di Paolo Roccato
Una delle cose più importanti per realizzare una vita sufficientemente felice è la strutturazione della capacità di elaborare il lutto. Per vivere bene, questa capacità (che, fondamentalmente, fa parte di quella più generale di tollerare e gestire il dolore mentale) paradossalmente é ancora più importante che non la capacità di riconoscere, cercare e procurarsi il piacere. Noi nasciamo dotati soltanto delle potenzialità per sviluppare questa capacità. Perché essa venga acquisita, strutturata e, soprattutto, consolidata, è necessario un lungo e complesso lavorìo, che durerà tutta la vita, ma le cui radici vengono già poste nelle relazioni fondanti di base, in quelle relazioni originarie, cioè, altamente dinamiche e intensamente interattive con gli adulti che si occupano di noi nei primi tempi della nostra vita, allorché prende forma e si struttura il Sé nei suoi aspetti basilari.
In qualunque contesto culturale, le "vie della saggezza", in ultima analisi, si organizzano attorno alla piena acquisizione della capacità di elaborare il lutto. E scopo della saggezza non è attuare una qualche mistica del dolore, ma è conoscere e integrare i vari aspetti di sé, realizzandoli al meglio, per godere il più possibile.
Prima di tutto, bisogna dissipare il campo da un grossolano equivoco, molto diffuso fra le persone di buona volontà. Non è vero che il dolore faccia bene, che, di per sé, "tempri il carattere" o sia "formativo". Il dolore fa male. Fa sempre male. Ed evitare il dolore, se possibile, o attenuarlo, non soltanto è sano, ma è parte integrante della saggezza. Il fatto è che non tutto il dolore è evitabile, né tutto il dolore è attenuabile. E che molti modi per cercare di evitarlo, annullarlo o attenuarlo sono spesso inefficaci o, addirittura, dannosi, perché conducono a restrizioni, invece che non a realizzazioni, del Sé. É qui che nascono i problemi. La vita, anche quando non presenti eventi eccezionali, già solo nel suo normale dipanarsi comporta inevitabilmente l'esperienza del dolore in generale, e in particolare quella del dolore mentale specifico per la perdita di qualcosa di buono, non foss'altro che per i normali processi di crescita. É per questo che la base della saggezza sta nella capacità di elaborare il lutto. É questa capacità acquisita che "fa bene". Sono le vie che portano alla sua piena strutturazione che sono "formative", non il dolore di per sé.
Viversi il proprio dolore inevitabile è una cosa che si apprende. Questo apprendimento avviene sì attraverso le esperienze di vita (è solo vivendo che impariamo a vivere), ma principalmente attraverso le esperienze relazionali, dove le persone reali con cui siamo in rapporto hanno, specialmente in certi momenti, un'importanza decisiva. Per quello che qui ci interessa, apprendiamo soprattutto i modi per cercare di rendere più tollerabile il dolore mentale. Schematizzando un poco, possiamo chiamare depressivo quel particolare dolore mentale che è proprio dell'esperienza di perdita di qualche cosa di buono che avevamo o che eravamo. Per esempio: il dolore per la perdita di una persona o di una cosa amata (la fidanzata mi ha lasciato, la mia casa è stata alluvionata), o quello per la perdita di qualcosa che sentivamo facente parte della nostra identità, quale una nostra capacità (dopo un incidente, non posso più camminare), un nostro stato (mi hanno licenziato), una nostra qualità, o, particolarmente importante e troppo spesso misconosciuto, una nostra pura e semplice possibilità. Deve trattarsi (è ovvio, ma troppo spesso si può dimenticarsene) di qualcosa di sentito come buono soggettivamente: non interessa nulla, a questo riguardo, ciò che potrebbe risultare da una visione che pretenda di porsi come "obiettiva".
Una cosa che le persone hanno difficoltà a riconoscere, soprattutto nella nostra cultura, così superficiale e frettolosa e così tesa al "successo", è che il dolore della perdita si presenta sempre quando percepiamo che abbiamo perduto qualche cosa di buono, ed è "normale" che si presenti, è segno di un buon funzionamento mentale che si presenti. E si presenta indipendentemente dalle eventuali acquisizioni che si realizzano contemporaneamente alla perdita stessa.
