sabato 17 maggio 2008

La via personale tra Edipo e identificazione


Gabriella Mariotti

Nelle riflessioni di cui vi parlerò, riprendo in particolare un aspetto che è emerso anche nelle relazioni che mi hanno preceduta: l’intento di integrare, con il concetto di persona e nel concetto di persona, consapevolezza e autenticità. Sono due elementi che spesso dai nostri pazienti abbiamo sentito definire come inconciliabili, se non addirittura antitetici: consapevolezza in questi casi finisce per diventare sinonimo di una sorta di triste ragionevolezza che spegnerebbe la cosiddetta spontaneità, la quale, peraltro, spesso non è altro che narcisistica e imperiosa pretesa di "scaricare" qualsivoglia tensione interiore. In realtà, è evidente che consapevolezza e autenticità non sono affatto inconciliabili: al contrario, dialetticamente interrelate e integrate, sono l’una "al servizio" dell’altra, nei termini della tensione positiva tra aspetti di sé e tra aspetti della relazione interpersonale. Tanto più laddove, come nel nostro caso, si intenda operare in senso terapeutico.


Parlare di via personale, dunque, soprattutto in questa particolare professione che è l’attività psicoanalitica e psicoterapeutica, implica, a mio parere, l’inevitabile riferimento al punto topico della tensione relazionale e dell’integrazione tra consapevolezza e autenticità: implica cioè riferirci all’Edipo e alle alternative che si pongono, nell’elaborazione del conflitto edipico, tra libere identificazioni e imitazione. Ciò riguarda soprattutto il rapporto del terapeuta con i propri punti di riferimento non tanto e non solo teorici, quanto piuttosto libidico-affettivi, rappresentati dai propri analisti, didatti o personali, dai supervisori e da quant’altro possa rappresentare, nel percorso di formazione, la figura del cosiddetto "maestro". Tale rapporto è evidentemente una questione di grande importanza, poiché le modalità di trasmissione del sapere psicoanalitico lo pongono al centro della "formazione": un po’ come nelle filosofie orientali, il nucleo della "trasmissione di sapere" è nella relazione tra allievo e maestro, mentore o guru che dir si voglia. Tutto ciò che riguarda questa relazione è quindi ovviamente centrale per la psicoanalisi stessa.


Mi riferisco pertanto al rapporto con il proprio mentore: con il concetto di mentore intendo indicare qualcosa di più, rispetto al gioco educativo di ruolo che può venire in parte evocato dal termine maestro: Mentore è il personaggio dell’Odissea attraverso il quale parla il dio, parla Atena, è "figura radicale che fa compiere svolte, che soppianta il rassicurante di ogni appartenenza e controllo"(Mottana, 1996). La disponibilità verso il mentore assume una specifica pregnanza nel percorso che si ha da compiere per essere, appunto, psicoterapeuta, ma ovviamente non riguarda soltanto la formazione psicoanalitica: è una questione di grande importanza per ogni analisi. Infatti, la disponibilità verso il mentore è prototipo della disponibilità verso il proprio stesso preconscio ed è segno di una posizione di apertura e agilità interiore verso sŽ e il distinto da sŽ. Ma per guadagnare questa posizione, e ogni volta riguadagnarla fuori dalla seduzione rassicurante delle certezze difensive e cristalline, si ha da passare tra Scilla e Cariddi dell’Edipo, tra imitazione e identificazione, per giungere alla capacità di riconoscere, seguire il mentore là dove egli è, e identificarsi con lui, superando l’angoscia predatoria.


Un proverbio indiano che dice "quando hai bisogno, il guru appare" interpreta esattamente la disposizione a cogliere in sé e nell’altro ciò che di "mentorico" può esserci. In primo luogo, si tratta di saper riconoscere il proprio bisogno e, in secondo luogo, si tratta di sapere individuare, riconoscere chi rappresenta una risposta a tale bisogno. E, una volta riconosciuto il mentore, si tratta di sapersi lasciar prendere per mano, sapersi arrendere, come dice Lopez (1983), al mentore come a un superiore se stesso, sia questo rappresentato dal proprio preconscio, dall’oggetto d’amore (dalla persona amata), dall’analista o dal supervisore.


La posizione che sto descrivendo, in quanto implicata sia con l’identificazione sia con la capacità di relazione con il distinto da sŽ, è strettamente legata all’Edipo maturo, come profonda capacità di mantenere agilmente la tensione e la sintesi tra le diverse posizioni dell’Edipo. Ciò è premessa ineludibile per consentirsi di raggiungere l’apertura necessaria a cogliere e accogliere il mentore, in noi, e fuori di noi e per saper, a nostra volta, rappresentare il mentore per i nostri pazienti. Ne è condizione necessaria, e sufficiente, poiché è soltanto nel pieno dispiegarsi dell’Edipo maturo che amore oggettuale e amore identificatorio si fondono, quando il genitore dello stesso sesso non è più oggetto di attacco invidioso, e dunque non vi è più necessità di attaccare sŽ quando se ne assume la funzione, e il genitore di sesso diverso è al contempo sŽ, nell’identificazione, e persona distinta da sŽ, come oggetto d’amore (non è questa una questione semplice: sappiamo quanto soprattutto gli elementi di identificazione nel genitore di sesso opposto siano stati criminalizzati all’insegna della più vieta stereotipia nell’identità di genere). Non a caso, Jessica Benjamin sottolinea che tale posizione, l’Edipo maturo, è la base per il superamento delle difese rigide verso il diverso, sia questo rappresentato da una razza sia questo rappresentato dall’identità di genere differente. Ed è pertanto evidente che se non si è in questa posizione di Edipo maturo, il mentore, che è per sua natura in una situazione di diversità rispetto a noi, o meglio ancora, di temporanea distinzione, sancita dal rapporto saturo/insaturo, non verrà riconosciuto e accolto con gioia, bensì sarà sentito, proprio in quanto diverso, come minaccia. Egli dovrà essere negato, perché troppo inquietante per i nuclei narcisistici immaturi, dovrà essere controllato, dovrà essere respinto. Al massimo, dovrà essere circoscritto a un’esperienza passata, e sia ben chiaro, conclusa. Ciò priva l’individuo di occasioni centrali nella vita, lo priva di quei momenti in cui l’oggetto d’amore apre le porte di un nuovo mondo. In realtà, la disponibilità verso il mentore non si esaurisce con la fine dell’analisi: rimane come disponibilità verso il proprio preconscio, verso la persona amata, verso la vita stessa.


Come ho detto, l’irreplicabile tensione che unisce amore identificatorio e amore oggettuale coincide, in termini di dinamica interna, con l’Edipo maturo, con la capacità cioè di essere in relazione con l’altro come persona distinta, sapendosi al contempo riconoscere e identificare in lui. Ma sulla strada che porta all’Edipo maturo, e che ripercorriamo costantemente, chiaramente con senso e vissuto differente a seconda che si sia attinta almeno una volta la meta, vi è un passaggio inevitabile, e al contempo rischioso: la fase dell’imitazione.


Un mio giovane paziente, studente di psicologia, inizia l’analisi parlandomi del suo progetto di diventare a sua volta psicoanalista. Il suo primo sogno rappresenta chiaramente l’intento di prendere il mio posto, buttandomi letteralmente giù dalla mia poltrona. Nel corso della sua analisi sono emerse poi frequenti fantasie, e talora agiti, che indicavano la sua valorizzazione inconscia di tecniche e tattiche all’insegna della scorciatoia. Che cosa significava la fantasia di buttarmi giù dalla mia poltrona e prendere il mio posto, prototipo di tutte le altre scorciatoie che il paziente avrebbe poi cercato di mettere in atto, nonostante le sue indubbie capacità gli potessero consentire di percorrere la strada maestra?


Un deficit narcisistico di base, cioè il timore di non farcela a trovare la propria strada, implica l’ovvia compensazione che conosciamo come patologia narcisistica, all’interno della quale vi è anche il tentativo di risolvere l’angoscia e i sentimenti di inadeguatezza cercando di occupare il posto dell’altro. In altri termini, si cerca di risolvere il conflitto edipico spodestando i propri genitori (essendo loro), invece che essendo se stessi. Nella relazione analitica ciò comporta, evidentemente, che l’analista più che polo di libera identificazione, profondamente accolto, diventi oggetto di imitazione.


Curiosamente, di questo aspetto hanno parlato in molti, e non solo come sviluppo delle intuizioni di Gaddini in senso generale, ma nello specifico della formazione psicoanalitica, sottolineando, come fa la Von Goldacker (1997), il ruolo difensivo dell’imitazione, come difesa narcisistica per mantenere scissioni tra oggetti svalorizzati e idealizzati e per evitare sentimenti di dipendenza. O come fa Speziale Bagliacca (1982) per riportare l’attenzione sugli aspetti di collusione da parte dell’analista, che a quel punto mentore non è più, pago e soddisfatto dell’imitazione che non sa riconoscere nel suo paziente e/o allievo.


A mio parere, l’imitazione diventa negazione dell’Edipo quando, lungi dal costituire quell’esperienza fondamentale ed esplorativa che contraddistingue certi passaggi infantili e adolescenziali, si irrigidisce come modalità di impossessamento, come negativo dell’interiorizzazione. Zelig, il personaggio di Woody Allen, ne è prototipo: l’imitazione dà un temporaneo sollievo, ma copre e al contempo alimenta l’incapacità di confrontarsi con il sé più autentico. Infatti, la sensazione di fondo di chi imbocca cronicamente questa strada sarà sempre quella di trovarsi in un posto che non è veramente il proprio, con il conseguente portato di ansia e di tensione apparentemente immotivate, di precarietà, di facilità al panico e alle fantasie persecutorie: "prima o poi il legittimo proprietario tornerà e che ne sarà di me?".


