulla frustrazione. Questo atteggiamento risulta abbastanza sorprendente, se si considera che ella sapeva benissimo che un livello ottimale di dolore psichico (frustrazione, persecuzione, invidia, ecc.) è necessario allo sviluppo, poiché è indotto da un conflitto sopportabile. Ho descritto la prima volta che intravvidi il problema nel saggio La comprensione della bellezza; ma non potei afferrare ciò che mi era balenato davanti agli occhi, come invece ha potuto fare Hannah Segal nel suo famoso saggio sull'estetica. E così riunirono la chiave della funzione alfa e la serratura della bidimensionalità, che trova una metafora adeguata.


L'area problematica che la chiave della formazione simbolica doveva aprire era l'enigma circa l'interno e l'esterno dell'oggetto estetico. Il suo potere di provocare l'emozionalità fu raggiunto solo dalla sua capacità di generare angoscia, dubbio, diffidenza. Mentre le qualità sensuali dell'oggetto estetico potevano essere percepite con un certo grado di sicurezza, le sue qualità interne, essendo infra-sensibili e sovra-sensuali, non davano altrettanta garanzia. Qui era necessario che l'osservazione fosse collegata al pensiero e al giudizio e il giudizio dipendeva fortemente, per la sua fermezza, dall'esperienza. Perché era sicuramente nell'uguaglianza o nella disparità tra questo esterno e interno dell'oggetto che suscita soggezione e meraviglia, che risiedeva la sua utilità per il bene o per il male. Ma l'esperienza che il neonato ha del mondo è pressoché nulla. Come può egli pertanto esercitare tale giudizio? Egli non può: può solo attendere per vedere cosa accadrà in seguito.


Questo sarebbe dunque il contesto nel quale l'assenza dell'oggetto provoca il proprio impatto cruciale, mettendo alla prova la tempra del soggetto. Bion ha definito questo problema dell'oggetto assente come «oggetto assente come persecutore presente», in relazione allo «spazio in cui si trovava l'oggetto», forse anche implicitamente includendovi «gli spiriti delle qualità dipartite» di Berkeley. Questi «tempi che mettono le anime degli uomini alla prova» (Paine T., Common sense) e scoprono il «Il soldato dell'estate» (Paine T., ibidem) nelle profondità, devono essere infinitamente più stressanti per il bambino se ci ricordiamo del loro impatto su Otello e Leonte, e La belle dame sans merci (Keats J., La belle dame sans merci).

La fiducia sarebbe pertanto una qualità composita della mente, come libbre-piedi sono una definizione di lavoro: ore-speranza o minuti o giorni o anni. Nel bambino piccolissimo possono talora sembrare secondi-speranza quando la sua faccia crolla disperatamente appena la madre scompare dietro l'angolo.


Nel definire in tal modo il problema fondamentale delle relazioni estetiche e nell'affermare che la relazione estetica con il mondo è lo stimolo originario a pensare, abbiamo adottato una posizione compatibile con una teoria di campo che è anche intrinsecamente genetica. Ciò consente di rapportarci a valori con un approccio puramente mentale svincolato da speculazioni biologiche, cosa che la differenziazione tra posizione schizoparanoide e depressiva, con il suo fondamento negli istinti di vita e morte, non riesce a fare. Mentre la questione della sofferenza psichica e della sua sopportabilità non perde affatto la sua risonanza clinica come arbitro della forza dell'Io, viene introdotto un nuovo fattore nella dinamicità del conflitto. La fiducia, espressa in unità tempo-speranza, parlando in modo schematico, sembrerebbe avere radici qualitative nella ricchezza dell'esperienza estetica a cui segue la separazione. E questa ricchezza può essere sicuramente rintracciata nell'elemento di reciprocità della comprensione della bellezza. Perché il bambino deve essere tenuto come un oggetto estetico della madre affinché l'esperienza del loro amoreggiamento riecheggi tra loro e aumenti di intensità.


Un siffatto fondamento, che ci consente di concepire il «come» della chiamata in causa della capacità di pensiero simbolico, il prodotto della misteriosa funzione alfa, ci libera più o meno dal doverci preoccupare troppo per il «quando». Che il «quando» avvenga prima o dopo la nascita, esso deve comunque avere luogo. E se questo legame di reciprocità è il suo elemento essenziale, il suo inizio può variare largamente nel tempo. Ma, purtroppo, dobbiamo riconoscere che esso potrebbe non verificarsi affatto, come nei bambini che paiono non raggiungere l'adattamento post-natale o i bambini il cui apparato neurofisiologico non risulti essere sufficientemente complesso da potere raggiungere il livello estetico di risposta. Il bambino autistico e il bambino che non si sviluppa possono percepire ciò e ribellarsi contro il suo ascendente. Per la pratica clinica risulta però più importante il corollario; cioè che le operazioni difensive che la psicoanalisi è particolarmente adatta a seguire possono, nella maggior parte dei casi o, forse, in tutti, essere viste come delle mosse contrastanti l'impatto dell'oggetto estetico.

Non che questo sia evidente nei primi tempi di un'analisi.

Avviene, a mio parere, alle soglie della posizione depressiva, dopo che la situazione confusiva è stata chiarita. In che modo questa concezione differisce nella sostanza dalle formulazioni della Klein e quali sono le precise modificazioni provocate da questa concezione nella sala di consultazione?


Indubbiamente la prima è più importante modificazione consiste in una diminuzione dell'importanza dell'esattezza della interpretazione, forse addirittura in una complessiva diminuzione della urgenza di interpretare. Per conto, l'attenzione si sposta in avanti, per così dire, in direzione dell'interazione, del rapporto dal quale le idee interpretative emergono. Il modello contenitore-contenuto attribuisce nuovo valore alla ricettività e al tenere nella mente dell'analista la situazione dinamica del transfert-controtransfert. Ma forse affermare questo, come se l'analista fosse il contenitore, non coglie il fatto che sono il reciproco adeguamento dell'attenzione e degli atteggiamenti dell'analista e della tendenza a collaborare del paziente a formare e suggellare il contenitore, fornendogli il grado di flessibilità e di robustezza necessaria in ogni momento.