Il dolore depressivo è l'emozione adeguata che ad un tempo realizza e ci segnala la percezione della perdita di qualcosa di prezioso. Se ci si presenta, vuol dire che qualcosa di prezioso è da noi percepito come perduto. Gli aspetti di base della mente lo sanno, per così dire, e lo segnalano "a viva voce": si tratta di ascoltare e comprendere. Di creare un adeguato "spazio mentale" che possa contenere anche quel dolore. Troppo spesso, invece, vengono misconosciute, per esempio, le cosiddette "depressioni da successo" ("É da quando mi sono laureato che sono depresso"; "Ho ottenuto finalmente la promozione, e mi trovo che ho solo voglia di piangere, e mi pare che niente abbia più valore, e non capisco perché"; "Finalmente mi è nata la bambina che avevo tanto desiderato, e la vita mi appare solo nera"), perché si è abbagliati da ciò che il successo apporta, e non si vede ciò che viene lasciato e la sensatezza del relativo dolore (nei casi citati: la condizione adolescenziale, poniamo; o il gruppo di lavoro e la sicurezza di poter dipendere; o la condizione di figlia o di oggetto unico dell'amore del partner, per esempio).
E, sempre schematizzando un poco, possiamo chiamare elaborazione del lutto quel particolare processo mentale, lungo e complesso, che conduce a un consapevole rassegnarsi alla perdita patita. Per potersi svolgere, l'elaborazione del lutto necessita della messa in opera di un insieme di modi per rendere più tollerabile il dolore depressivo.
L'elaborazione del lutto è un processo (un "lavoro", diceva FREUD) lungo e articolato, che si svolge "a ondate" per mezzo delle quali ci avviciniamo e ci allontaniamo dalla percezione diretta del dolore mentale depressivo. Perché il processo si compia, abbiamo bisogno di molto tempo. Se la perdita di cui patiamo è per noi rilevante, usualmente sarà necessario non meno di un anno un anno e mezzo perché gran parte del processo sia compiuta. Ma spesso ci sono aspetti del processo di lutto che si possono svolgere soltanto dopo, anche molti anni dopo. E parlo qui di un'elaborazione "normale" del lutto. Purtroppo, è raro che gli operatori delle professioni di aiuto (medici, psichiatri, psicologi, assistenti sociali, insegnanti, ecc.) lo sappiano e ne tengano conto, mentre il rispetto della necessità di elaborare i lutti è una delle basi della prevenzione primaria della patologia mentale dei soggetti sofferenti e cosa molto importante, ma troppo spesso misconosciuta e trascurata dei figli dei soggetti impegnati nell'affrontare il dolore depressivo. Una delle principali fonti di trasmissione della patologia mentale tra le generazioni, infatti, risiede proprio nella incapacità o impossibilità di elaborare i lutti da parte dei genitori.
Aiutare le persone a riconoscere, affrontare e tollerare il dolore mentale in ogni sua forma, ma soprattutto in quella depressiva, è cosa fondamentale per il miglioramento della qualità della vita, sia di quella degli interessati sia di quella delle generazioni future.
Il processo di elaborazione del lutto conduce, piano piano, nel tempo, un po' "per crisi" e un po' "per lisi", a una progressiva piena consapevolezza emotivocognitiva della perdita subìta (non di meno, ma neppure di più); ad una sua accettazione profonda (cioè maturata attraverso l'integrazione di ogni aspetto di sé implicato nella perdita); ad una stabile ristrutturazione emotivocognitiva della percezione di Sé che tenga pienamente conto della perdita; a un riconoscimento schietto, senza infingimenti, del dolore che si sta vivendo, della sua sensatezza e "legittimità", per così dire; e a un ritornare ad accogliere, a stimare e a volere bene al se stesso sofferente che ci si ritrova ad essere. Quando le cose vanno bene, piano piano, nel tempo, con movimenti di avanti e indietro, con subitanei squarci di dolore e lente rimarginazioni di ferite, il processo condurrà a collocare mentalmente nel passato ciò che nella realtà è passato: a lasciarlo, in definitiva. E questo comporta, nel mondo interno, grandi trasformazioni delle immagini mentali sia di sé sia della cosa perduta, la quale potrà venir conservata soltanto in quanto sarà trasformata in ricordo. E così pure il legame che connetteva sé alla cosa perduta verrà ad essere, poco alla volta, trasformato: da attaccamento lacerato, a "rimembranza" dell'attaccamento, attraverso i percorsi che conducono a mettere insieme ciò che è stato smembrato. Per poter "lasciare andar via" il passato senza perdere l'integrazione di sé, è indispensabile ricordare. E invece, quando uno perde una persona cara, tutti son lì a dirgli: "Cerca di dimenticare!".
