Centro Studi e Ricerche Nostos
La caratteristica fondamentale dell’Isteria è di essere una condizione psichica che si esprime per mezzo del corpo: non per mezzo del comportamento, del pensiero, del flusso verbale, ma proprio attraverso il corpo. È pur vero che sono ascritti all’isteria anche fenomeni quali i crepuscoli e le amnesie non riconducibili a lesioni organiche, ma questi sono ritenuti, quando siano presenti, dei sintomi secondari; quelli primari sono legati all’espressione somatica: le grandi crisi acute, le grandi sindromi funzionali, la polimorfa varietà delle algie, le “stigmate” isteriche.
È dunque nell’isteria che si rappresenta al massimo grado la scissione tra corpo e mente, laddove, si ipotizza, una sofferenza grave non può essere percepita ed espressa dal soggetto se non attraverso il corpo. È lecito supporre che tale percezione non possa, in parte o del tutto, essere riversata nel circuito comunicativo del pensiero consapevole, degli atti relazionali intenzionali e trasparenti, del linguaggio verbale.
Il linguaggio del corpo nell’Isteria è lo strumento a disposizione di chi non ha parole per comunicare e forse anche di chi non può o non vuole comunicare con le parole: di chi ha la povertà comunicativa propria degli “individui rozzi”, ma anche di chi, appartenendo alla buona società, non può permettersi di esprimere altrimenti pensieri e desideri considerati “sconvenienti”. È il linguaggio di qualcuno che di volta in volta, nel corso dei tempi, viene considerato un indemoniato, un malato, un simulatore.
Ai fini del nostro discorso, è importante la definizione di Isteria che diede Babinski: si tratta di uno stato psichico, non necessariamente definibile come patologico, che si esprime con fenomeni e sintomi che riguardano il corpo. Si può ragionevolmente ipotizzare che questo stato psichico sia costituito da un fondo di disagio e di sofferenza delle cui motivazioni il soggetto è più o meno consapevole, e che il corpo sia lo strumento con cui egli riesce ad esprimerlo: con il corpo tutto, con parti di esso, con alcuni organi ed apparati, su suggerimento dell’interlocutore o per autonoma intuizione della funzione comunicativa di quel segmento del proprio corpo.
Babinski riteneva che questo non meglio definito stato psichico, costituisse la condizione per rendere il soggetto sensibile all'auto o etrero-suggestione capace di produrre i sintomi fisici (ptialismo): in questo modo tentava di risolvere il problema costituito da una condizione caratterizzata da sintomi talora stabili e invalidanti; egli ne deduce che esiste un confine assai labile con quella che è un’aperta simulazione. Forse sarebbe più giusto considerare quello “stato psichico” di cui parla Babinski come disagio e sofferenza, uniti ad un'impotenza comunicativa: per inciso mentre il medico osservatore, come scopre Babinski, induce con la suggestione i sintomi che si aspetta di vedere, la società tutta “suggerisce”agli isterici di non esprimere in linguaggio comune, i contenuti dei loro desideri e delle loro sofferenze.
È interessante confrontare le descrizioni della polimorfa espressività somatica dell’Isteria che i grandi clinici redigono negli anni tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 e le successive attribuzioni di significato che sono date ai sintomi dalla nascente cultura psicoanalitica; si ha l’impressione di una riduzione di una grande varietà di forme ad un unico contenuto comune a tutti: il discorso sessuale represso.
Certo la sessualità, specie per le donne e specie in certi ambienti, era argomento “indicibile” e la repressione del desiderio si sostanziava in impossibilità concreta di farne un contenuto mentale ed un oggetto di comunicazione: ma forse è più giusto pensare, che come tutto il corpo dell’isterico parla con i più svariati sintomi, così l’intera gamma delle espressioni emotive ed affettive, dei sentimenti e dei desideri può trovarsi negata la via all’espressione libera o, prima ancora, l’accesso alla consapevolezza piena. Tutto il corpo parla perché in quei soggetti, in quei tempi, in quella società quasi ogni sentimento o desiderio non può essere fino in fondo conosciuto ed esperito e meno che mai comunicato.