L'interpretazione perde così la sua funzione esplicativa, in parte per la mutata natura della situazione psicoanalitica, ma, in parte, anche perché l'analista ha abbandonato il suo orientamento di tipo causale nei confronti degli eventi psichici. Il campo degli stati della mente non consente al linguaggio della linearità di farsi valere; questo si ritira per fare posto a tentativi di descrizione, disperatamente inadeguati in un certo senso, così come un dipinto non potrebbe venire utilizzato come base per una ricerca botanica. Invece la metafora dell'illuminazione sostituisce la spiegazione. Mi rammento di avere visitato una grotta in Dordogna, credo che fosse la grotta di Combarelles, piena di graffiti di animali dell'era glaciale. Mentre la guida spostava la lampada da un angolo all'altro della grotta, diverse immagini sovrapposte spiccavano sul muro.


Questa immagine del compito verbale dell'analista, cioè di gettare una luce di comprensione da un vertice all'altro, modifica straordinariamente l'atmosfera della comunicazione, diminuendo le aspettative autoritarie del paziente e condividendo la responsabilità tra entrambi i membri del «gruppo di lavoro» a due.

Essa permette inoltre la formazione graduale di una linea interpretativa di cui certi sogni - i sogni, non le loro interpretazioni - costituiscono il punto di riferimento per entrambi i membri. La funzione della comprensione, con tutta la sua insicurezza e la prontezza a cedere il posto, libera l'analista dalle aspettative di conoscenza e gli consente pertanto una libertà speculativa molto superiore. Possono essere liberamente comunicate delle intuizioni, la cui prova non risulti fino a quel momento evidente, poiché il grado di incertezza è indicato dalla musica della voce. Poiché in questo modo viene tolta alla relazione la mistificazione dell'apparente onniscienza, il paziente si interessa maggiormente al metodo e accoglie volentieri spiegazioni sulle motivazioni del comportamento dell'analista. Tutto questo, compresa la definizione migliorata della forma che sembra assumere il processo analitico, tende a erigere il concetto della scienza, il processo, il metodo presi forse insieme alla storia personale e istituzionale come oggetto estetico.


Ciò contiene delle implicazioni di vasta portata per il transfert e il contro-transfert, poiché ha stabilito un oggetto che non è confinato - in termini freudiani - nelle limitazioni inerenti alle «particolarità» dell'analista: la sua età, il suo sesso, il suo aspetto fisico, gli avvenimenti conosciuti circa la sua situazione di vita, i suoi valori, la sua concezione politica, ecc. Infatti ciò apre la via alla formazione di un oggetto che il terapeuta e il paziente possono esaminare insieme da una certa distanza; così come si indietreggia dinanzi alla maggior parte dei dipinti per consentire alla composizione di colpirci, indi si fa un passo avanti per apprezzare i colpi di pennello e la tecnica dell'artista.

La psicoanalisi in quanto cosa-in-sé e la sua manifestazione particolare nell'esperienza personale del singolo paziente, viene a formare un legame con l'oggetto parziale interno, il seno-pensante materno come oggetto composto, seno e capezzolo. Le funzioni che l'analista è sentito svolgere all'interno del processo analitico assumono forma definitiva chiarendo grandemente la natura della dipendenza sperimentata. L'acting out alla ricerca di sostituti durante i momenti di separazione, si manifesta chiaramente o per l'adeguatezza o per l'inadeguatezza di questi fac-simili. L'analista si trova pertanto in una posizione più favorevole per aiutare il paziente e valutare l'utilità di queste relazioni alternative e non si limita semplicemente ad opporsi a esse, nell'ipotesi che esse debbano necessariamente impoverire il transfert.


È in questo senso che la esteriorizzazione dell'organizzazione narcisistica del paziente, con individui e con gruppi, viene sottoposta a un esame più preciso, perché il fondamento del giudizio non deve per forza basarsi solo sul valore. È vero che lo spostamento della base del giudizio di valore, da criteri morali o etici a criteri di sviluppo (ciò che spesso significa sospendere il giudizio) attenua l'asprezza degli interventi dell'analista circa le relazioni a base narcisistica, dal momento che il suo atteggiamento manca di una base dimostrabile, fuorché per quanto riguarda i sogni. Ma quando le modalità di pensiero e le vie della comunicazione possono essere sottoposte anch'esse a esame, è spesso possibile dimostrare i deficit nella qualità del pensiero. Questo è chiaro soprattutto quando è in discussione un coinvolgimento di tipo Gruppo di assunto di base, ma anche nella gang formata da uno o più conoscenti, possono essere spesso dimostrate le funzioni che «legano in modo sbagliato» la Griglia negativa (la «fantasia mimica» di Milton) (Milton J., Il paradiso perduto). Questa via di ricerca sui processi della comunicazione nel gruppo è di certo una aggiunta di Bion al nostro equipaggiamento per indagare sull'attività del narcisismo. Tale ricerca raggiunge il massimo della chiarezza nelle aree perverse della personalità le quali prosciugano la vitalità dei rapporti oggettuali. E qui la formulazione di Bion sui legami emotivi, positivi e negativi, getta una luce splendente.