É frequentissima l'evenienza misconosciuta che alla base di un malessere esistenziale o di vere e proprie patologie mentali (personali, di coppia o dell'intera famiglia; ma anche dei gruppi e delle istituzioni) vi sia un lutto incompiuto: "pietre" troppo affrettatamente "messe sopra" al passato, e quindi un passato che non è passato, che non è mai stato trasformato soggettivamente in passato. Sempre più spesso mi accorgo, in analisi e in psicoterapia, che molte volte nella preistoria della patologia dei miei pazienti si trova sorprendentemente un lutto mal compiuto da parte dei genitori.
É anche per questo, per la sua importanza nella prevenzione primaria della patologia mentale dei discendenti, che ho deciso di parlarvi oggi di questo tema.
E qui è necessario introdurre brevemente un discorso generale sulle emozioni.
La prima psicoanalisi, per il bisogno di radicare scientificamente (nella scienza di allora) le scoperte cliniche che FREUD e gli altri pionieri (nostri coraggiosi antenati) andavano compiendo, ha elaborato una teoria "energetica" delle emozioni. L'emozione sarebbe stata un quantum di energia psichica che si sarebbe connesso alla rappresentazione. La gestione delle emozioni sarebbe stata del tutto inconscia, e sarebbe stata riconoscibile nei suoi effetti soltanto attraverso lo studio dei rapporti fra emozione e rappresentazione (connessione, disgiunzione, spostamento, ecc.) e attraverso lo studio della "dinamica" energetica, una sorta di "idraulica della mente" (repressione, ingorgo, scarica, e così via).
Ora, invece, è chiaro e assodato che l' "energia psichica" non esiste, ma è solo una metafora. E come ogni metafora può piacere o non piacere, può essere ritenuta utilizzabile o non utilizzabile, secondo il suo valore euristico. Ai tempi di FREUD doveva essere ritenuta molto utilizzabile, se si è arrivati addirittura ad una specie di reificazione della metafora, tanto che molti hanno ritenuto (e ormai soltanto in pochi ancora oggi ritengono) che si trattasse di qualcosa di realmente esistente.
Attualmente, basandosi sugli studi neurofisiologici, osservativosperimentali e psicologicoclinici (fra cui quelli psicoanalitici), si può affermare che l'emozione è un processo molto complesso, che comporta aspetti cognitivi, motivazionali, espressivi, comunicativi e conativi. La distinzione fra i vari aspetti dei processi emozionali è stata spesso misconosciuta perché essi si presentano all'esperienza come un tutto unico. In un solo istante, si realizzano quasi contemporaneamente. É la medesima esperienza, poniamo, di paura quella che realizza, in un tutt'uno, la conoscenza immediata e diretta di qualcosa di minaccioso per gli aspetti fondamentali del mio vivere; la spinta all'azione (fuga dalla cosa minacciosa, attacco per annullarla, o paralisi per mimetizzarsi); la comunicazione agli astanti sia del pericolo percepito sia della reazione ad esso; la sollecitazione affinché essi partecipino all'esperienza, alla conoscenza e alla reazione del soggetto; la spinta perché essi a propria volta si attivino convenientemente.
Per quello che oggi voglio dirvi, senza minimamente dimenticare gli altri aspetti, interessa che le emozioni non sono puri e semplici dati o "colori" dell'esperienza, ma, tendendo a spingere all'azione sia il soggetto sia le persone che ricevono la comunicazione emotiva, devono essere gestite. Per comprendere cosa intendo per "gestione delle emozioni" e per coglierne la portata teorica e pratica, basta pensare, come esempio, all'invidia. Voi sapete che l'invidia è la "bestia nera" degli psicoanalisti (e degli analizzandi e di noi esseri umani tutti, del resto), tanto che c'è stato un vasto e, per altri versi, fecondo filone di pensiero psicoanalitico che, già a partire da FREUD, per poter farsi una ragione degli aspetti distruttivi della mente, e cogliendo il nesso fra questi e il sentimento dell'invidia, si è addirittura inventato una spinta originaria alla distruzione: una improbabile e assolutamente indimostrabile "pulsione di morte". La quale, a ben vedere, non fa che spostare il problema, dando solo l'illusione di comprendere.