Tuttavia, è vero che l’imitazione dà sollievo (temporaneo) e ha una sua funzione positiva soprattutto nelle fasi esplorative. Con l’imitazione ad esempio l’adolescente si rassicura, egli può essere "come l’altro", può mettere in atto quelle regole, quei codici che gli sono stati estranei fino a quel momento. E’ un po’ come se dicesse "Ah, si fa così!" prima di trovare il suo proprio modo di farlo, di esserlo. In questo senso, la fase dell’imitazione è rassicurante anche nei termini dell’appartenenza: condividendo un codice, un linguaggio, si appartiene a un gruppo o quantomeno all’illusione di una coppia. Parlo di "illusione di coppia" perché l’imitazione si osserva anche in certe coppie adulte, nelle quali si sviluppa un codice comportamentale di imitazione reciproca all’interno del quale la ricerca di rassicurazione poggia sulle fantasie simbiotico-narcisistiche più smaccate e sfocia nell’inautenticità, all’insegna della ricerca e della proiezione reciproca del proprio sŽ narcisistico.


Tornando a noi, cioè alla coppia psicoterapeutica, possiamo dire che con l’imitazione del proprio maestro anche il terapeuta cerca di rassicurarsi, cerca di rinforzare il valore dell’interpretazione fatta al suo paziente, attraverso la fantasia che l’abbia detta il maestro, e cerca altresì di non sentirsi solo davanti e con il paziente: due funzioni che possono essere al limite dell’escamotage, e che possono anche non intaccare gravemente la qualità dell’interpretazione, che in realtà viene genuinamente prodotta dal terapeuta, da lui sentita e proposta autenticamente, per quanto poi si rassicuri pensando "anche il mio maestro avrebbe detto così". In questo senso, l’imitazione, grazie alle funzioni di rinforzo e appartenenza, come ho detto, può non intaccare gravemente la qualità dell’interpretazione, dal momento che essa è stata frutto autentico della relazione con il paziente, e addirittura potrebbe essere funzionale a un’interpretazione adeguata e coraggiosa che l’analista riesce a fare proprio grazie al fatto che non si sente solo, ma certamente la intacca in una qualche misura poiché rivela la difficoltà dell’analista a tenere la tensione relazionale a tu per tu con il paziente e a riconoscere egli stesso autorevolezza alla propria interpretazione.


In questo senso, emerge la componente difensiva, e vedremo poi quella aggressiva, dell’imitazione: più evidente nel caso l’interpretazione sia frutto di un pensiero non solo del tipo "che cosa farebbe il maestro ora?", ma


anche del tipo "in quella occasione il maestro ha fatto così". Allora, è sottrarsi alla relazione hic et nunc con il paziente, poiché sovrappone una storia diversa a quella attuale, è trovare una scorciatoia, che non porta da nessuna parte utile. é non essere sé; è, propriamente, imitare il maestro. In questo caso, dico proprio maestro, perché il mentore è stato svilito a meccanico manuale di regole.


Ecco dunque il versante aggressivo dell’imitazione, poiché in questo modo il mentore è tenuto fuori, non dentro, non è interiorizzato, non vi è identificazione. é tenuto alla superficie: "tutto ciò che tu mi hai trasmesso è te, non è diventato me. E per soprattassa, ti faccio pure la caricatura".


Ho parlato prima di scorciatoia che non porta da nessuna parte utile: per evitare il percorso di evoluzione personale, per non affrontare e tollerare la separazione, per non avvertire la nostalgia e talora il doloroso senso di perdita e di spaesamento, si mette in atto il "sarò te, occuperò il tuo posto", all’insegna della rabbia narcisistico-edipica più evidente. Ma, come sappiamo, non si può essere l’altro, al massimo se ne diventerà la copia, e in quanto copia, non potrà che essere una brutta copia.


é evidente che l’imitazione, nel senso che ho or ora descritto, rimanda dunque a una problematica edipica irrisolta e basata su fragilità narcisistica: con l’imitazione il mentore viene tenuto fuori, poiché l’angoscia sotterranea è quella di esserne schiacciati, e la risposta aggressiva è proprio lo svilimento del mentore a modello reificato da imitare. Contemporaneamente, viene mantenuta la fissità edipica rigida: "io resto piccolo, tu sei il grande, rimango l’allievo, il bambino giovane per la vita". In questa fantasia di eterna giovinezza, pagata al prezzo di non essere e non diventare sŽ, si ritorna al tema di prima: il mentore è collocato nella posizione di altro, il grande, e non viene accolto profondamente come voce del dio, dell’Atena interiore. Da questo punto di vista, poiché il rapporto col mentore è prototipo del rapporto che si instaura con il proprio stesso preconscio, tale situazione è di grande impedimento al raggiungimento dell’Edipo maturo, è foriera di chiusure libidico-emotive, e quindi anche di pensiero.


Prima di concludere il mio intervento, mi pare importante accennare al polo complementare opposto, cioè a quelle situazioni nelle quali è l’analista stesso che tradisce il suo ruolo mentorico, per farsi struttura reificata, per farsi Pigmalione. Egli non riconosce, e talora inconsciamente richiede, l’imitazione da parte del paziente e scambia per attacco invidioso e/o distruttivo ciò che è invece affermazione di vitalità e autenticità. Questo analista non è mentore, ma reificazione del mentore, talora rintracciabile ad esempio negli irrigidimenti ideologico-teorici, nelle regolamentazioni iperburocratiche, nelle regole-dogma, per le quali non c’è risposta al perché, se non "si fa così". In questo senso, si rischia di penalizzare nel paziente, nell’allievo, proprio il suo essere persona, si rischia di rifare la storia di Eva, Pandora e Prometeo, puniti per non aver accettato l’invito devitalizzante all’acquiescenza imitativa come posizione cronica e per avere cercato, e pagato, il sapere personale.


La dimensione personale nell’incontro terapeutico è dunque il superamento dell’imitazione come mascheramento dell’attacco invidioso al genitore, è dimensione nella quale ha piena espressione la dialettica dei distinti, laddove l’analista è in grado di provare profonda identificazione nel paziente e al contempo di mantenere la propria ineludibile unicità di persona, osando anche sfidare regole polverose e miti reificati. Sapendo dunque mantenere la tensione tra autenticità e consapevolezza.


Per concludere, riprendo una bellissima citazione di Nietzsche che illumina il valore del mentore, del mentore autentico, così come ci impegniamo a essere per i nostri pazienti, così come ho avuto il privilegio di incontrare nella mia vita e alcuni dei quali sono qui con me, oggi.


"I tuoi veri educatori e plasmatori ti rivelano qual è il vero senso originario e la materia fondamentale del tuo essere, qualche cosa di assolutamente ineducabile e implasmabile. In ogni caso, difficilmente accessibile, impacciato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere nient’altro che i tuoi liberatori. E’ questo il segreto di ogni formazione, essa non procura membra artificiali, nasi di cera, occhi occhialuti. Essa invece è liberazione, rimozione di tutte le erbacce, delle macerie, dei vermi che vogliono intaccare i germi delicati delle piante, è irradiazione di luce e calore, benigno rovesciarsi di piogge notturne".


 


Bibliografia


Benjamin J. (1995), Soggetti d’amore. Raffaello Cortina Editore, Milano 1996.


Gaddini E., Scritti 1953-1985. Raffaello Cortina Editore, Milano 1989.


Lopez D., La psicoanalisi della persona. Boringhieri, Torino1983.


Mottana P. (a cura di), Il mentore come antimaestro. Clueb, Bologna 1996.


Nietzsche F., Considerazioni inattuali (III). Einaudi, Torino 1981.


Speziale Bagliacca R., "Identità e rappacificazione. L’ideale dell’io, l’individuazione, lo psicoanalista e la fine analisi". In: Itinerari della psicoanalisi. Loescher, Torino 1982.


Von Goldacker U. (1997), "De l’Evaluation à l’auto-Evaluation, difficultes avec Ôl’apprentissage par l’experience’". Bulletin F.E.P. 48.


domenica 11 maggio 2008

Il posto del padre

Circolo della Rosa - martedì 4 dicembre 2007


Qual è il posto del padre dopo la fine del patriarcato e l'avvento della libertà femminile?

Questo il tema discusso nel corso dell'incontro alla Libreria delle donne del 4 dicembre, primo di una serie dedicati a questo argomento, organizzati da Laura Colombo e Sara Gandini.

"Il senso politico di questi incontri per noi è affrontare la cosiddetta relazione di differenza, la relazione tra i sessi" dice Laura nel suo intervento. A discutere in questa serata è stato invitato Marco Deriu.



(trascrizione di Serena Fuart)


"Noi partiamo da un dato: la fine del patriarcato e la libertà femminile che hanno rivoluzionato le nostre vite - inizia così Sara Gandini nel corso del suo intervento introduttivo.

"Noi, figlie della rivoluzione femminista e del pensiero della differenza, investiamo il guadagno della relazione con la madre nella politica, nel lavoro, nelle relazioni che danno senso alla nostra vita. Non sentiamo il timore del ritorno del padre patriarcale, che non ha più spazio dentro di noi. Questa figura oramai sparisce di fronte alla grandezza dell'autorità femminile.

E però, Manuela Fraire, nell'intervento allo IAPH a Roma, sottolineava bene come l'immaginario collettivo sia abitato alternativamente dai due volti dello stesso fantasma del padre. Da una parte il fantasma del vecchio tiranno patriarcale, portatore di valori assoluti indeclinabili e indiscutibili. Dall'altra il padre umiliato, depresso, marginale nella sua funzione educativa. Anche nel saggio di Marco Deriu intitolato Disposti alla cura?, pubblicato nel volume Mascolinità all'italiana, emerge il timore di molti uomini che il padre diventi sempre più emarginato, dalla relazione della madre con il figlio, con la figlia; con il rischio che crescano sempre più forme di rivalsa aggressive sia verso la madre che verso i figli. Un padre che reagisce con la violenza al tentativo della madri di smarcarsi dal suo dominio. Le cronache ne sono piene ogni giorno di più.