«Ma non è vero che sono una parte della vita emotiva di quest'uomo?» pare chiedersi l'area perversa, rivendicando una certa rispettabilità e una giusta quota nel mondo delle relazioni intime umane. Una teoria dualistica di vita e morte, di pulsioni creative e distruttive non dà una risposta definitiva, se non un riluttante: «Sì, ma devi essere arrendevole, integrato a fini buoni e creativi»; ciò verrà apparentemente accettato e un sorriso dall'aspetto perverso nasconderà il trionfo. Ma quando le tendenze perverse sono riconosciute come anti-emozioni, meno L, H e K, non c'è bisogno di cedere loro nessuno spazio in forma di compromesso.


Il concetto di Griglia negativa e il riconoscimento da parte di Bion del fatto che la conoscenza della verità è indispensabile per costruire bugie efficaci (bugie verso se stessi come verso gli altri) ci ha fornito un potente strumento per esaminare il contenuto e le operazioni degli attacchi cinici contro la verità. Mentre non ho mai riscontrato l'utilità della Griglia per la contemplazione analitica, come suggeriva Bion, il suo formato rivela invece, con grande chiarezza, gli spostamenti dei livelli di astrazione e le affermazioni paradossali che accompagnano questi. Ciò porta a una maggiore abilità nell'esame delle funzioni difensive e di evasione nell'uso ambiguo del linguaggio, così come nei difetti nelle operazioni logiche, nelle pseudo-quantificazioni, nelle false equazioni, nelle similitudini spurie. Questi strumenti riuniti per esaminare i processi di pensiero e di comunicazione conferiscono all'analista una posizione assai più forte di prima nella battaglia per strappare le strutture infantili al dominio o all'influenza di parti distruttive della personalità che organizzano raggruppamenti narcisistici o di assunti di base, sia internamente che nel mondo esterno.


Infine, dobbiamo esaminare l'importante questione della nostra definizione privata e corporativa di psicoanalisi e le sue implicazioni per i nostri metodi di lavoro nello studio di consultazione. Non intendo riferirmi agli aspetti politici del problema, quali il definire la psicoanalisi come ciò che viene praticato dai membri della Società psicoanalitica, o il requisito «cinque-volte-la-settimana» o i setting extra-istituzionali e così via. Queste definizioni locali riguardano problemi politici locali e non sono di interesse scientifico. I problemi importanti sono di definizione privata e di presentazione pubblica ai colleghi.


La nostra definizione privata deve fondarsi essenzialmente su due pilastri, il metodo e il processo che esso mette in moto. Quasi tutti in questo campo saranno d'accordo sul fatto che l'essenza del metodo consiste nell'esame accurato e nella descrizione del transfert, attraverso l'esame interno del contro-transfert. C'è assai meno accordo, o necessità di accordo, per quanto riguarda la natura del processo terapeutico generato da queste operazioni. Non è impossibile che il processo vari da analista e analista, forse da paziente a paziente, in modo molto significativo. Ma tutti si troveranno d'accordo nel ritenere che ogni analista ha bisogno infine di avere formulato la sua propria concezione circa il tipo o la gamma di processi che egli considera utili in una analisi che progredisca. È chiaro che egli non può servirsi di criteri terapeutici sia osservati che riportati. Dopo tutto, non c'è alcun bisogno per gli analisti di rivendicare il monopolio dell'efficacia terapeutica.


Dopo essersi formato una simile concezione circa il tipo o la gamma di processi utili, l'analista dovrebbe essere in una posizione tale da avere una maggiore flessibilità nel venire incontro alle richieste dei suoi pazienti per quanto riguarda la frequenza, la durata delle sedute, il loro scaglionamento, il saltare le sedute, i periodi di terapia, i modi di pagamento, l'uso del divano, il portare o spedire materiale scritto o di tipo grafico, gli incontri con i parenti. L'accortezza può sostituire la rigidità di stile e di metodo, quando i concetti di base personali, circa il metodo e il processo, sono stati stabiliti attraverso l'esperienza con il singolo paziente e la pratica in generale. Modifiche nello stile e nel metodo introdotti dall'analista dovrebbero però venire tuttora considerate con grande sospetto e magari evitate, salvo al fine della ricerca posta in buona fede.

Ma una risposta flessibile alla richiesta di un paziente fondata sull'esperienza e saldezza di concetto, sostenuta dall'attento esame del materiale precedente e successivo, può sortire un effetto benefico, umanizzante e di incoraggiamento. Le conseguenze per l'analista sono, comunque, assai più importanti. Un siffatto orientamento lo obbliga a impegnarsi in un esame continuo e attento delle motivazioni delle proprie procedure tanto da dare impulso al suo apprendere dall'esperienza.

sabato 1 marzo 2008

L'incapacità di elaborare il lutto come conseguenza di un inadeguato apprendimento della gestione delle emozioni.

di Paolo Roccato


Una delle cose più importanti per realizzare una vita sufficientemente felice è la strutturazione della capacità di elaborare il lutto. Per vivere bene, questa capacità (che, fondamentalmente, fa parte di quella più generale di tollerare e gestire il dolore mentale) paradossalmente é ancora più importante che non la capacità di riconoscere, cercare e procurarsi il piacere. Noi nasciamo dotati soltanto delle potenzialità per sviluppare questa capacità. Perché essa venga acquisita, strutturata e, soprattutto, consolidata, è necessario un lungo e complesso lavorìo, che durerà tutta la vita, ma le cui radici vengono già poste nelle relazioni fondanti di base, in quelle relazioni originarie, cioè, altamente dinamiche e intensamente interattive con gli adulti che si occupano di noi nei primi tempi della nostra vita, allorché prende forma e si struttura il Sé nei suoi aspetti basilari.


In qualunque contesto culturale, le "vie della saggezza", in ultima analisi, si organizzano attorno alla piena acquisizione della capacità di elaborare il lutto. E scopo della saggezza non è attuare una qualche mistica del dolore, ma è conoscere e integrare i vari aspetti di sé, realizzandoli al meglio, per godere il più possibile.