Ma se noi, invece, pensiamo all'invidia come ad una forma particolare di dolore mentale, noi possiamo chiarire le cose senza doverci inventare diavolerìe dal sapore metafisico.
L'invidia, allora, ci si presenta come lo specifico dolore mentale che è adeguato alla percezione del fatto che noi non siamo o non abbiamo qualche cosa di buono, ammirato e desiderato che altre persone sono o hanno. É il dolore della percezione delle differenze con svantaggio.
Se riusciamo a sgomberare il campo dai pregiudizi di alcune teorie psicoanalitiche correnti, ci accorgiamo sùbito che la questione dell'invidia risiede allora nella gestione di questo specifico dolore mentale. Fra i modi di gestire questo dolore, ci sono quelli miranti ad annullarlo, fra cui primeggiano quelli che cercheranno di distruggere la cosa buona, o di disprezzarla, cioè di toglierle o negarle il valore, o di disprezzare chi a quella mira o quella ottiene. Allora, questa che si evidenzia come distruttività, lungi dall'essere primaria, si rivela come una difesa specifica da quello specifico dolore, che è atroce perché è connesso con la percezione di essere esposti alla desolazione. Tale "distruttività", che è solo uno dei tanti modi di gestire l'invidia, ha potuto essere scambiata con l'invidia stessa a causa della natura dei processi emotivi, nei quali gli accadimenti psichici (percettivo, cognitivo, espressivo, comunicativo, motivazionale e conativo) si presentano nell'esperienza viva come fossero un tutt'uno, come fossero tra loro, per così dire, "appiccicati", "quasi contemporanei".
Possiamo vedere che quello specifico dolore mentale può essere gestito in altri modi. Sempre fra quelli miranti ad annullare l'invidia, possiamo trovare quelli che cercano di farci divenire o di farci acquisire quella cosa che ha scatenato l'invidia stessa. E anche qui ci sono più possibilità. Potremo, per esempio, cercare di derubare la persona invidiata, prendendo tre piccioni con una fava: tolgo a lei, acquisisco io, e mi vendico del dolore subìto, rovesciando la situazione. Oppure potremmo porci nella prospettiva della acquisizione costruttiva: cerco di divenire anch'io quello che l'altra persona è; mi procuro anch'io quello che l'altra persona ha, così che il confronto non sia più doloroso perché non sarà più con mio svantaggio.
E qui torna in mente ESIODO, che scriveva (1) che ci sono due invidie: un'invidia buona, che è posta alle radici della terra, e spinge il contadino ozioso ad arare bene e a ben seminare il campo e a costruirsi una buona casa, per avere lo stesso benessere che il vicino si è procurato, e spinge il vasaio a gareggiare col vasaio, e l'artigiano con l'artigiano, e il mendicante a gareggiare col mendicante e il poeta con il poeta; e un'invidia cattiva, che fa prosperare la guerra funesta e la lotta, la sciagurata.
Questi modi, che tendono ad annullare il dolore mentale (fra cui bisogna annoverare anche quelli generici, come l' "indifferenza", l' "anestesia emotiva", e poi molti fra i vari processi mentali che sono stati descritti come "meccanismi di difesa"), difficilmente arriveranno allo scopo. Per questo, con estrema probabilità, innescheranno comportamenti ripetitivi.
Vi sono, però, per nostra fortuna, anche altri modi di gestire quello stesso specifico dolore. Possiamo, per esempio, consolarci, riconoscendo sì la differenza con svantaggio, ma riconoscendo anche altre cose per le quali ci sono differenze, ma per noi con vantaggio (per esempio: "sono brutto, ma so cantare bene"; "non ho la villa, ma ho una storia d'amore molto bella"). Quest'ultimo insieme di modi di gestire l'emozione sono quelli che cercano di attenuare il dolore, senza pretendere di annullarlo.
Ci sono, infine, dei modi che semplicemente sono l'accettazione di vivere quell'emozione lì: "É vero, sto soffrendo per l'invidia. E ne ho tutte le ragioni. Pazienza!...". Sono modi rispettosi di sé, che fanno ricorso ad una "pìetas" verso se stessi, ad un riconoscimento e a un amorevole accoglimento del Sé sofferente. Riconosco il mio dolore per quello che è, ne riconosco la sensatezza, e voglio bene a quel me stesso che, poveretto, sta soffrendo. É come un affettuoso e consapevole "prendersi in braccio".