Il nuovo fenomeno della sterilità maschile, di cui alcune hanno parlato durante la discussione per il referendum sulla fecondazione assistita, ancora non è stato spiegato dalla razionalità medico-scientifica che non ha indagato il suo aspetto di sintomo di una virilità che stenta a fare i conti con la libertà femminile, e con uno stato dei rapporti, tra uomini e donne, abbastanza sterile. Come fa notare Annamaria Piussi sulla rivista di Diotima del 2005, quello che si tende ad oscurare è proprio il nesso tra desiderio, erotismo tra i sessi che cala, e infertilità che cresce, in un'economia relazionale di coppia dove la sessualità, che è sempre un accettare di calarsi nell'oscurità di sé e dell'altro, diviene un terreno troppo complesso di incontro.

Charmet, in I nuovi adolescenti, individua la genesi attuale del desiderio maschile di paternità nella relazione sentimentale e passionale con una donna. Secondo Charmet è la relazione d'amore con la compagna il luogo in cui origina il desiderio di avere e di accudire un figlio; è la donna che ama che lo guarisce dal "narcisismo" maschile e lo predispone ad assumere la posizione paterna. Questa "fecondazione femminile" della mente dell'uomo funziona fino a quando il sogno d'amore non si incrina. A quel punto gli uomini-padri stentano a riorientarsi sulla nuova realtà, mostrando di avere grosse difficoltà a ridefinire il proprio rapporto con i figli, e alimentano in sé un senso di sconfitta che spesso si traduce in depressione o in voglia di rivalsa violenta nei confronti della madre. E' come se venisse a cadere non solo il centro su cui si è costruita la loro nuova identità di padri, ma anche la nuova possibile base di ridefinizione di sé come uomini. Dunque l'insicurezza dei nuovi padri, come mostra Marco Deriu, nel suo libro La fragilità dei padri, rivela qualcosa di essenziale anche dell'attuale fragilità maschile, di un'identità frantumata dai grandi cambiamenti dell'ultimo secolo che stenta a trovare un proprio ordine di senso.

E però, nella discussione che ho avuto proprio questa domenica con il nostro gruppo Intercity-Intersex (un gruppo misto di uomini e donne venuti dopo il femminismo, cui fanno parte tra gli altri alcuni uomini della associazione Maschile Plurale), è emerso un desiderio autonomo di esserci in quanto padri nella crescita del proprio figlio. E' stata una discussione molto animata in cui il conflitto fra i sessi nella crescita dei figli è emerso con una carica inaspettata. Emergevano i fantasmi delle donne, coinvolte dal conflitto interiore tra la paura di essere lasciate sole, il desiderio più o meno consapevole di dominio, e il sentirsi accusate di voler far fuori il padre. E i timori dei maschi, ma anche di alcune donne, che i padri vengano esclusi, marginalizzati nella crescita dei figli, e il desiderio più o meno inconscio di poter fare a meno della madre (ieri è uscito l'esempio significativo di un africano che con la morte della madre dei suoi figli tanto aveva fatto che era riuscito persino ad allattare). Uno dei nodi del conflitto riguardava appunto la necessità, o meno, che sia la madre a fare da mediazione nella relazione con il padre, ed emergeva un desiderio di parità rispetto ai figli. Al contrario io sono convinta della centralità della madre, anche in questo contesto, che la madre venga prima, temporalmente ma non solo, e ritengo che uno dei nodi del problema sia il posto che la madre assegna alla figura paterna.

Anche Luisella Brusa, in Mi vedevo riflessa nel suo specchio, sottolineava come solo lo sguardo della madre, il suo desiderio per altro, permette di fare spazio, di muoversi verso un altrove, specialmente per la figlia femmina. E anche Luigi Zoja, che da uomo ha riflettuto sulla figura del padre in Il gesto di Ettore, afferma che lo sguardo devoto del figlio, della figlia, verso la madre è un fatto originario, non ha bisogno della mediazione di un terza persona. La madre è invece necessaria come mediatrice, per spostare lo sguardo d'amore, di stima, del figlio, della figlia, da sé stessa al padre.

Per questo motivo io e Laura desideriamo interrogarci su come noi donne ci poniamo di fronte ai padri e ci preme dire che non siamo d'accordo con la lettera pubblicata su VD intitolata Il posto dei padri, in cui si riprende la tesi del libro Uomini e padri. L'oscura questione maschile di Giuditta Lo Russo. In quella lettera si risolve la questione sul posto del padre affermando che la figlia e la madre non escludono il padre perché avvertito come bisognoso: "se no - i padri - sarebbero troppo soli e non saprebbero dove andare", dice la bimba della lettera. Non viene nominato alcun guadagno, alcuna ricchezza dalla relazione con il padre. Non lo si immagina neanche come possibile polo di curiosità, attenzioni, carica erotica.

Ma io mi chiedo: "Solo facendo leva sulla nostra bontà, su un presunto altruismo femminile, gli troviamo un posto?"

Io penso invece che l'esclusione del padre implica elidere una parte di sé. Dal momento del concepimento noi ci portiamo dentro sia il padre che la madre, che per metterci al mondo ci hanno, anche solo per un breve istante, desiderato. La dimensione di desiderio da parte della madre, prima della nascita del figlio, è uno dei nodi da tenere a mente. Se nella mente della madre, con la nascita del figlio, non c'è più spazio per altro, c'è solo l'essere madre e non anche donna, se non c'è spazio per il padre, anche in quanto uomo, se non c'è spazio per il mondo segnato dalla differenza sessuale, c'è il rischio che il rapporto con il figlio, con la figlia, si chiuda. Posizione che relega la madre alla esclusiva funzione di cura, mentre favorisce nell'uomo un ritiro di stampo autistico. Il rischio quindi di convogliare nel rapporto con i figli anche tutto l'eros che precedentemente si era espresso nel rapporto con il padre dei suoi figli diviene un punto di massima contraddizione, proprio perché la nostra politica non rinuncia al legame con il corpo e con gli interrogativi che la sessualità porta nella relazione tra sessi e tra generazioni.

Perciò riguardo alla domanda della lettera di VD "Quale posto ha il padre?", che diventa per me "quale posto la madre, la donna assegna al padre, da una posizione di libertà", è cruciale l'intuizione con cui il femminismo della differenza pone l'accento sul desiderio, oltre alla cura, come motore della curiosità verso l'altro.


Marco Deriu: "vorrei raccontare delle ricerche e degli interrogativi che mi hanno guidato nelle riflessioni sulla paternità. Questioni che, per me, nascono in parte da interrogativi legati alla mia biografia e, in parte, da una curiosità che riguarda il rapporto tra generazioni, cioè in che misura stia modificando la paternità e in che misura il maschile possa cambiare anche pensando una trasformazione tra generazioni di uomini, tra genealogie maschili. La mia prima curiosità è nata proprio dalla questione di come gli uomini di oggi si rappresentino e si sentano in rapporto alle donne, ma anche in rapporto agli uomini, ai padri da cui provengono. La prima cosa che vorrei dire è generale: la riflessione sul padre non può che partire del fatto che avviene in una situazione di forte cambiamento, quello che avete nominato come fine del patriarcato che è anche la fine di un ordine simbolico in cui la figura del padre era molto forte. Questo si evidenzia in una situazione generale di spaesamento, di incertezza che vivono gli uomini, i padri, in cui compaiono dimensioni problematiche di disagio e di difficoltà.

Le mie ricerche sono partite da un'osservazione: in alcuni servizi dell'Emilia Romagna le operatrici e gli operatori dei centri famiglia o dei centri per adolescenti si rendevano conto che ogni volta che c'erano delle difficoltà nei ragazzi, sia che si trattasse di violenza, sia che si trattasse di disagio, droghe ecc. mancava o non interveniva mai il padre. Non c'era insomma un intervento diretto della figura paterna. Era molto difficile contattarlo, entrare in rapporto con lui. Mi sono chiesto, una parte della ricerca era proprio su questo punto, in che misura questa difficoltà, questo disagio dei figli raccontasse di una comunicazione interrotta tra generazioni diverse di uomini.

Da una parte difficoltà e disagi dall'altra un'occasione. Perchè un'occasione? Perchè una situazione in cui vanno in crisi i modelli di riferimento coincide con una situazione in cui, per la prima volta, gli uomini, ma nello specifico i padri, non si pensano più come autotrasparenti, come autoevidenti. Quindi c'è tutta una dimensione di interrogazione, di riflessione, in parte consapevole e ricercata, in parte inconsapevole e comunque agita, che secondo me è qualcosa di molto nuovo e può essere raccontato da molti punti di vista. Questo aspetto ha anche un legame con un altro fatto, cioè l'idea che non c'è più un modello di padre che si trasmette di generazione in generazione, un modello che quindi i nuovi padri assumono, ereditano, indossano ma c'è qualcosa di diverso. La mia impressione è che in gran parte la figura paterna e anche il tema di un'eventuale autorevolezza paterna non è più qualcosa che viene recepito da una struttura sociale o che viene recepito da modelli precostituiti, ma è qualcosa che si gioca, che emerge che si può costruire solo nelle relazioni. Questo mi sembra un aspetto molto interessante perché è come dire che i padri di oggi, in qualche modo, imparano a fare i padri in maniera molto più esplicita che in passato confrontandosi con tre tipi di relazione: la prima è una relazione che riguarda il rapporto tra generazioni di padri, cioè il rapporto del nuovo padre con il padre che ha avuto e con l'esperienza che ha avuto come figlio, deve fare i conti insomma con il proprio universo maschile. Il secondo è il rapporto con l'altro sesso, sia nella dimensione della relazione con la madre sia nella dimensione del rapporto con la partner. Il il terzo è il rapporto con i propri figli, che terrò un po' sullo sfondo, che però è molto importante anche questo. Non c'è più una gerarchia rigida, c'è un modello molto più complesso in cui anche i padri imparano qualcosa dai figli. In tutti i tre i casi, che per me sono sfide relazionali, il farsi padre è qualcosa che emerge in fieri, emerge nelle relazioni, e di questo molti padri iniziano ad essere consapevoli.