Prima di tutto, bisogna dissipare il campo da un grossolano equivoco, molto diffuso fra le persone di buona volontà. Non è vero che il dolore faccia bene, che, di per sé, "tempri il carattere" o sia "formativo". Il dolore fa male. Fa sempre male. Ed evitare il dolore, se possibile, o attenuarlo, non soltanto è sano, ma è parte integrante della saggezza. Il fatto è che non tutto il dolore è evitabile, né tutto il dolore è attenuabile. E che molti modi per cercare di evitarlo, annullarlo o attenuarlo sono spesso inefficaci o, addirittura, dannosi, perché conducono a restrizioni, invece che non a realizzazioni, del Sé. É qui che nascono i problemi. La vita, anche quando non presenti eventi eccezionali, già solo nel suo normale dipanarsi comporta inevitabilmente l'esperienza del dolore in generale, e in particolare quella del dolore mentale specifico per la perdita di qualcosa di buono, non foss'altro che per i normali processi di crescita. É per questo che la base della saggezza sta nella capacità di elaborare il lutto. É questa capacità acquisita che "fa bene". Sono le vie che portano alla sua piena strutturazione che sono "formative", non il dolore di per sé.


Viversi il proprio dolore inevitabile è una cosa che si apprende. Questo apprendimento avviene sì attraverso le esperienze di vita (è solo vivendo che impariamo a vivere), ma principalmente attraverso le esperienze relazionali, dove le persone reali con cui siamo in rapporto hanno, specialmente in certi momenti, un'importanza decisiva. Per quello che qui ci interessa, apprendiamo soprattutto i modi per cercare di rendere più tollerabile il dolore mentale. Schematizzando un poco, possiamo chiamare depressivo quel particolare dolore mentale che è proprio dell'esperienza di perdita di qualche cosa di buono che avevamo o che eravamo. Per esempio: il dolore per la perdita di una persona o di una cosa amata (la fidanzata mi ha lasciato, la mia casa è stata alluvionata), o quello per la perdita di qualcosa che sentivamo facente parte della nostra identità, quale una nostra capacità (dopo un incidente, non posso più camminare), un nostro stato (mi hanno licenziato), una nostra qualità, o, particolarmente importante e troppo spesso misconosciuto, una nostra pura e semplice possibilità. Deve trattarsi (è ovvio, ma troppo spesso si può dimenticarsene) di qualcosa di sentito come buono soggettivamente: non interessa nulla, a questo riguardo, ciò che potrebbe risultare da una visione che pretenda di porsi come "obiettiva".


Una cosa che le persone hanno difficoltà a riconoscere, soprattutto nella nostra cultura, così superficiale e frettolosa e così tesa al "successo", è che il dolore della perdita si presenta sempre quando percepiamo che abbiamo perduto qualche cosa di buono, ed è "normale" che si presenti, è segno di un buon funzionamento mentale che si presenti. E si presenta indipendentemente dalle eventuali acquisizioni che si realizzano contemporaneamente alla perdita stessa.


Il dolore depressivo è l'emozione adeguata che ad un tempo realizza e ci segnala la percezione della perdita di qualcosa di prezioso. Se ci si presenta, vuol dire che qualcosa di prezioso è da noi percepito come perduto. Gli aspetti di base della mente lo sanno, per così dire, e lo segnalano "a viva voce": si tratta di ascoltare e comprendere. Di creare un adeguato "spazio mentale" che possa contenere anche quel dolore. Troppo spesso, invece, vengono misconosciute, per esempio, le cosiddette "depressioni da successo" ("É da quando mi sono laureato che sono depresso"; "Ho ottenuto finalmente la promozione, e mi trovo che ho solo voglia di piangere, e mi pare che niente abbia più valore, e non capisco perché"; "Finalmente mi è nata la bambina che avevo tanto desiderato, e la vita mi appare solo nera"), perché si è abbagliati da ciò che il successo apporta, e non si vede ciò che viene lasciato e la sensatezza del relativo dolore (nei casi citati: la condizione adolescenziale, poniamo; o il gruppo di lavoro e la sicurezza di poter dipendere; o la condizione di figlia o di oggetto unico dell'amore del partner, per esempio).


E, sempre schematizzando un poco, possiamo chiamare elaborazione del lutto quel particolare processo mentale, lungo e complesso, che conduce a un consapevole rassegnarsi alla perdita patita. Per potersi svolgere, l'elaborazione del lutto necessita della messa in opera di un insieme di modi per rendere più tollerabile il dolore depressivo.


L'elaborazione del lutto è un processo (un "lavoro", diceva FREUD) lungo e articolato, che si svolge "a ondate" per mezzo delle quali ci avviciniamo e ci allontaniamo dalla percezione diretta del dolore mentale depressivo. Perché il processo si compia, abbiamo bisogno di molto tempo. Se la perdita di cui patiamo è per noi rilevante, usualmente sarà necessario non meno di un anno un anno e mezzo perché gran parte del processo sia compiuta. Ma spesso ci sono aspetti del processo di lutto che si possono svolgere soltanto dopo, anche molti anni dopo. E parlo qui di un'elaborazione "normale" del lutto. Purtroppo, è raro che gli operatori delle professioni di aiuto (medici, psichiatri, psicologi, assistenti sociali, insegnanti, ecc.) lo sappiano e ne tengano conto, mentre il rispetto della necessità di elaborare i lutti è una delle basi della prevenzione primaria della patologia mentale dei soggetti sofferenti e cosa molto importante, ma troppo spesso misconosciuta e trascurata dei figli dei soggetti impegnati nell'affrontare il dolore depressivo. Una delle principali fonti di trasmissione della patologia mentale tra le generazioni, infatti, risiede proprio nella incapacità o impossibilità di elaborare i lutti da parte dei genitori.