É chiaro che tutto questo discorso sull'invidia è piuttosto schematico, soprattutto perché non tiene abbastanza conto del fatto che, per ciò che riguarda l'invidia, è anche questione di assetto mentale. Ma qui serviva solo a illustrare che cosa intendo per gestione delle emozioni.
Bene. Noi nasciamo con degli schemi innati specie-specifici (cioè legati al patrimonio genetico della specie) che ci rendono possibili i vari modi di gestire le nostre emozioni; ma, per riuscire poi a metterli in atto, abbiamo la necessità di un apprendimento selettivo specifico. Apprendimento che rientra nel grande insieme di fenomeni evolutivi che potremmo chiamare "apprendimento relazionale". Il risultato sarà che non tutti i modi di cui abbiamo gli schemi innati in dotazione saranno da noi sviluppati, ma solo quelli che avremo potuto strutturare nello specifico apprendimento relazionale. Tali modi risentiranno in modo decisivo delle esperienze reali che abbiamo potuto fare nel nostro reale ambiente umano. Essi saranno, perciò, profondamente influenzati dai portati antropologicoculturali del nostro ambiente di vita e dalle caratteristiche personali e dalle intenzioni (consce e soprattutto inconsce) di coloro con cui ci siamo trovati impegnati nelle relazioni fondanti di base.
Vale la pena aggiungere che i modi di gestire ogni singola emozione non sono infiniti: sono molti, ma in numero finito. E sono riconoscibili e descrivibili. E possono, con maggiore o minore difficoltà a seconda delle esperienze passate e delle capacità del soggetto, essere appresi anche dall'adulto. Ma tale apprendimento non può realizzarsi se non all'interno di esperienze relazionali significative, nelle quali è più importante ciò che il partner è e fa, che non ciò che egli dice.
Tutte le emozioni, anche quelle di piacere, esigono di essere gestite dal soggetto. Ma non sempre il compito è possibile. Vi sono esperienze di disperazione così estreme che non sono elaborabili, quali quelle di molti sopravvissuti ai campi di sterminio nazifascisti. Si veda, in proposito, fra i molti, il bel libro Le candele della memoria di DINA WARDI, (2) che, studiando la strutturazione della patologia mentale e i percorsi terapeutici dei figli dei sopravvissuti ai Lager, mostra come l'impossibilità genitoriale induca nei figli un'incapacità di gestire le emozioni.
Ma come succede che impariamo a gestire le emozioni? E, soprattutto, come succede che non impariamo?
Il problema non è solo teorico, dato che sempre più spesso nella pratica clinica ci dobbiamo occupare di persone che presentano una sorta di "analfabetismo emozionale": non sanno riconoscere le emozioni, non sanno che farsene, vivono come emozionalmente "appiattiti" non per repressione o inibizione emotiva, ma per mancato o incongruo apprendimento.
Sono molti i modi in cui da bambini apprendiamo a gestire le emozioni, ma quelli più importanti, quelli decisivi sono direttamente connessi con le modalità relazionali proposteci dalle persone che di noi si occupano e con lo spazio relazionale che si viene a definire nella concretezza delle interazioni fra loro e noi.
Per prima cosa, dunque, apprendiamo a creare un sufficiente, adeguato "spazio mentale", che possa contenere anche l'emozione (con tutti i suoi portati, soprattutto cognitivi) che stiamo realmente sperimentando (3) nella concretezza del singolo episodio di vita. Questo spazio mentale è funzione diretta dello spazio relazionale che troviamo disponibile nell'episodio di vita in questione. É una specie di "interiorizzazione" dello spazio relazionale. Il processo di "interiorizzazione" dello spazio relazionale è uno degli elementi fra i più importanti della strutturazione del Sé. Il bambino può riconoscere, tollerare e contenere una particolare emozione solo se trova riconoscimento, tolleranza e contenimento della medesima emozione nelle relazioni reali attuali in cui si trova impegnato. E così facendo, in un fittissimo gioco interazionale con l'ambiente umano reale con cui egli è in relazione (la "madreambiente" di WINNICOTT) il bambino attivamente struttura anche la percezione di sé come di uno che sta vivendo quell'emozione e che la sta contenendo. Ed è la percezione di sé nell'esercizio di funzioni (soprattutto relazionali) quella che realizza ogni strutturazione di sé. E se il bambino si trova in un ambiente umano sistematicamente e ripetitivamente sordo o cieco rispetto a determinate emozioni, non potrà far altro che divenire a propria volta sordo o cieco rispetto a tali emozioni. Si creeranno, così, come dei "buchi" nelle capacità di esperire aspetti vitali della propria esistenza. L' "analfabetismo emozionale", cui prima accennavo, ne è un tragico esempio.