Nelle forme più gravi di Isteria, il doversi esprimere solo attraverso il corpo diventa invalidità o stile di vita: c’è nella vita di queste persone una vasta area dove domina il silenzio degli affetti e dei desideri; c’è nella vita di tutti i giorni la “paralisi” reale di una funzione o la riduzione della autonomia personale a causa di un sintomo o, addirittura, la necessità di dipendere totalmente dagli altri perché soggetti a crisi frequenti. Il linguaggio del corpo è paradossalmente solo espressione di malattia, d’invalidità o di indole debole e tutto sommato disprezzabile. Sospeso tra malattia, sospetto di simulazione, stigma sociale, l’isterico, e ancor più l’isterica, divengono con il passare degli anni e con l’affievolirsi dell’interesse suscitato negli “anni d’oro dell’Isteria” un fardello ingombrante perfino per la Psichiatria. I Grandi Semplificatori del DSM finiranno per cancellarla.
In fondo l’Isteria ci ha obbligato a fare i conti con il nostro sapere, ci ha costretto a fare i conti con i limiti del nostro sapere.
L’Isteria contesta quelle che sono le nostre conoscenze mediche, stravolge i concetti neurologici; la medicina ha cercato di prenderla sotto la sua protezione, offrendole un riparo dalle precedenti persecuzioni, allargando gli esigui confini del corpo agli spazi mentali e valutando la possibilità che la mente possa influenzare il corpo fino a modificarne il funzionamento, fino a creare delle disfunzioni come le paralisi isteriche che superano i confini dell’innervazione e della funzionalità.
Questo accogliere l’Isteria nel campo della medicina, le ha tolto quella connotazione di espressività emotiva, di comunicazione della sofferenza in soggetti che non riescono ad esprimerla attraverso i convenzionali schemi sociali.
Da sempre l’Isteria è legata alle convenzioni sociali e alla difficoltà della società di accettare l’espressione dell’emotività. Forse per questo è sempre stata combattuta fino ad essere denigrata, fino al punto di tornare a bruciare al rogo le isteriche come indemoniate.
La risposta potrebbe trovarsi nel significato simbolico dell’espressività corporea, la quale a differenza dell’espressione verbale, non può essere arbitraria o simulata, bensì intimamente collegata con i significati che intende trasmettere.
D’altronde quali sono le persone che dovranno ricorrere a questa forma d’espressione?
Naturalmente i più deboli, come succedeva per le donne in passato. Le persone che più delle altre soffrono di vessazioni, quelle che sono più deboli e quindi hanno più paura e non riescono o non possono essere se stesse non affrontando gravi trasgressioni sociali come succedeva in passato per la donna, che doveva costantemente rinunciare ad esprimere le proprie esigenze sessuali ed adeguarsi costantemente agli obblighi di accudire gli altri e di esercitare il ruolo materno, fino a diventare schiava di quei compiti, liberarsi dai quali sarebbe stata una grave offesa per la famiglia e per i ruoli sociali.
Dobbiamo però considerare che ognuno di noi, può essere se stesso quando sente di aver realizzato le proprie aspettative e quando queste coincidono con i riconoscimenti relazionali del contesto nel quale egli vive e si rapporta.
Appare molto difficile sul piano esistenziale essere se stessi ed esprimere, attraverso un’apparente inadeguatezza rispetto ai compiti assegnati dal proprio ruolo sociale, una contestazione delle regole sociali, affrontando la critica e il dissenso di chi ci circonda e del contesto in cui viviamo.
Entrano in funzione altri canali: come nella psicosi si viene a formare un altro mondo dove, seppur con angoscia e terrore il soggetto riesce a sopravvivere, così nell’Isteria il soggetto si deresponsabilizza, è malato, non è più responsabile dei suoi comportamenti e riesce ad esprimere vissuti e stati d’animo che non avrebbe mai potuto esprimere in condizioni di normalità psichica.
In questo senso allora, la comunicazione attraverso il corpo serve ad esprimere il conflitto psichico legato alla storia individuale fuori dalla volontà del soggetto stesso in una comunicazione nella quale il soggetto ricevente è colpito dai sentimenti espressi in maniera tale da non potersi estraniare né tantomeno fuggire.
Questa modalità comunicativa ha un reale valore dialettico: è orientata a considerare l’Altro un partner di scambio o solo una compresenza senza la quale non avrebbe nessun senso la comunicazione isterica?