Aiutare le persone a riconoscere, affrontare e tollerare il dolore mentale in ogni sua forma, ma soprattutto in quella depressiva, è cosa fondamentale per il miglioramento della qualità della vita, sia di quella degli interessati sia di quella delle generazioni future.


Il processo di elaborazione del lutto conduce, piano piano, nel tempo, un po' "per crisi" e un po' "per lisi", a una progressiva piena consapevolezza emotivocognitiva della perdita subìta (non di meno, ma neppure di più); ad una sua accettazione profonda (cioè maturata attraverso l'integrazione di ogni aspetto di sé implicato nella perdita); ad una stabile ristrutturazione emotivocognitiva della percezione di Sé che tenga pienamente conto della perdita; a un riconoscimento schietto, senza infingimenti, del dolore che si sta vivendo, della sua sensatezza e "legittimità", per così dire; e a un ritornare ad accogliere, a stimare e a volere bene al se stesso sofferente che ci si ritrova ad essere. Quando le cose vanno bene, piano piano, nel tempo, con movimenti di avanti e indietro, con subitanei squarci di dolore e lente rimarginazioni di ferite, il processo condurrà a collocare mentalmente nel passato ciò che nella realtà è passato: a lasciarlo, in definitiva. E questo comporta, nel mondo interno, grandi trasformazioni delle immagini mentali sia di sé sia della cosa perduta, la quale potrà venir conservata soltanto in quanto sarà trasformata in ricordo. E così pure il legame che connetteva sé alla cosa perduta verrà ad essere, poco alla volta, trasformato: da attaccamento lacerato, a "rimembranza" dell'attaccamento, attraverso i percorsi che conducono a mettere insieme ciò che è stato smembrato. Per poter "lasciare andar via" il passato senza perdere l'integrazione di sé, è indispensabile ricordare. E invece, quando uno perde una persona cara, tutti son lì a dirgli: "Cerca di dimenticare!".


É frequentissima l'evenienza misconosciuta che alla base di un malessere esistenziale o di vere e proprie patologie mentali (personali, di coppia o dell'intera famiglia; ma anche dei gruppi e delle istituzioni) vi sia un lutto incompiuto: "pietre" troppo affrettatamente "messe sopra" al passato, e quindi un passato che non è passato, che non è mai stato trasformato soggettivamente in passato. Sempre più spesso mi accorgo, in analisi e in psicoterapia, che molte volte nella preistoria della patologia dei miei pazienti si trova sorprendentemente un lutto mal compiuto da parte dei genitori.


É anche per questo, per la sua importanza nella prevenzione primaria della patologia mentale dei discendenti, che ho deciso di parlarvi oggi di questo tema.


E qui è necessario introdurre brevemente un discorso generale sulle emozioni.


La prima psicoanalisi, per il bisogno di radicare scientificamente (nella scienza di allora) le scoperte cliniche che FREUD e gli altri pionieri (nostri coraggiosi antenati) andavano compiendo, ha elaborato una teoria "energetica" delle emozioni. L'emozione sarebbe stata un quantum di energia psichica che si sarebbe connesso alla rappresentazione. La gestione delle emozioni sarebbe stata del tutto inconscia, e sarebbe stata riconoscibile nei suoi effetti soltanto attraverso lo studio dei rapporti fra emozione e rappresentazione (connessione, disgiunzione, spostamento, ecc.) e attraverso lo studio della "dinamica" energetica, una sorta di "idraulica della mente" (repressione, ingorgo, scarica, e così via).


Ora, invece, è chiaro e assodato che l' "energia psichica" non esiste, ma è solo una metafora. E come ogni metafora può piacere o non piacere, può essere ritenuta utilizzabile o non utilizzabile, secondo il suo valore euristico. Ai tempi di FREUD doveva essere ritenuta molto utilizzabile, se si è arrivati addirittura ad una specie di reificazione della metafora, tanto che molti hanno ritenuto (e ormai soltanto in pochi ancora oggi ritengono) che si trattasse di qualcosa di realmente esistente.


Attualmente, basandosi sugli studi neurofisiologici, osservativosperimentali e psicologicoclinici (fra cui quelli psicoanalitici), si può affermare che l'emozione è un processo molto complesso, che comporta aspetti cognitivi, motivazionali, espressivi, comunicativi e conativi. La distinzione fra i vari aspetti dei processi emozionali è stata spesso misconosciuta perché essi si presentano all'esperienza come un tutto unico. In un solo istante, si realizzano quasi contemporaneamente. É la medesima esperienza, poniamo, di paura quella che realizza, in un tutt'uno, la conoscenza immediata e diretta di qualcosa di minaccioso per gli aspetti fondamentali del mio vivere; la spinta all'azione (fuga dalla cosa minacciosa, attacco per annullarla, o paralisi per mimetizzarsi); la comunicazione agli astanti sia del pericolo percepito sia della reazione ad esso; la sollecitazione affinché essi partecipino all'esperienza, alla conoscenza e alla reazione del soggetto; la spinta perché essi a propria volta si attivino convenientemente.


Per quello che oggi voglio dirvi, senza minimamente dimenticare gli altri aspetti, interessa che le emozioni non sono puri e semplici dati o "colori" dell'esperienza, ma, tendendo a spingere all'azione sia il soggetto sia le persone che ricevono la comunicazione emotiva, devono essere gestite. Per comprendere cosa intendo per "gestione delle emozioni" e per coglierne la portata teorica e pratica, basta pensare, come esempio, all'invidia. Voi sapete che l'invidia è la "bestia nera" degli psicoanalisti (e degli analizzandi e di noi esseri umani tutti, del resto), tanto che c'è stato un vasto e, per altri versi, fecondo filone di pensiero psicoanalitico che, già a partire da FREUD, per poter farsi una ragione degli aspetti distruttivi della mente, e cogliendo il nesso fra questi e il sentimento dell'invidia, si è addirittura inventato una spinta originaria alla distruzione: una improbabile e assolutamente indimostrabile "pulsione di morte". La quale, a ben vedere, non fa che spostare il problema, dando solo l'illusione di comprendere.