Potremo chiamare "livello di risonanza" nell'interazione quel livello che è implicato in questi fenomeni.
Ma esso non è l'unico. Possiamo individuare altri livelli nell'interazione, fra i quali credo sia particolarmente importante quello che potremo chiamare "livello di interdizione / consenso". Ed è quello che è implicato allorché il bambino si trova in un ambiente umano che sistematicamente, ripetitivamente e rigidamente impedirà in modo attivo la percezione, la gestione e l'integrazione delle emozioni. Parimenti, possiamo individuare un "livello di immissione di modalità" nell'interazione: inevitabilmente, momento per momento, la madre immetterà nell'interazione (per quel che qui interessa) le proprie modalità di gestione delle emozioni, e il bambino sarà costretto, nell'interazione adattativa, a tenerne conto; e alla fin fine egli non potrà fare altro che prendere quei modi, rielaborarli come può e sa, e farli propri, riuscendo solo in parte a modificarli per renderli più adeguati alla globalità di sé. Potrà salvare solo il salvabile del proprio vero sentire e della propria esperienza reale: del proprio "veroSé", in definitiva.
Perché si realizzino guasti così gravi e così danneggianti sulla qualità della vita è necessario che gli atteggiamenti parentali inadeguati siano ripetitivi nel tempo in modo rigido e sistematico: è difficile (anche se è possibile) che sia in gioco un isolato, singolo episodio traumatico.
A questo punto credo vi sia chiaro che tra le mancate elaborazioni del lutto che incontriamo nella pratica clinica ve ne sono alcune (molte, io credo) connesse a reali incapacità per un inadeguato apprendimento della gestione delle emozioni.
Che fare, in questi casi? Una specie di "doposcuola", in cui insegnamo alla gente come possono essere gestite le emozioni in generale e il dolore depressivo in particolare? Certo: sarebbe un metodo abbastanza semplice e socialmente economico. Ma non funzionerebbe, purtroppo, perché questo tipo di apprendimento può realizzarsi soltanto nell'esperienza che può essere fatta nel vivo di una relazione intensa e rispettosa della separatezza tra i partner. In una relazione psicoterapeutica adeguata.
Nella nostra cultura, se uno soffre di un dolore fisico perché, poniamo, si è rotto una caviglia, è ritenuto normale e ovvio che ricorra all'ortopedico e al fisioterapista, che lo aiutino a favorire l'aggiustarsi della frattura e che lo accompagnino nella ripresa funzionale. Ma se, invece, soffre di un dolore mentale perché gli eventi della vita gli hanno strappato qualcosa di buono, se, cioè, patisce di un dolore depressivo, sarà purtroppo difficile che senta ragionevole ricorrere a uno psicoterapeuta, che lo accompagni nel processo di elaborazione del lutto. E se vi ricorrerà, lo farà solo quando gli aggiustamenti che avrà strutturato si saranno rivelati particolarmente pesanti per le sue condizioni di vita. E questo non aiuta né lui né il suo terapeuta. Che fare, allora?
Ecco, ogni volta che ci imbattiamo in un dolore depressivo (cosa che nella pratica clinica è frequentissima), varrà la pena che teniamo presente la necessità del paziente di gestire il proprio dolore. Sarà importante osservare e riconoscere quali modi usa per gestirlo, dandogli il tempo per sperimentarsi. Dargli spazio, senza mai negare il dolore (con battute, per esempio, minimizzanti, come troppo spesso si vede fare a mo' d'incoraggiamento), ma riconoscendolo pienamente e cogliendone (e mostrandogli) la sensatezza. E se non c'è spazio, bisogna crearlo. Attivamente. É lo spazio relazionale, infatti, quello che verrà utilizzato dal paziente per costruire nel mondo interno un proprio spazio mentale per il contenimento e l'elaborazione delle emozioni.