In questo senso esiste una componente coercitiva nell’espressione isterica, che deifica l’altro rendendolo l’elemento passivo di una comunicazione coercitiva alla quale non si può sottrarre, rispondendo così in maniera violenta alle precedenti violenze subite.
La psicoanalisi ha descritto quasi unicamente una componente di espressione sessuale nella comunicazione isterica, limitando il campo di interpretazione ad un ambito ristretto all’interno del quale viene, secondo noi, persa una soggettività individuale e nel contempo, viene attribuita tutta la responsabilità di un comportamento coercitivo comunicativo e violento senza considerare gli elementi sociali e relazionali che hanno derivato il sintomo.
Eravamo quindi orientati a considerare il sintomo isterico come un elemento comunicativo che c'investiva, nella pratica quotidiana, in maniera spesso fastidiosa per la sua aggressività e per la coercizione a cui ci costringeva, ma sempre come una via di comunicazione a cui ricorrevano persone che non potevano o non riuscivano a trovare altri canali di comunicazione della propria sofferenza.
Per molti anni ci siamo rassegnati a fare da sfondo al palcoscenico della recita isterica, cercando di intervenire nelle situazioni di maggiore gravità, come peraltro siamo generalmente abituati a fare nei servizi pubblici, dove non c’è mai spazio per interventi spesso considerati “superflui”, ma costantemente in attesa del momento in cui si creava uno spiraglio di relazione, del momento opportuno per essere presi finalmente in considerazione e iniziare ad instaurare una relazione diadica con un soggetto terrorizzato da quest'aspettativa.
Rimanevamo in attesa, talvolta inutilmente, che il paziente potesse esprimere nella relazione terapeutica quel livello emotivo contenuto nel linguaggio somatico.
Ufficialmente nella nosografia in auge, l’Isteria è stata rimpiazzata da tre entità diverse: il Disturbo di Somatizzazione, i Disturbi Dissociativi, il Disturbo Istrionico di Personalità. Dal nostro punto di vista, se il nucleo fondamentale dell’Isteria è la comunicazione attraverso il corpo, le ultime due entità riguardano concettualizzazioni e fenomeni che vanno oltre questo nucleo; peraltro esistono altre situazioni in cui l’espressione attraverso il corpo della sofferenza psichica, è il sintomo fondamentale: tra esse ha suscitato il nostro interesse il Disturbo di Panico.
Non intendiamo, naturalmente, sostenere una possibile identità tra la sintomatologia isterica e quella dell’attacco di panico, ma prendere in esame la possibilità che esistano similitudini forti tra le condizioni che erano alla base dello “stato psichico” che consentiva l’espressione dei sintomi isterici e quelle che si possono rinvenire nei soggetti che manifestano i sintomi somatici che accompagnano l’attacco di panico.
In particolare alcune nostre esperienze cliniche ci hanno fatto pensare che certe caratteristiche di personalità e, correlate a queste alcune difficoltà relazionali e di comunicazione, fossero simili tra soggetti con Disturbo di Panico e altri per cui ci capita, nonostante i tempi, di far diagnosi di Isteria.
D’altra parte, il rilievo clinico che numerosi soggetti affetti da Disturbo di Panico, dopo una remissione dei sintomi tipici dovuta ad un intervento farmacologico, in seguito presentino diversi altri tipi di patologia psichiatrica, ci ha fatto pensare alla presenza di un disordine complessivo della personalità che li assimilano a pazienti con un quadro riferibile all’Isteria.
Per prima cosa ci ha colpito la bassissima prevalenza del Disturbo di Somatizzazione: non solo nella nostra esperienza (non se ne vedono praticamente più, ma questo potrebbe dipendere da una tendenza, che peraltro riteniamo probabile, dei medici di base a provvedere essi stessi all’intervento psicofarmacologico), ma anche in quello che viene riportato dalla letteratura: che il corpo non sia più uno strumento della comunicazione di chi soffre?