Ma se noi, invece, pensiamo all'invidia come ad una forma particolare di dolore mentale, noi possiamo chiarire le cose senza doverci inventare diavolerìe dal sapore metafisico.


L'invidia, allora, ci si presenta come lo specifico dolore mentale che è adeguato alla percezione del fatto che noi non siamo o non abbiamo qualche cosa di buono, ammirato e desiderato che altre persone sono o hanno. É il dolore della percezione delle differenze con svantaggio.


Se riusciamo a sgomberare il campo dai pregiudizi di alcune teorie psicoanalitiche correnti, ci accorgiamo sùbito che la questione dell'invidia risiede allora nella gestione di questo specifico dolore mentale. Fra i modi di gestire questo dolore, ci sono quelli miranti ad annullarlo, fra cui primeggiano quelli che cercheranno di distruggere la cosa buona, o di disprezzarla, cioè di toglierle o negarle il valore, o di disprezzare chi a quella mira o quella ottiene. Allora, questa che si evidenzia come distruttività, lungi dall'essere primaria, si rivela come una difesa specifica da quello specifico dolore, che è atroce perché è connesso con la percezione di essere esposti alla desolazione. Tale "distruttività", che è solo uno dei tanti modi di gestire l'invidia, ha potuto essere scambiata con l'invidia stessa a causa della natura dei processi emotivi, nei quali gli accadimenti psichici (percettivo, cognitivo, espressivo, comunicativo, motivazionale e conativo) si presentano nell'esperienza viva come fossero un tutt'uno, come fossero tra loro, per così dire, "appiccicati", "quasi contemporanei".


Possiamo vedere che quello specifico dolore mentale può essere gestito in altri modi. Sempre fra quelli miranti ad annullare l'invidia, possiamo trovare quelli che cercano di farci divenire o di farci acquisire quella cosa che ha scatenato l'invidia stessa. E anche qui ci sono più possibilità. Potremo, per esempio, cercare di derubare la persona invidiata, prendendo tre piccioni con una fava: tolgo a lei, acquisisco io, e mi vendico del dolore subìto, rovesciando la situazione. Oppure potremmo porci nella prospettiva della acquisizione costruttiva: cerco di divenire anch'io quello che l'altra persona è; mi procuro anch'io quello che l'altra persona ha, così che il confronto non sia più doloroso perché non sarà più con mio svantaggio.


E qui torna in mente ESIODO, che scriveva (1) che ci sono due invidie: un'invidia buona, che è posta alle radici della terra, e spinge il contadino ozioso ad arare bene e a ben seminare il campo e a costruirsi una buona casa, per avere lo stesso benessere che il vicino si è procurato, e spinge il vasaio a gareggiare col vasaio, e l'artigiano con l'artigiano, e il mendicante a gareggiare col mendicante e il poeta con il poeta; e un'invidia cattiva, che fa prosperare la guerra funesta e la lotta, la sciagurata.


Questi modi, che tendono ad annullare il dolore mentale (fra cui bisogna annoverare anche quelli generici, come l' "indifferenza", l' "anestesia emotiva", e poi molti fra i vari processi mentali che sono stati descritti come "meccanismi di difesa"), difficilmente arriveranno allo scopo. Per questo, con estrema probabilità, innescheranno comportamenti ripetitivi.


Vi sono, però, per nostra fortuna, anche altri modi di gestire quello stesso specifico dolore. Possiamo, per esempio, consolarci, riconoscendo sì la differenza con svantaggio, ma riconoscendo anche altre cose per le quali ci sono differenze, ma per noi con vantaggio (per esempio: "sono brutto, ma so cantare bene"; "non ho la villa, ma ho una storia d'amore molto bella"). Quest'ultimo insieme di modi di gestire l'emozione sono quelli che cercano di attenuare il dolore, senza pretendere di annullarlo.


Ci sono, infine, dei modi che semplicemente sono l'accettazione di vivere quell'emozione lì: "É vero, sto soffrendo per l'invidia. E ne ho tutte le ragioni. Pazienza!...". Sono modi rispettosi di sé, che fanno ricorso ad una "pìetas" verso se stessi, ad un riconoscimento e a un amorevole accoglimento del Sé sofferente. Riconosco il mio dolore per quello che è, ne riconosco la sensatezza, e voglio bene a quel me stesso che, poveretto, sta soffrendo. É come un affettuoso e consapevole "prendersi in braccio".


É chiaro che tutto questo discorso sull'invidia è piuttosto schematico, soprattutto perché non tiene abbastanza conto del fatto che, per ciò che riguarda l'invidia, è anche questione di assetto mentale. Ma qui serviva solo a illustrare che cosa intendo per gestione delle emozioni.


Bene. Noi nasciamo con degli schemi innati specie-specifici (cioè legati al patrimonio genetico della specie) che ci rendono possibili i vari modi di gestire le nostre emozioni; ma, per riuscire poi a metterli in atto, abbiamo la necessità di un apprendimento selettivo specifico. Apprendimento che rientra nel grande insieme di fenomeni evolutivi che potremmo chiamare "apprendimento relazionale". Il risultato sarà che non tutti i modi di cui abbiamo gli schemi innati in dotazione saranno da noi sviluppati, ma solo quelli che avremo potuto strutturare nello specifico apprendimento relazionale. Tali modi risentiranno in modo decisivo delle esperienze reali che abbiamo potuto fare nel nostro reale ambiente umano. Essi saranno, perciò, profondamente influenzati dai portati antropologicoculturali del nostro ambiente di vita e dalle caratteristiche personali e dalle intenzioni (consce e soprattutto inconsce) di coloro con cui ci siamo trovati impegnati nelle relazioni fondanti di base.