Fondamentale, dunque, è accettare, con genuina partecipazione, le espressioni del dolore e le richieste di aiuto nel gestirlo. Spesso, già solo la nostra partecipazione paziente e consapevole, se non è recitata, consente al paziente di percepire lo spazio adeguato che gli permette di cercare vari, differenziati modi di gestione del proprio dolore. E la nostra accettazione del suo dolore gli testimonia che esso può essere pienamente riconosciuto, che se ne può parlare, che c'è la possibilità che si crei uno spazio (mentale in noi, relazionale tra noi e lui, e quindi anche mentale in lui) in cui tale dolore può "trovare il suo posto", può essere vissuto e può rendersi accessibile all'integrazione.
E qui vale la pena ricordare ancora una volta che le prediche non servono a molto: quello che conta è ciò che noi effettivamente siamo e il nostro reale modo di approcciare il dolore in generale, e quello specifico dolore in particolare. Nell'apprendimento di nuove modalità di gestione del dolore e nel consolidamento delle antiche, il paziente utilizzerà i nostri modi veri, quelli che davvero noi conosciamo e davvero utilizziamo. Questo è uno dei motivi per cui è necessario che noi, che ci occupiamo di altri, siamo bene analizzati.
Ma é molto importante anche ciò che bisogna non fare.
Prima di tutto bisogna non confondere le cose, pensando che sia "patologico" il dolore mentale depressivo, o che lo sia l'esigenza assolutamente vitale di elaborarlo e di gestirlo. Non è il dolore di per sé che deve essere annullato, né, tanto meno, lo sono i tentativi di metabolizzarlo. Il paziente, al contrario, deve essere aiutato a riconoscere il dolore per quello che è. Ma, proprio per consentire al paziente di trovare i modi per lui più adeguati di gestire il dolore, è fondamentale non cercar di abbreviare il suo percorso di elaborazione del lutto. Particolarmente dannose sono le istigazioni alla maniacalità, alla negazione, cioè, del dolore attraverso la negazione dei bisogni di attaccamento e di dipendenza, accecati dall'eccitazione e dall'attività. Sul finire, come esempio di cosa non fare, vorrei citarvi il caso di una giovane signora, che perse in circostanze tragiche la propria bambina di undici anni. In preda a una specie di attonito smarrimento, sull'orlo della disperazione, si rivolse a uno specialista, che le disse: "Signora! Questo é il momento di avere coraggio. Lei è una donna coraggiosa. Io lo so. E se Lei sarà coraggiosa, ce la farà a dimenticare. Ma se Lei sarà doppiamente coraggiosa, se prenderà il coraggio a due mani, farà un altro figlio, e tutto andrà a posto!". E così fece, la sventurata, esponendo se stessa e il figlio a portare per sempre i segni di un lutto mai compiuto. Il quale figlio, inconsapevole della "missione segreta" che gli era stata affidata (essere colui che doveva esentare la madre dall'elaborazione del lutto), una volta divenuto adulto divenne pediatra, come a salvare retroattivamente la sorellina morta. E, forse, come ad occuparsi di sé bambino in via mediata. Questo è un esempio di pseudoaiuto, che, a uno sguardo superficiale, ha tutta l'apparenza del successo terapeutico, ma che, inibendo attivamente l'elaborazione del lutto, favorisce scissioni e mortificazioni di sé, anziché integrazioni. In questo modo, una parte della signora morì con la bambina e non poté forse più essere da lei recuperata, e una parte del figlio forse non nacque mai. In ogni caso, entrambi (non solo la madre, ma anche il figlio) si sono trovati costretti ad affrontare un carico emotivo eccezionalmente grande.
Se queste mie parole saranno servite a favorire una vostra maggiore attenzione verso l'assoluta necessità che i pazienti (e le persone in generale) hanno di essere rispettati ed eventualmente aiutati nel riconoscere e nel gestire il proprio dolore depressivo, anziché nel cercare di annullarlo, potrò essere soddisfatto. E se poi vi sarete resi conto dell'importanza di questo per la prevenzione primaria sia sulle persone interessate sia sui loro discendenti, potrò essere davvero contento.
Bravissimo, è davvvero di grande aiuto questa lettura per capire cosa ci succede dentro
RispondiEliminaGrazie