Un accenno rapidissimo alla questione delle genealogie maschili. In tutte le ricerche che ho fatto, interviste, focus group, ma anche molti gruppi di padri e, separatamente, di madri di bambini di scuole di infanzia, emergeva in modo molto forte che uno dei conflitti che questi padri avevano nella loro esperienza e storia era nel rapporto con il proprio padre, un conflitto doloroso, faticoso. Si trattava di un'esperienza di padri ingombranti, in qualche caso violenti, in altri casi invadenti, pesanti non rispettosi e per un altro verso distanti. Il confronto con questo tipo di padri più vicini al patriarcato ha avuto un peso molto forte nella vita di queste persone e nel loro modo di ripensare in qualche modo la paternità. Questo da due punti di vista. Molti di questi padri tendono a prendere le distanze dai padri che hanno avuto in una modalità nuova, che non è più quella del conflitto aperto, esplicito e dichiarato in stile Sessantotto, l'idea dell'uccisione simbolica del padre. Secondo me non c'è tanto questa modalità oggi, quanto invece molto di più una presa di distanza che passa attraverso forme di silenzio, assenza di verbalizzazione da certi punti di vista. Il che, in alcuni casi può significare un passaggio all'atto, in altri una chiusura sul piano della comunicazione molto forte. E quindi, secondo me, anche qualcosa di più radicale che non un conflitto come lo pensavamo un tempo. Questo apre a dei problemi che ho cercato di indagare un po'. Trovo che ci sia un nodo non facile da sciogliere: molti dei nuovi padri che cercano di essere padri diversi da quelli che hanno avuto, che cercano di prendere le distanze, secondo me fanno fatica a comprendere che non ci si costruisce a tavolino, che non ci si autodetermina razionalmente, che non c'è nessuna libertà e nessuna possibiltià di fare esperienze diverse se non si sta nelle relazioni, se non ci si interroga, se non si diventa competenti nelle relazioni, nelle storie, nelle trame da cui si proviene. Qui c'è un'apparente discontinuità, ovvero la presa di distanza dai padri, ma anche una continuità perché mi sembra che riconfermi questo tentativo tipicamente maschile di autodeterminarsi senza prendere coscienza dell'importanza delle relazioni. La seconda sfida è quella del rapporto con l'altro sesso. Due gli elementi che mi hanno colpito: il primo è che moltissimi padri citano come modello di riferimento le madri.

Leggo un piccolo frammento di intervista di un padre cinquantenne che dice: "Se devo valutare l'atteggiamento di mio padre nei miei riguardi nella primissima età, direi che è pari a zero, anche perché la divisione tra ruoli maschili e femminini era totale. Mio padre è un grande assente io sto cercando di essere un grande presente. Ricordo delle sue prese di posizioni assurde, io oggi sono uno che cerca di ragionare fin troppo. Mi accorgo che sto cercando di creare un tipo di rapporto che è quasi all'opposto di quello che ho avuto io. Io sono lo controfigura di mia madre che invece c'era e c'è anche oggi. Mia madre mi ha insegnato un patrimonio mio padre era un fallito. Fare figli è stata come un'opportunità ricercata per pareggiare un conto con la vita, significava mettere in campo un modo nuovo di essere padre diverso da quello che abbiamo ricevuto"

Si tratta di una testimonianza estrema, non siamo tutti su queste posizioni, però è molto paradigmatica perché parla del rapporto molto negativo con il proprio padre, dell'assunzione della madre come modello anche di paternità e del rapporto con i figli come occasione di uscire dallo scacco del rapporto con il proprio padre. Questo racconto incrocia le tre sfide di cui vi parlavo: la relazione con i padri, con l'altro sesso e con i figli. Da una parte c'è, anche in maniera forse meno estrema anche con altri padri che ho incontrato, un riconoscimento dell'autorevolezza femminile, dell'importanza e della competenza relazionale nella cura e nella capacità di ascolto e di empatia che molti padri, secondo me, riconoscono e che in parte cercano di far propri. Questo quando c'è in atto un meccanismo positivo. In altri casi questo riconoscimento di una disparità o di una asimmetria nel rapporto madre - padre - figli può essere vissuto come fonte di paura o di gelosia quindi la questione cui accennava Sara prima ovvero sentirsi in qualche modo esclusi o superflui o fuori da una relazione, che può essere percepita come una fortezza inespugnabile nel rapporto di intimità molto stretto che si crea nel rapporto tra madre e figlio. In questi casi ci può essere una reazione sia di tipo aggressivo o competitivo o violento ma anche reazione di fuga e sottrazione. Viceversa mi sembra che questo riconoscimento di un'assimetria, disparità possa funzionare nel momento in cui si riesce a passare dal registro dell'invidia a quello dell'ammirazione, quindi anche a saperlo nominare raccontare, esplicitare e farlo diventare terreno di scambio.

L'ultima cosa che vorrei dire più nello specifico è che ultimamente ho fatto studiato una realtà particolare, quella delle associazioni dei padri separati, un universo particolarissimo che ho incrociato per molti motivi. Ci sono infatti connessioni forti con altre realtà maschili tipo Uomini3000, Maschi Selvatici, Pari diritti per gli Uomini. Ho dedicato quasi un anno di ricerche a viaggiare su internet, perché la maggior parte di queste associazioni lavora con internet o hanno internet come principale nodo di riferimento. Ho avuto occasione di leggere tutti i documenti, testi, dichiarazioni libri, poi di studiare sui giornali le loro uscite pubbliche. Per me è stata una cosa molto interessante perché ho l'impressione che sia un universo di cui sappiamo ben poco. Ho registrato una quarantina di sigle, associazioni a cui corrispondono: alcune sono nazionali e sono molto grandi poi ci sono una serie di locali. Stiamo parlando insomma di un centinaio, o forse di più, di realtà di questo tipo operanti nel territorio italiano. Cito questa questione perché per me si evidenziano alcune cose. Ovviamente nel momento in cui la famiglia tradizionale in qualche modo va in crisi, in cui c'è una libertà femminile dove tutto dipende dal riconoscimento e dalla condivisione al momento della separazione, secondo me la figura paterna mostra ancora di più la sua fragilità e anche l'asimmetria da un certo punto di vista dei ruoli. C'è un conflitto molto esplicito e molto forte di queste associazioni di padri che in parte ha sicuramente dei tratti misogini o antifemmnili molto espliciti in parte però no, in parte corrisponde a una difficoltà, secondo me, dei padri di trovare una collocazione, un loro ruolo, di veder riconosciuto un legame affettivo - emotivo - relazionale. In questo tipo di conflitto ho trovato, per come è strutturato, l'impossibilità di un confronto reale tra uomini e donne. Per questo mi ha interessato e colpito perché da una parte queste associazioni di padri assumono un atteggiamento antifemminile, antifemminista, per cui attaccano tribunali, assistenti sociali, associazioni femministe, accusandoli di essere antipaterni, di voler affossare la figura del padre e di avere un atteggiamento antipaterno; in parte proiettano le loro paure, le proprie angosce come se la figura del padre sia stata sottratta dalle donne. Dall'altra è diventato molto un conflitto di posizione, quindi in sostanza si gioca a chi ottiene di più o riesce ad ottenere di più in questo tipo di situazioni. C'è poca discussione, almeno in questi casi che ho studiato, ma mi pare anche nel dibattito che ho iniziato ad approfondire, sul piano della civiltà delle relazioni che invece secondo me sarebbe l'aspetto più interessante. Mi colpiva l'osservazione che faceva Marina Terragni in uno degli ulitmi numeri di Via Dogana Lo svantaggio maschile. Lo svantaggio maschile non corrisponde affatto a un vantaggio femminile, in questo contesto trovo che sia molto interessante. Mi aveva anche colpito molto la riflessione che faceva Lia Cigarini sulla questione del rischio di voler stravincere in questo tipo di situazioni.

Concludo dicendo che ho identificato tre tipi di paradossi in questo conflitto.

Tre paradossi che spiegano per me perché questo tipo di conflitto non è produttivo.

La cosa che mi interessa è capire la modalità attraverso cui si è strutturato questo genere di conflitti che secondo me parla dello stato delle relazioni tra uomini e donne, padri e madri. Comprendendo come è strutturato si capisce come sia improduttivo e come diventi per me importante riuscire a capire, come uomo, che alternative ho per nominare un desiderio di relazioni affettive tra padri e figli, di valorizzare la figura paterna senza fare una questione di potere".

Deriu racconta poi un fatto curisissimo e paradossale. "Gli uomini delle associazioni in situazioni di difficoltà, di spaesamento adottano il linguaggio delle pari opportunità, dell'uguaglianza. Nel momento in cui si sentono messi da lato allora assumono su di sé il linguaggio delle pari opportunità, tant'è che c'è anche un'associazione che si chiama Pari diritti per gli Uomini. Mi verrebbe da dire che forse la mancanza di un confronto reale sulle relazioni e sull'importanza del riconoscimento del ruolo del padre e dell'importanza delle relazioni affettive nel rapporto tra padri e figli, uomini e donne, si trasforma poi in un rifugiarsi di questi uomini in un linguaggio che è quello della parità e dell'uguaglianza che impedisce perfino di riconoscere quell' asimmetria che in altre situazioni gli stessi padri riconoscono e nominano".


"Vorrei riprendere un paio di spunti prima di dare avvio alla discussione - inizia Laura Colombo - Quando Sara e io abbiamo iniziato a discutere sul posto del padre, avevamo presente il lavoro fatto nel ciclo di incontri in Libreria sulla relazione madre-figlia e anche la domanda che Ida Dominijanni ha posto a Luisa Muraro a proposito de L'Ordine simbolico della madre, un libro dove il padre è un'assenza. Luisa ha poi precisato che si tratta di contestare la necessità della legge del padre e non di precludere la possibilità della figura paterna. Abbiamo sentito l'esigenza di ragionare su questa possibilità, organizzando anche alcuni incontri pubblici in Libreria, e questo è il primo. Vorrei precisare da subito che il senso politico di questi incontri per noi è affrontare la cosiddetta relazione di differenza, la relazione tra i sessi - come diceva prima anche Sara, quando parlava di erotismo. Parlare del padre sta per noi nella prospettiva di affrontare nodi che all'oggi sono impellenti, perché investono fenomeni sociali complessi come la violenza alle donne: quello che ci sta a cuore è una rappresentazione del rapporto tra i sessi lontana dai modelli patriarcali e da quanto propongono i media, e un cambiamento del senso comune per cui la donna non sia colpevolizzata per la sua libertà e l'uomo accetti profondamente - e non solo intellettualmente - lo squilibrio in gioco e l'asimmetria tra i sessi - per esempio quando c'è in ballo il suo desiderio di paternità, quando si toccano i temi che riguardano la vita e la riproduzione, ma non solo, quando si vuole affrontare il diverso rapporto col potere, il lavoro, i soldi…

Voglio precisare subito questa cosa perché il tema è complesso, ed è necessario quindi porre la prospettiva in modo chiaro. Non stiamo parlando della famiglia o di un fantomatico ritorno alla famiglia tradizionale. Sappiamo che esistono famiglie monoparentali e famiglie lesbiche con figli. Non si tratta di sdoganare una famiglia-tipo escludendo pezzi di reale, di esistenza e di esperienza.