Vale la pena aggiungere che i modi di gestire ogni singola emozione non sono infiniti: sono molti, ma in numero finito. E sono riconoscibili e descrivibili. E possono, con maggiore o minore difficoltà a seconda delle esperienze passate e delle capacità del soggetto, essere appresi anche dall'adulto. Ma tale apprendimento non può realizzarsi se non all'interno di esperienze relazionali significative, nelle quali è più importante ciò che il partner è e fa, che non ciò che egli dice.


Tutte le emozioni, anche quelle di piacere, esigono di essere gestite dal soggetto. Ma non sempre il compito è possibile. Vi sono esperienze di disperazione così estreme che non sono elaborabili, quali quelle di molti sopravvissuti ai campi di sterminio nazifascisti. Si veda, in proposito, fra i molti, il bel libro Le candele della memoria di DINA WARDI, (2) che, studiando la strutturazione della patologia mentale e i percorsi terapeutici dei figli dei sopravvissuti ai Lager, mostra come l'impossibilità genitoriale induca nei figli un'incapacità di gestire le emozioni.


Ma come succede che impariamo a gestire le emozioni? E, soprattutto, come succede che non impariamo?


Il problema non è solo teorico, dato che sempre più spesso nella pratica clinica ci dobbiamo occupare di persone che presentano una sorta di "analfabetismo emozionale": non sanno riconoscere le emozioni, non sanno che farsene, vivono come emozionalmente "appiattiti" non per repressione o inibizione emotiva, ma per mancato o incongruo apprendimento.


Sono molti i modi in cui da bambini apprendiamo a gestire le emozioni, ma quelli più importanti, quelli decisivi sono direttamente connessi con le modalità relazionali proposteci dalle persone che di noi si occupano e con lo spazio relazionale che si viene a definire nella concretezza delle interazioni fra loro e noi.


Per prima cosa, dunque, apprendiamo a creare un sufficiente, adeguato "spazio mentale", che possa contenere anche l'emozione (con tutti i suoi portati, soprattutto cognitivi) che stiamo realmente sperimentando (3) nella concretezza del singolo episodio di vita. Questo spazio mentale è funzione diretta dello spazio relazionale che troviamo disponibile nell'episodio di vita in questione. É una specie di "interiorizzazione" dello spazio relazionale. Il processo di "interiorizzazione" dello spazio relazionale è uno degli elementi fra i più importanti della strutturazione del Sé. Il bambino può riconoscere, tollerare e contenere una particolare emozione solo se trova riconoscimento, tolleranza e contenimento della medesima emozione nelle relazioni reali attuali in cui si trova impegnato. E così facendo, in un fittissimo gioco interazionale con l'ambiente umano reale con cui egli è in relazione (la "madreambiente" di WINNICOTT) il bambino attivamente struttura anche la percezione di sé come di uno che sta vivendo quell'emozione e che la sta contenendo. Ed è la percezione di sé nell'esercizio di funzioni (soprattutto relazionali) quella che realizza ogni strutturazione di sé. E se il bambino si trova in un ambiente umano sistematicamente e ripetitivamente sordo o cieco rispetto a determinate emozioni, non potrà far altro che divenire a propria volta sordo o cieco rispetto a tali emozioni. Si creeranno, così, come dei "buchi" nelle capacità di esperire aspetti vitali della propria esistenza. L' "analfabetismo emozionale", cui prima accennavo, ne è un tragico esempio.


Potremo chiamare "livello di risonanza" nell'interazione quel livello che è implicato in questi fenomeni.


Ma esso non è l'unico. Possiamo individuare altri livelli nell'interazione, fra i quali credo sia particolarmente importante quello che potremo chiamare "livello di interdizione / consenso". Ed è quello che è implicato allorché il bambino si trova in un ambiente umano che sistematicamente, ripetitivamente e rigidamente impedirà in modo attivo la percezione, la gestione e l'integrazione delle emozioni. Parimenti, possiamo individuare un "livello di immissione di modalità" nell'interazione: inevitabilmente, momento per momento, la madre immetterà nell'interazione (per quel che qui interessa) le proprie modalità di gestione delle emozioni, e il bambino sarà costretto, nell'interazione adattativa, a tenerne conto; e alla fin fine egli non potrà fare altro che prendere quei modi, rielaborarli come può e sa, e farli propri, riuscendo solo in parte a modificarli per renderli più adeguati alla globalità di sé. Potrà salvare solo il salvabile del proprio vero sentire e della propria esperienza reale: del proprio "veroSé", in definitiva.


Perché si realizzino guasti così gravi e così danneggianti sulla qualità della vita è necessario che gli atteggiamenti parentali inadeguati siano ripetitivi nel tempo in modo rigido e sistematico: è difficile (anche se è possibile) che sia in gioco un isolato, singolo episodio traumatico.


A questo punto credo vi sia chiaro che tra le mancate elaborazioni del lutto che incontriamo nella pratica clinica ve ne sono alcune (molte, io credo) connesse a reali incapacità per un inadeguato apprendimento della gestione delle emozioni.


Che fare, in questi casi? Una specie di "doposcuola", in cui insegnamo alla gente come possono essere gestite le emozioni in generale e il dolore depressivo in particolare? Certo: sarebbe un metodo abbastanza semplice e socialmente economico. Ma non funzionerebbe, purtroppo, perché questo tipo di apprendimento può realizzarsi soltanto nell'esperienza che può essere fatta nel vivo di una relazione intensa e rispettosa della separatezza tra i partner. In una relazione psicoterapeutica adeguata.