Certo le cose sono cambiate da quando l’Isteria era così frequente e interessante: le possibilità di comunicare sono teoricamente infinite; moltissime delle tematiche non affrontabili nella relazione interpersonale un secolo fa, oggi sono accessibili e il tabù della sessualità non è certamente più tale; moltissime persone hanno acquisito strumenti culturali che consentono loro la possibilità di concettualizzare e mentalizzare una vasta gamma di emozioni, di affetti, di implicazioni relazionali; la stessa distribuzione del potere all’interno della famiglia e della società è cambiata e ha restituito la “parola” a tanti soggetti oppressi dal costume o dalla struttura sociale. Verosimilmente, dunque, almeno nella società occidentale, si può riuscire a comprendere meglio le ragioni del proprio disagio e si hanno più strumenti per esprimerlo nella relazione con gli altri: del corpo c’è dunque meno bisogno.
Ma probabilmente non per tutti questo è vero: esistono dei soggetti che non riescono a conoscere o a comunicare i contenuti, i motivi, le origini del proprio disagio e sono ancora costretti a servirsi di un altro linguaggio: un linguaggio più raffinato di quello “grezzo” ancorchè polimorfo dell’Isteria, un linguaggio in cui sia presente l’espressività somatica, nelle fasi acute, ma che di norma si esprima nella forma in cui il disagio e la sofferenza hanno “imparato” a materializzarsi, con un sintomo che ha componenti somatiche come elementi di pertinenza cognitiva, l’ansia.
Quali sono le cose che possono essere espresse nel linguaggio non corporeo da chi soffre di Disturbo di Panico? Facciamo una prima ipotesi, che parte dall’osservazione che la maggior parte di costoro va incontro a fallimenti nei tentativi di affermarsi socialmente, di conseguire una realizzazione professionale, di rispondere positivamente alle richieste poste dall’ambiente familiare e sociale: è possibile che essi tentino di esprimere il desiderio di essere valutati per la loro ricchezza emotiva e affettiva, per la loro capacità di empatia e di relazione: essi privilegiano, peraltro senza successo, la lotta per ottenere un riconoscimento sociale: faticano a riconoscere e ancor più ad esprimere i propri contenuti affettivi. Coesistono il deficitario adattamento sociale, il senso di frustrazione che ne deriva e la difficoltà ad accettare e a vivere le proprie valenze affettive. Tutto questo non può che essere espresso attraverso il linguaggio ibrido dell’ansia o quello acutamente sofferente del corpo nelle crisi.
Questa ipotesi naturalmente andrà verificata o falsificata attraverso un lavoro di indagine clinica e psicometrica che abbiamo appena iniziato. Per intanto diciamo che ci ha molto interessato la possibilità di ricominciare a ragionare sul “significato” di una sintomatologia, sulla possibilità di ritrovare, al di là delle mode nosografiche (panta rei, anche i DSM prossimi venturi), il nucleo irriducibile di una sofferenza che trova canali espressivi “primitivi”, ancorché in qualche modo legate ai tempi e alle culture: ci ha affascinato l’idea che forse la rinuncia al termine Isteria, possa aver risolto l’ambiguità linguistica per cui i suoi portatori potevano essere malati o simulatori o semplicemente “individui rozzi” e che ora il linguaggio sofferente del corpo, possa essere rettamente interpretato come il segno di una sofferenza complessiva della persona, alla ricerca di un'espressione che gli altri possano capire e prendere in considerazione.
Cosa possono avere in comune il DP e l’Isteria?
Anche in questo quadro clinico la sintomatologia prevalente è quella legata all’espressione corporea, la mancanza d’aria, il senso di svenimento, la sua improvvisa insorgenza, la necessità di avere una figura di riferimento che riesca a calmare e a tranquillizzare il soggetto, evitando che cada in preda alle sue crisi d’ansia, ma che nel tempo viene resa completamente dipendente, attraverso i sintomi, alla volontà indotta dalla malattia.
Bisogna evitare determinati luoghi perché possono essere pericolosi, il soggetto non può essere lasciato solo, viene ridotta la propria autonomia a vantaggio di un aumento dell’accudimento esercitato dagli altri, inoltre c’è un ritrovare una maggiore vicinanza affettiva, in un soggetto che si trova in uno stadio di vita nel quale stava iniziando una fase di svincolo e di autonomia, vissuta come esperienza di abbandono o come un aumento di responsabilità, percepita come un impedimento alla propria realizzazione personale, come peraltro abbiamo precedentemente accennato, succedeva in passato nei confronti delle figure femminili, costrette ed obbligate a rivestire dei ruoli dei quali diventavano schiave.
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