Per noi si tratta, come ho già detto, di dare possibilità a una nuova civiltà tra donne e uomini, e di farci carico di un pezzo di storia importante - quella del femminismo - che ha dato molti frutti e qualche contraddizione. Cito ancora Ida Dominijanni che nel suo saggio sull'ultimo libro di Diotima dice: "La differenza oggi […] è data da ciò che noi abbiamo messo o rimesso al mondo della madre, della sua potenza e della sua impotenza, della sua realtà e della sua fantasmaticità, in replica, in mimesi o in differenza dalle tradizionali declinazioni del materno. Dopo quarant'anni di femminismo, la madre non ci sta alle spalle: per l'immaginario sociale, le madri siamo noi. La percezione reale o fantasmatica della madre riguarda direttamente la percezione reale o fantasmatica di ciò che nel femminismo abbiamo detto e fatto; perciò è importante e difficile tentare di decifrarla".

Quando abbiamo parlato con Marco del suo saggio pubblicato nel volume Mascolinità all'italiana - innanzi tutto volevamo prendere sul serio il desiderio di paternità degli uomini, e poi farci carico delle nostre contraddizioni ma anche dei nostri bisogni. I piani naturalmente si incrociano. Marco nel suo saggio mette in luce un triplice paradosso: 1) il primo a carico dei padri che solo per revanscismo reclamano un cambiamento delle regole dell'affido dei figli, mentre in realtà non sono disponibili a una trasformazione radicale delle relazioni tra i sessi; 2) il secondo paradosso in seno alle realtà femministe, che confondono la difesa delle posizioni delle madri nelle separazioni con l'autonomia e la libertà delle donne; 3) il terzo paradosso è lo stallo in cui si trovano donne e uomini che sono realmente interessati a un cambiamento, in questo panorama di contrapposizione sterile.

Il secondo paradosso mi chiama in causa direttamente. A me ha evocato la lettera su Via Dogana di settembre, cui Sara faceva riferimento prima. La cosa che più mi ha colpita di quella lettera è ciò che la madre fa dire alla figlia: la bambina direbbe che è disposta ad accogliere il bisogno del padre, c'è la figura di un padre bisognoso mentre non viene mostrato un bisogno della figlia, perché il rapporto con la madre è tutto il suo orizzonte, è tutto il suo mondo, l'universo in cui la bambina esaurisce il suo desiderio. Mi chiedo se questa sia la realtà, o se diventi una realtà per la bambina a causa del desiderio materno. La madre la interpreta, le mette in bocca le parole, fa sì che la "coppia primordiale" della maternità - quella della madre con la sua creatura - che è una realtà e una necessità per la sopravvivenza della piccola, resti tale, coppia chiusa al desiderio di altro. Mi chiedo: questa è realtà o fantasma materno? Il desiderio della madre - come abbiamo visto anche nel ciclo di incontri sul rapporto madre/figlia e come possiamo leggere nei due libri dedicati all'oscuro materno di Diotima (La magica forza del negativo e L'ombra della madre) - può essere onnipotente, inglobante, un inciampo per la figlia e per la stessa madre.

Mi chiedo anche se questa voglia di stravincere (vedi Via Dogana…) che in qualche modo riporta le ambivalenze dell'onnipotenza materna al centro della scena - a dispetto della lotta delle donne per metterne a fuoco i nodi - non sia una delle conseguenze paradossali del percorso di libertà delle donne, domanda che anche Ida Dominijanni si fa nel sua saggio sull'ultimo libro di Diotima.

Il padre c'entra in questo perché - fermo restando il rapporto del tutto particolare con la madre, l'origine, la fonte primaria di nutrimento - un movimento della madre che comprenda in sé il padre e faccia posto al padre dà una possibilità alla figlia di vedere altre parti di sé, di confrontarsi con l'altro, sempre che ci siano uomini disposti a farlo, e io so che ce ne sono sempre più. E questo punto - ossia un gesto intenzionale della madre che lasci spazio per altro, perché il desiderio di altro si esprima nel rapporto con la sua creatura - è essenziale in tutte le forme che la famiglia ha preso in questi decenni.

Anche nella lettera a Via Dogana si dice che "ai padri bisogna farglielo, un posto", ma lo si fa in nome del bisogno di lui e del non escludere, giustificando questo con un pensiero che tende all'essenzialismo, ossia dicendo che "il proprio della differenza femminile è di non escludere l'altro". Mi risuona di oblatività, che per me è fastidiosa.

Invece io credo che un passo indietro rispetto all'onnipotenza - oltre a far gioco anche alla madre perché le permette che ci sia altro dentro di sé oltre all'essere madre, il desiderio di far politica per esempio, il suo essere donna, l'attrazione per il mondo e le sue sfide, l'eros che si rivolge ad altro - fa spazio anche per la bambina, per un suo possibile desiderio di altro, e permette di far accadere qualcosa di nuovo. Insomma, forse è dal desiderio delle donne che un padre può rinascere. Qui parlo di me come figlia, dell'amore per mio padre che ha sempre rappresentato per me la forza, che lui con un gesto particolare e tutto nostro mi passava nei momenti più delicati per me, e che ora mi restituisce anche la sua fragilità nella malattia. Per me mio padre ha rappresentato un'occasione per entrare in contatto con una parte di me, la possibilità di scovare dentro di me alcune risorse che mi danno forza in determinati momenti difficili, la determinazione di andare avanti nonostante le difficoltà, scoperte importanti che ho potuto fare nella relazione con lui.

Parlo di me anche come madre nel rapporto con un compagno che ha il desiderio di sviluppare una relazione differente con sua figlia, desiderio che io voglio accogliere e rilanciare anche perché mi aiuta a fare i conti con le mie paure/desideri di onnipotenza.

Credo che per le donne che come me sono venute dopo il femminismo, non ci sia solo un bisogno di aiuto materiale da parte dell'uomo, con il rischio che si trasformi in una relazione strumentale, ma un reale desiderio di relazione, perché abbiamo a che fare con molti uomini trasformati come noi dalla rivoluzione femminista. Ne ho esperienza nel gruppo Intercity-Intersex già citato da Sara e di cui anche Marco fa parte.


INTERVENTI DEI PARTECIPANTI


"Volevo portare la mia esperienza perchè sono padre di un maschio di tre anni e mezzo - interviene Stefano Sarfati - e volevo ripartire dall'intervento di Marco Deriu quando parlava dei diversi orizzonti di un padre, quello dell'ordine simbolico paterno piuttosto che di altre situazioni, per dire che io mi ritrovo moltissimo con la dichiarazione di quel padre cinquantenne. Vado quasi sempre dicendo, in riunioni con altri uomini le poche volte che ci sono stato per esempio ad Asolo, che io se c'è un punto fermo che ho è che c'è un unico ordine simbolico che è quello della madre, per cui io quando mi muovo nei confronti di mio figlio ho in mente mia madre. Vorrei dire che non si corre il rischio che entri in competizione con mia moglie, nè che io mi schiacci in un modello che non è poi il mio, perché è ovvio che essendo io un uomo, essendo io il padre, non potrò mai essere la madre. Siccome però l'ordine simbolico è uno ed è quello della madre che ha fatto me, mia sorella oppure, nell'altro caso, ha fatto mia moglie, siamo entrambi figli di madre sappiamo entrambi cos'è la cura materna perché abbiamo avuto l'esperienza di aver avuto la madre e quindi, nel momento in cui io sono padre e lei è madre, il riferimento non può che essere quello. Per cui io mi ritrovo perfettamente nelle parole di questo padre cinquantenne tranne che per la questione della contrapposizione al padre. Il mio è stato abbastanza un buon padre, so che non è stato un buon marito ma questi non sono affari miei. A proposito volevo dire qualcosa a proposito della fortezza inespugnabile materna di cui Marco parlava prima. Secondo me ci può essere la fortezza inespugnabile materna nel momento in cui il padre cerca di espugnarla con l'ordine simbolico paterno".