Nella nostra cultura, se uno soffre di un dolore fisico perché, poniamo, si è rotto una caviglia, è ritenuto normale e ovvio che ricorra all'ortopedico e al fisioterapista, che lo aiutino a favorire l'aggiustarsi della frattura e che lo accompagnino nella ripresa funzionale. Ma se, invece, soffre di un dolore mentale perché gli eventi della vita gli hanno strappato qualcosa di buono, se, cioè, patisce di un dolore depressivo, sarà purtroppo difficile che senta ragionevole ricorrere a uno psicoterapeuta, che lo accompagni nel processo di elaborazione del lutto. E se vi ricorrerà, lo farà solo quando gli aggiustamenti che avrà strutturato si saranno rivelati particolarmente pesanti per le sue condizioni di vita. E questo non aiuta né lui né il suo terapeuta. Che fare, allora?


Ecco, ogni volta che ci imbattiamo in un dolore depressivo (cosa che nella pratica clinica è frequentissima), varrà la pena che teniamo presente la necessità del paziente di gestire il proprio dolore. Sarà importante osservare e riconoscere quali modi usa per gestirlo, dandogli il tempo per sperimentarsi. Dargli spazio, senza mai negare il dolore (con battute, per esempio, minimizzanti, come troppo spesso si vede fare a mo' d'incoraggiamento), ma riconoscendolo pienamente e cogliendone (e mostrandogli) la sensatezza. E se non c'è spazio, bisogna crearlo. Attivamente. É lo spazio relazionale, infatti, quello che verrà utilizzato dal paziente per costruire nel mondo interno un proprio spazio mentale per il contenimento e l'elaborazione delle emozioni.


Fondamentale, dunque, è accettare, con genuina partecipazione, le espressioni del dolore e le richieste di aiuto nel gestirlo. Spesso, già solo la nostra partecipazione paziente e consapevole, se non è recitata, consente al paziente di percepire lo spazio adeguato che gli permette di cercare vari, differenziati modi di gestione del proprio dolore. E la nostra accettazione del suo dolore gli testimonia che esso può essere pienamente riconosciuto, che se ne può parlare, che c'è la possibilità che si crei uno spazio (mentale in noi, relazionale tra noi e lui, e quindi anche mentale in lui) in cui tale dolore può "trovare il suo posto", può essere vissuto e può rendersi accessibile all'integrazione.


E qui vale la pena ricordare ancora una volta che le prediche non servono a molto: quello che conta è ciò che noi effettivamente siamo e il nostro reale modo di approcciare il dolore in generale, e quello specifico dolore in particolare. Nell'apprendimento di nuove modalità di gestione del dolore e nel consolidamento delle antiche, il paziente utilizzerà i nostri modi veri, quelli che davvero noi conosciamo e davvero utilizziamo. Questo è uno dei motivi per cui è necessario che noi, che ci occupiamo di altri, siamo bene analizzati.


Ma é molto importante anche ciò che bisogna non fare.


Prima di tutto bisogna non confondere le cose, pensando che sia "patologico" il dolore mentale depressivo, o che lo sia l'esigenza assolutamente vitale di elaborarlo e di gestirlo. Non è il dolore di per sé che deve essere annullato, né, tanto meno, lo sono i tentativi di metabolizzarlo. Il paziente, al contrario, deve essere aiutato a riconoscere il dolore per quello che è. Ma, proprio per consentire al paziente di trovare i modi per lui più adeguati di gestire il dolore, è fondamentale non cercar di abbreviare il suo percorso di elaborazione del lutto. Particolarmente dannose sono le istigazioni alla maniacalità, alla negazione, cioè, del dolore attraverso la negazione dei bisogni di attaccamento e di dipendenza, accecati dall'eccitazione e dall'attività. Sul finire, come esempio di cosa non fare, vorrei citarvi il caso di una giovane signora, che perse in circostanze tragiche la propria bambina di undici anni. In preda a una specie di attonito smarrimento, sull'orlo della disperazione, si rivolse a uno specialista, che le disse: "Signora! Questo é il momento di avere coraggio. Lei è una donna coraggiosa. Io lo so. E se Lei sarà coraggiosa, ce la farà a dimenticare. Ma se Lei sarà doppiamente coraggiosa, se prenderà il coraggio a due mani, farà un altro figlio, e tutto andrà a posto!". E così fece, la sventurata, esponendo se stessa e il figlio a portare per sempre i segni di un lutto mai compiuto. Il quale figlio, inconsapevole della "missione segreta" che gli era stata affidata (essere colui che doveva esentare la madre dall'elaborazione del lutto), una volta divenuto adulto divenne pediatra, come a salvare retroattivamente la sorellina morta. E, forse, come ad occuparsi di sé bambino in via mediata. Questo è un esempio di pseudoaiuto, che, a uno sguardo superficiale, ha tutta l'apparenza del successo terapeutico, ma che, inibendo attivamente l'elaborazione del lutto, favorisce scissioni e mortificazioni di sé, anziché integrazioni. In questo modo, una parte della signora morì con la bambina e non poté forse più essere da lei recuperata, e una parte del figlio forse non nacque mai. In ogni caso, entrambi (non solo la madre, ma anche il figlio) si sono trovati costretti ad affrontare un carico emotivo eccezionalmente grande.


Se queste mie parole saranno servite a favorire una vostra maggiore attenzione verso l'assoluta necessità che i pazienti (e le persone in generale) hanno di essere rispettati ed eventualmente aiutati nel riconoscere e nel gestire il proprio dolore depressivo, anziché nel cercare di annullarlo, potrò essere soddisfatto. E se poi vi sarete resi conto dell'importanza di questo per la prevenzione primaria sia sulle persone interessate sia sui loro discendenti, potrò essere davvero contento.