Annamaria Rigoni: "mi sono chiesta quale sia la funzione paterna. Devo dire che non mi sono data una risposta però ho articolato nel tempo altre domande. Volevo riportare un'esperienza che ho fatto negli ultimi anni con dei giovani, sia adolescenti sia giovani uomini e donne dai venti ai venticinque anni. Ho seguito per un certo periodo questi giovani che stavano definendo un proprio progetto professionale quindi stavano delineando, stavano sognando, immaginando, la possibilità di iniziare una vita lavorativa. La cosa che mi ha colpito in questi gruppi è stata una scoperta del tutto casuale, avvenuta parlando nel corso una relazione con loro: quelli e quelle che facevano più fatica a immaginare un progetto lavorativo concreto erano coloro che non avevano alle spalle una figura paterna, che vivevano in famgile monoparentali femminili. Ovviamente io non ho fatto statistiche, non è una cosa scientifica però è qualcosa che mi ha colpito. E' come se, mentre raccontavano la loro possibilità di cominciare un lavoro, facessero fatica a trovare un equilibro tra onnipotenza e impotenza, continuavano a saltare tra frasi del tipo 'io posso fare tutto, ho davanti tutta la vita' oppure 'io non posso fare niente' 'sono uno schifo, il mondo non mi vuole'. Era più facile riuscire a costrurire qualcosa che avesse il senso del limite con coloro in cui riuscivo a intravedere una figura paterna più equilibrata. Questa è una cosa che mi ha colpito, mi ha incuriosito e mi ha fatto sorgere nuove domande. E'come se una figura paterna aiutasse i figli a costruire dentro di sé un senso del limite. Questa non è una cosa volontaria da parte del padre perché comunque il padre rappresenta un limite al desiderio del figlio di avere la madre tutta per sé. E quindi già il fatto che il padre esista, impone fin dalla prima infanzia di considerare che il desiderio di onnipotenza non possa essere soddisfatto e quindi, credo che sia un dato che è indipendente dalla volontà del padre, è un dato che c'è. Questo implica anche forse che gli uomini si assumano il fatto che un po' di conflitto con i figli c'ha da essere. Un conflitto che dev'essere generativo e costruttivo, non un confiltto distruttivo in cui si dimostra qual è il proprio potere schiacciando l'altro ma un conflitto nel quale si indica un limite e se lo costruisce insieme. Queste sono idee nate nella mia relazione con i giovani e nel fatto che uno dei grossi problemi che incontro anche oggi parlando con i giovani è il senso del limite. Una domanda che mi sono fatta è anche se la fuga dei padri non sia in qualche modo complice in questa fatica a trovare un limite".


Io invece volevo fare una domanda - interviene una partecipante - una domanda che riguarda un problema al quale io non so dare risposta, probabilmente non voglio rispondere. Quello che vorrei sapere è se nell'esperienza di Deriu c'è la capacità di cogliere una differenza fra i padri di figli maschi e padri di figli femmine, perché io penso che la paternità si declini in modo molto diverso. Se penso all'esperienza che io ho, che è molto modesta ma molto pregnante, io penso a un padre, il mio, così faticoso da essere a un certo punto da me rinnegato e penso a un compagno così faticoso da essere rinnegato a un certo punto da sua figlia. Ora in quest'ultimo caso e cioè del papà di mia figlia, io vedo, per quanto in un'osservazione superficiale, che il rapporto di quest'uomo con i suoi figli maschi è molto diverso e io so per mia esperienza che con la nascita di mia figlia e poi con il fatto che mia figlia progressivamente diventava grande, io mi misuravo spesso con lei per somiglianza o per differenza e mi riconoscevo in lei probabilmente più di quanto mia figlia non si riconoscesse in me per cui immagino che una relazione padre-figlio maschio abbia caratteri del tutto diversi però sono assolutamente non in grado di darmi delle risposte e vorrei indagare questo tipo di problemi".


Luisa Muraro:"ho ascoltato i tre discorsi, sono d'accordo con molte cose che ha detto Marco Deriu ma ho fatto fatica a innestarmi a un livello più profondo con lui soprattutto perché lo conosco meno. L'unico punto che avrei obbiettato è stato quello che ha rilevato Stefano e cioè il caso estremo del padre, perché così l'hai presentato. Si tratta invece di un caso ordinario ormai: gli uomini imparano la paternità o imitando o le propri madri o le proprie mogli, non hanno altro da fare. Cos'avrebbero altro da fare, non ci sono modelli. Qualcuno allora potrebbe dire 'mi invento, sarò creativo' ma a questi livelli, in queste cose non si è creativi.

Luisa fa un racconto. "Ho avuto uno studente che si è laureato sul tema del cambiamento del rapporto tra i sessi. E' un uomo figlio della madre, molto dolce con una grande tranquillità interna. Ha sposato la figlia del suo datore di lavoro. Suo padre è iperautoritario e tremendo ed è assolutamente inservibile come modello di paternità ma il figlio ha la capacità di modellarsi. Si è fatto figlio del padre di sua moglie e si è inserito come in un vecchio sistema matrimoniale celtico, uno dei meno patriarcali, in cui l'uomo andava a stare casa della donna"

Luisa fa poi riferimento agli interventi di Laura e Sara. "Invece Laura e Sara le ho sentite altre volte parlare di questi argomenti. Vorrei far notare che la posizione di fondo che Sara ha enunciato è proprio scritto ne L'ordine simbolico della madre: la posizione del padre è quella che ha bisogno di essere indicata dalla madre, che poi è la posizione di Lacan: la madre dice: "questo è vostro padre".

Quindi non è che L'ordine simbolico della madre non consideri il padre, lo considera en passant, senza fare teorie su questa figura.

I vostri discorsi li ho sentiti, li sento. In sostanza anche voi, forse anche Annamaria, e tutte le donne che riflettono sul tema della paternità tendono ad assumere in realtà la posizione che avete criticato, cioè quella pietistica ovvero "qualcosa bisogna pur fare di questi, sono qui, vogliono fare i padri li aiuteremo", "Adesso ci mettiamo a pensare cosa può fare un padre". Così facendo non so se salvate la dignità del vostro compagno.

C'è un elemento di materialismo emerso dai vostri discorsi: si passa dall'ordine di questa gratuità, certo compassionevole, un po' velata, a qualcosa cha appartiene alla necessità, cioè voi avete bisogno di un compagno.

Nella società di oggi e anche in quella di una volta, la donna che fa bambini ha bisogno di un compagno, non importa che sia il padre naturale, ha bisogno di un compagno degno che tenga conto delle sue esigenze. Voi l'avete detto denegando "Non è una relazione strumentale". E' invece una relazione strumentale ma è strumentale per degli scopi che sono quelli della riproduzione dell'umanità e può diventare non più strumentale nella misura in cui si inserisce stima, affetto, riguardo. Solo, si dà il caso, che per quattromila anni, forse anche di più, gli uomini di qusta necessità materiale hanno fatto quello che sappiamo, cioè un dominio. Non dico che gli uomini se ne sono approfittati, sembra una storiella buffa, ma è un fatto che è capitato ovvero che la donna abbia pagato questa necessità. Lo vediamo, lo abbiamo visto, le donne hanno pagato il bisogno in cui erano di un compagno con la soggezione e tutto un insieme di cose. La fine di questa faccenda non è venuta dagli uomini, neanche da Freud, da Jung bensì dal femminismo separatista. Anche questo è un fatto materiale. Voi potete interrogarvi generosamente di che cosa ne facciamo di questi nostri compagni, che si dà il caso siano anche i padri fisologici delle nostre creature, lo potete fare perché siete in una botte di ferro, siete in una posizione di forza. Altrimenti non lo potreste fare, ci penserebbero loro a piazzarsi dove conviene meglio.

Questa brutalità che io porto, questi elementi, non vogliono dire che non è possibile la questione che nominava Marco e cioè accedere a un discorso relazionale. Deve esser possibile questa cosa, però tutta la faccenda, che io conosco benino perché, a suo tempo, ho avuto momenti di scambio e scontro con le associazioni dei padri separati, è altamente istruttiva e Marco ha fatto bene a nominarla. Rende l'idea di che cosa la questione tende a diventare quando non c'è più legame amoroso. Io sono anche disposta ma allora torniamo alla compassione, bisogna avere compassione degli uomini separati perché a volte si sono veramente affezionati alle loro creature e i guidici con il buon senso e con il minimo di equità che la fine del patriarcato ha reso possibile non gli concedono più di tanto. Sappiamo per altro che la nostra cronaca nera è funestata da comportamenti abberrranti di padri a cui erano stati affidati i figli da giudici sconsiderati. Quindi questa è la situazione io ce la metto la compassione e non è un sentimento spregevole.

L'ulima considerazione materialistica: in effetti qualcosa bisogna fare dei padri perché le società dove le donne non si sono ingegnate abbastanza di far qualcosa degli uomini, cioè di farne dei padri, come l'America Latina, sono in preda a gravi forme di disordine: un'umanità maschile fa coito, produce bambini, non si assume la responsabilità, poi vaga facendo malefatte di vario tipo. Non voglio cadere in stereotipi però la società dell'America Latina, secondo me, per colpa di come è nata cioè della terribile invasione spagnola e portoghese (non che siano malnati loro, è un fatto storico), è sempre in preda a un grave disordine. Qualcosa di simile avviene anche in Africa. Sono le donne celtiche che hanno saputo far diversamente con un contratto minimamente libero e le donne mediterranee con la soggezione pesante agli uomini. Poi la borghesia certo ha prodotto questo grande cambiamento, l'idiolatria del lavoro da parte degli uomini li ha 'fregati' perché le donne si sono 'zompate' e li hanno fatto lavorare a man bassa. Adesso questo è finito perché adesso lavorano a man bassa anche le donne. C'è un materialismo in queste cose che io ho ricordato così, ho anche però afferrato i desideri. Qual è l'elemento desiderante che in tutte queste cose che ho ascoltato da voi? Ho sentito affiorare uno e uno solo anche in Ida Dominjanni: i sentimenti di figlie innamorate del padre, quello è il fattore desiderante".


"Mi lascia perplesso parlare di fine del patriarcato da una parte e l'affermazione che l'ordine simbolico è solo materno dall'altra - è l'inizio dell'intervento di Lorenzo Bernini -. Partiamo da questa seconda: è vero che Lacan sostiene che la madre afferma: "questo è vostro padre", però Lacan dice molto altro sul ruolo paterno. Il ruolo paterno è il ruolo del terzo differenziatore che è stato evocato già due volte negli interventi che mi hanno preceduto, cioè è colui che interviene nel rapporto simbiotico madre - figlio. Il padre simbolico di Lacan apre al figlio l'accesso al mondo discaccandolo dalla simbiosi onnipotente con la madre. Allora ponendo che il patriarcato sia finito, di cui io ho dei dubbi, mi sembra che nell'intervento di Deriu, siccome il patriarcato è finito e l'ordine simbolico è solo quello materno a chi ha avuto la sventura di nascere con un corpo maschile e di essere attratto dalle donne con cui fare figli non può fare altro che cercare di imitare un modello femminile nel rapporto con i figli.

Le alternative che si aprono sono due: ci sono uomini più cattivi di altri come quelli delle associazioni divorziati che cercano di accedere a una cultura dell'uguaglianza, di rivendicarla per sé, ma poi non riconoscono la differenza femminile e non vanno fino in fondo nell'accettazione della cultura della relazione. Poi ci sono gli uomini più bravi che si limitano a cercare di avere con i loro figli un rapporto modellato sulla relazione materna. Visto che il riferimento culturale è anche psiconalitico dato che è stato citato Lacan, io mi chiedo: la funzione del padre simbolico chi la svolge se gli uomini buoni imitano la madre? Se l'universo simbolico è solo femminile, è prevista una funzione differenziatrice, qualcuno che pone dei limiti al narcisismo del bambino e alla fusionalità tra bambino e madre?

Qualcosa di questa funzione non deve per forza essere svolta da un uomo, ma qualcosa di questa funzione forse, se uno fa dei figli per amore, bisognerà reintrodurre all'interno della relazione genitoriale, non è detto che devono esser gli uomini a farla. Credo, anche se c'è la fine del patriarcato, che questa funzione vada buttata a mare".


Laura Colombo risponde sulla questione della fine del patriarcato. "In realtà per me si tratta del fatto che io, dentro di me, non do più credito alle forme patriarcali. Nel momento in cui io non do più questo credito, non esiste più. Questo non significa che non esistano dei problemi nella società. Il fatto che ci sia solo l'ordine simbolico materno l'ha detto Stefano non l'abbiamo detto noi."


Stefano Sarfati interviene su quest'ultima questione "Io parlo sempre a partire dalla mia esperienza di avere un maschio di tre anni e mezzo ed è proprio un caso calzante. Io sostengo che l'ordine simbolico sia uno per uomini e per donne ed è quello della madre. Quando cerco di fare il mio lavoro di cura verso mio figlio mi ispiro quello che so fare, e quello che so fare l'ho imparato da mia mamma. Questo non vuol dire che mio figlio abbia due mamme. Mio figlio ha una madre e un padre e io posso essere un padre che ha imparato il lavoro di cura da una madre che ha ben saldo questo fatto dell'ordine simbolico materno unico per me, per mia moglie e mia sorella. Avere il ruolo di cui parla Lacan, pensando alla mia esperienza, non so quanto sia fondamentale, ogni tanto devo dire che intervengo ma non intervengo perchè vedo narcisismo che si avvita su di sè all'infinito in mio figlio. Penso che ci possano essere situazioni differenti di caso in caso ma comunque sia a me è capitato di intervenire, per cui l'unica cosa che volevo risponderti è questa: ci può essere il padre che sta nell'ordine simbolico della madre e che contemporaneamente ha il ruolo di cui parlava Lacan e di cui parlavi tu."


Marco Deriu. "Considero gli interventi che sono stati detti di per sè interessanti, significanti e molto arricchenti"

Marco inizia il suo intervento con la questione del patriarcato. "Personalmente ritengo che il patriarcato sia finito, nel senso di un ordine che non riceve più l'autorizzazione o il riconoscimento che aveva prima e questo si vede in tantissimi aspetti del vivere sociale su cui possiamo parlare. Non ritengo che l'ordine simbolico sia solo materno, penso che non è detto che all'uomo resti solo la possibilità di assumere il modello materno. Nell'esperienze che ho incontrato molti padri hanno fornito modelli positivi e quindi lì il problema non si pone negli stessi termini. Ma per molti si pone, come in quell'uomo del racconto che ho fatto prima in cui il modello materno è o unico o di principale riferimento, per cui credo che ci possa essere qualche problema nell'assunzione imitativa di quel modello, però ritengo che di lì si debba passare nella situazione in cui non ci sono altri modelli di riferimento. Non finisce lì per me. Ho parlato della possibilità di sperimentare, quando dico di sperimentare intendo proprio esperire e poi caso mai di ragionarsi nel mentre si fanno esperienze, sperimentare a posteriori una modalità di vivere la maschilità, la paternità in relazione. Quindi queste tre sfide relazionali di cui parlavo prima sono molto importanti, sono percorsi credo in cui si possa vivere la propria maschilità, paternità, in modo diverso nella misura in cui si accetta di avere uno scambio, un confronto differente con la propria storia di relazioni, quindi con il proprio padre e i propri universi familiari ma in particolare per quello che riguarda il maschile con i propri padri. Credo che altrettanto importante sia assumere un confronto con le donne, con l'altro sesso, e che questa sia un'occasione molto forte per conoscersi, per essere visti e per costruire un rapporto dialettico, di dialogo con se stessi e credo anche, la terza cosa di cui prima non ho parlato, che sia molto importante come padre, come adulti, costruire un rapporto di scambio diverso con i figli. Credo che soprattutto nella società in cui viviamo c'è un'esperienza che fanno i più giovani che è diversa da quella che abbiamo fatto noi e credo che una delle sfide nel costruire modelli di autorevolezza differenti stia nella capacità di mantenere una relazione di asimmetria, non scivolare in modelli orizzontali, egualitari cui peraltro molti padri assumono. Ma per me è importante avere in mente che l'asimmetria non è necessariamente una gerarchia che quindi può essere anche un'asimmetria variabile, che ci sono cose che gli adulti possono apprendere dai più giovani. Mi è capitato, avendo lavorato molto con i padri, che finchè chiedevamo che cosa loro avevano dato ai figli uscivano molte risposte ma quando la domanda era che cosa ti ha dato tuo figlio rimanevano ammutoliti, alcuni mi hanno hanno detto che ci avrebbero pensato e mi avrebbero scritto. Non riuscivano a mentarlizzarla questa questione, sono convinto che ci sarebbero state moltissime cose da dire ma non le vedevano, non le riconoscevano perchè non rientra nel tipo di rapporto che un padre si immagina nella sua funzione paterna.

Per tornare alla questione della funzione paterna io ho molta difficoltà a dire qual è la funzione paterna dei padri al di là del fatto che non amo molto la parola funzione.

Credo di poter riferire alcuni elementi che tornano nella mia esperienza, un'esperienza di figlio un po' particolare: ho perso i miei genitori quando ero piccolo, avevo 10 anni, però ho avuto molte figure maschili che per me hanno avuto la funzione del padre o dell'adulto, maschi di riferimento e in molte fasi della vita avere un'autorità maschile di fronte a me per me è stato cruciale.

Una cosa che sento tantissimo, che mi differenzia dalle figure femminili materne è il rapporto con il rischio, il rapporto con il pericolo, la capacità di rischiare, esporsi, non tutelarsi completamente, che naturalmente sono consapevole che può avere sbocchi negativi ma per me anche molti positivi. La capacità di stare in gioco nell'esperienza del reale senza avere come primato assoluto quello dell'autoconservazione o della protezione e quindi avere accesso a tutta una serie di esperienze che il materno che consoco io direbbe: "non farlo, non toccarlo, non provare, non andare". C'è nella mia esperienza un rapporto con il dolore, con le ferite, con un certo tipo di esperienze negative e per me il rapporto con alcune figure maschili è stato importante.

Riguardo la questione dell'esplorazione del mondo, forse un altro elemento che aggiungerei nelle figure maschili e paterne secondo me è l'elemento della ricerca di un senso di giustizia, di un orientamento da un punto di vista etico - morale.

La domanda sulla differenza tra figli maschi, figli femmine, non è la prima volta che mi viene posta e non ho risposte particolarmente intelligenti da dare purtroppo. Credo che ci siano differenze sicuramente perchè entra in gioco con figli maschi una dimensione di competizione mimetica molto forte, che tra l'altro nei nuovi padri è fortissima perchè, nella misura in cui si entra in uno spazio di intimità maggiore, nella misura in cui tante cose vengono condivise, dalla musica ai giochi agli interessi, c'è tutta una dimensione di competizione fortissima che non era ipotizzabile secondo me con padri di decenni fa. Mentre invece nel rapporto con la figlia sicuramente c'è una dimensione erotica, non c'è dubbio, noi abbiamo paura nominarla ma c'è ed è importantissimo che ci sia altrimenti il rapporto della figlia con l'universo maschile risulterebbe molto difficoltoso. Poi l'altro elemento che entra negli automatismi mentali del maschile nel rapporto con le figlie è la dimensione della protezione più forte nei confronti della figlia che del figlio.

Molto sinceremante non ho un'eguale esperienza su questo per dire delle cose intelligenti e originali. Mi viene in mente un saggio di Chiara Zamboni che mi era sembrato molto interessante in cui si interrogava sul rapporto tra padre e figlia, quindi quello potrebbe essere un suggerimento".


Sulla questione del modelli imitativi interviene Sara Gandini: "non credo che si tratti di imitare un modello ma semmai di reinventare, magari sulla base delle relazioni che ognuno di noi instaura, che può essere sia la relazione con la madre che con un eventuale padre. Ma vedo questi giovani uomini, le relazioni che instaurano tra di loro, che cercano di inventare e di mettere in pratica e credo che tutto ciò sia molto importante. Ho visto l'associazione Maschile Plurale. Le relazioni che hanno tra di loro sono importanti anche per me, per come mi pongo anche rispetto questi uomini. E' importante vedere i confilitti che si creano ma anche come si divertono fra di loro, quindi le relazioni tra uomini io credo che possano aiutare a stare in una situazione diversa anche con i figli. Si può reinvetare una civiltà maschile anche basandosi sullo scambio sulle relazioni tra uomini.

Questo può voler dire, e su questo mi interrogo, reinventare un ordine simbolico maschile paterno in dialogo con l'ordine simbolico materno.

Un'altra cosa che mi aveva colpito era la storia di un ragazzo che raccontava di aver avuto un padre molto violento. Anche la relazione con la madre non era stata facile perchè in qualche modo complice di questa situazione. Lui però desiderava instaurare un rapporto con questo padre. Mi ricordo che raccontava che per lui era stato importante recuperare, esperire una sensualità con il corpo del padre e che questo passaggio, il mettersi in gioco in questa relazione con il padre, per lui era stato fondamentale anche per recuperare il rapporto con la madre, quasi ci fosse stato bisogno di passare per il padre per recuperare il rapporto con la madre. Ho trovato un movimento interessante.

Rispetto al rapporto padre - figlio, padre - figlia, credo siano molto differenti tra di loro e fioccano i giochi di specchi come diceva Luisella Brusa.

Con mio padre c'è stata una grossa conflittualità tra me e lui e in parte hanno giocato le sue paure rispetto l'abbandono della madre e della moglie. Quindi nel momento in cui io mi sono separata mi ha 'buttato' addosso tutti i suoi rancori rispetto questo disagio, quindi credo che anche il conflitto tra i sessi si gioca nella relazione padre-figlia".


Carlotta: "Si è parlato adesso della difficoltà dei padri che hanno avuto modelli paterni negativi, anche della lettera di quell'uomo che raccontava di non avere un modello a cui riferirsi per creare un proprio modo di essere padre. Quindi, si diceva, in questo caso, si può ricorrere al buon rapporto avuto con la madre per inventarsi un proprio modello di padre. Mi viene da chiedermi: che cosa avviene invece nel momento in cui è il rapporto con la madre a essere negativo? Le donne non creano il loro materno soltanto in relazione al proprio rapporto con la madre, almeno non credo, quindi mi sembrava molto interessante questa ultima questione riguardante la molteplicità di relazioni, quindi di trovare all'interno di una struttura simbolica, come diceva Lorenzo Bernini, il proprio modo di crearsi un paterno e un materno non riferito semplicemente a dei modelli di padre e madre ma a modelli più ampi. E comunque mi rimane la questione sul materno negativo".


Luisa Muraro racconta di un suo studente - lavoratore sposato che, discutendo su questi temi, ha narrato di come sua moglie abbia acquisito le competenze materne semplicemente restando incinta

"Rispetto come era prima, cioè più di tanto non ne sapeva - diceva lo studente -, è diventata, nel giro di nove mesi, una madre: sapeva tutto e si muoveva bene. Io invece sto imparando piano piano."

"Non ci vuole un modello per essere madre - continua Luisa -: ci vuole un desiderio di esserlo e poi il resto viene. Il rapporto tra una donna e sua madre spesso è non buono o comunque ha delle ombre terribili anche terribilissime. Sono i maschi che devono avere un modello per la paternità. Per diventare madre, mia madre mi ha inconraggiato ma una madre può anche non incoraggiare la figlia nella maternità e questo crea dei problemi, non occorrono modelli, madre si diventa, sono i bambini, i neonati il feto, la situazione che ci fa diventare madri. Poi naturalmente c'è l'arte, Antonello da Messina, ci sono le poesie, c'è tanta cultura che ci fa diventare madri, ed è anche il desiderio di paternità dell'uomo che ci è vicino. E' così che si diventa madri, non con modelli. Invece padri sì, si diventa con dei modelli. Mio figlio non ha avuto il padre vicino e continuava a dirmelo, lui si è sempre crucciato soprattutto perchè vedeva riprodursi un vuoto lì tra lui e i suoi figli maschi".

lunedì 5 maggio 2008

IL RICHIAMO DELL'OMBRA

Piu' di 150 anni fa la filosofia ci ammoniva:


    "l'uomo ricco e' ad un tempo l'uomo che ha bisogno di una totalita' di manifestazioni di vita umana, l'uomo in cui la sua propria realizzazione esiste come necessita' interna, come bisogno" (nota 1).

La propria realizzazione.

E' su questo semplice aggettivo che si gioca la nostra vita.

 


In certi momenti critici dell'esistenza individuale questa influenza degli archetipi sull'Io diviene molto potente e le immagini archetipiche si possono fare riconoscibili, ad esempio, attraverso certi sogni che danno alla crisi una configurazione immaginativa personale, quasi il carattere di un mito individuale:


    "questi sogni si verificano spesso nei momenti o periodi decisivi della vita: nell'infanzia, dal terzo al sesto anno di vita; nella puberta', dai quattordici ai sedici anni; nel periodo di maturazione, dai venti ai venticinque anni; nell'eta' media, dai trentacinque ai quaranta; e prima della morte.

    Essi fanno la loro comparsa anche in situazioni particolarmente importanti psicologicamente.

    Sembra che questi sogni vengano principalmente in momenti o periodi in cui l'uomo dell'antichita' o il primitivo avrebbero ritenuto necessario eseguire certi riti religiosi o magici, per ottenere in tal modo risultati positivi o per impetrare il favore degli dei
    (nota 2)."

 


La trasformazione individuale che la situazione impone, richiede il sacrificio dell'attuale identita', e questo sacrificio puo' avere conseguenze diverse a seconda che sia rifiutato e contrastato o assecondato e investito di senso.

Cosi' si può dire che l'indebolimento della coscienza, l'attenzione alle immagini emergenti possono svolgere il ruolo di un rito di iniziazione–passaggio.

Un rito che puo' essere celebrato, ad esempio, anche attraverso l'analisi.

Come in ogni rito di iniziazione–passaggio, il protagonista e' un eroe, o un aspirante tale, e cosi' ecco che il "ciclo dell'eroe" deve essere nuovamente ripercorso, con nuove separazioni, nuove prove, nuovi tesori.

Chi fosse interessato puo' cercare il teso di J. Campbell "L'eroe dai mille volti" (Feltrinelli, Milano, 1958), molto interessante quanto introvabile.


Questo processo inizia generalmente con una lacerazione della personalita' e con la sofferenza che ne consegue.

Questo turbamento iniziale costituisce una sorta di "chiamata", anche se non sempre ci si rende conto di cio', ma, al contrario, l'Io si sente colpito nella sua volonta' o nei suoi desideri, e di solito proietta l'ostacolo nell'ambiente esterno, cioe' accusa Dio o la situazione economica, o il coniuge, e accolla a essi la responsabilita' di cio' che lo contrasta.


Queste costruzioni fittizie sono funzionali alla propria sopravvivenza poiche', se l'individuo accetta di "tradirsi", di nascondere a se stesso la propria intimita', la propria interiorita', ciò avviene perche' questo appare in quel momento l'unico sistema possibile per contenere le proprie tensioni interne.

Egli cosi' puo' convivere con questa forza negativa, regressiva, senza dare ascolto alla sua voce conturbante e perturbante che vuole indurre la coscienza a volgersi, a chinarsi, verso l'oscurita' da cui proviene.


Puo' anche darsi che, visto dall'esterno, il soggetto presenti un aspetto sereno, ma sotto la superficie soffre.

Magari di una noia mortale che rende tutto vuoto e privo di senso. Molti miti e racconti di fate descrivono simbolicamente questo grado iniziale del processo, quando parlano di un re che si ammala o diviene vecchio, oppure di una coppia regale sterile, o di un mostro che porta via dal regno tutte le donne, i bambini, i cavalli e tutta la ricchezza, o di un demone che impedisce all'esercito o alla nave del re di proseguire verso la meta, o dell'oscurita' che si estende sul regno, o di ogni sorta di catastrofe che arrivi ad affliggere il paese.


L'uomo in queste condizioni e', per restare nella metafora, come il sole che, raggiunto il suo apogeo, inizia l'ineluttabile discesa verso l'abisso da cui era sorto: la forza contro cui ha lottato fino a quel momento per affrontare le incombenze della vita, forza che si era col tempo indebolita e sembrava sconfitta, dimenticata, adesso, sara' l'eta', sara' la situazione del momento, riemerge nuovamente potente ad attirarlo verso le sorgenti un tempo abbandonate, e cosi:


    "si sviluppa una resistenza contro la tendenza al calo, in ispecie quando si sente che vi e' qualcosa in se stessi che vorrebbe obbedire a questo movimento, giacche' a ragione si intuisce che ls sotto non vi e' nulla di buono, ma qualcosa di oscuro, di detestabile e di minaccioso.

    Si avverte uno slittamento e si comincia a combattere contro questa tendenza e a difendersi contro la montante oscura marea dell'inconscio e la sua seduzione a regredire, che si paluda ingannevolmente di sacrosanti ideali, princìpi e convincimenti.

    Volendo sostenersi all'altezza raggiunta, occorre fare uno sforzo continuo per mantenervi la propria coscienza e l'atteggiamento da essa assunto.

    Si fara' pero' l'esperienza che questa lotta encomiabile e apparentemente indispensabile porta con il trascorrere degli anni a un inaridimento e a una lignificazione interiori.

    I convincimenti divengono banalita' trite e ritrite, gli ideali rigide e inveterate abitudini e l'entusiasmo gesto automatico.

    La sorgente dell'acqua di vita fluisce ormai a gocce.

    Se non saremo noi ad avvedercene, sara' il prossimo a farlo, e cio' e' penoso.

    Solo che ci arrischiamo a gettare uno sguardo dentro di noi, non disgiunto eventualmente da uno slancio di rara onesta' per lo meno di fronte a noi stessi, potremo avere una vaga idea di tutti i bisogni, i desideri, le ansieta' che vi stanno ammassati - uno spettacolo tetro e ripugnante.

    [...] il daimon pero' ci precipita nell'abisso e fa di noi dei traditori di quelli che fino a quel momento erano stati i nostri ideali e i nostri piu' nobili convincimenti, anzi di cio' che noi presumevamo di essere.

    Questa e', a dirla schietta, una catastrofe, in quanto e' un sacrificio non voluto.

    Le cose pero' vanno diversamente quando il sacrificio e' volontario.

    In tal caso esso non significa piu' crollo, 'sovvertimento di tutti i valori', distruzione di tutto cio' che un tempo fu sacro, ma trasformazione e conservazione
    (nota 3)."

 


Trasformazione e conservazione, dunque.

L'individuo puo' accettare la sfida del proprio destino e affrontare il rischio del distacco da cio' che gli era caro e del "tradimento" di cio' in cui credeva:


    "Quando si abbandona tutto cio' che si e' costruito, per volgersi verso altri orizzonti, si da' ascolto a una voce maturata dentro di se'.

    Quello che a un osservatore esterno puo' apparire il risultato di coincidenze fortuite, e' invece il risultato di un lungo lavoro psicologico sulle proprie ferite, di una sofferta elaborazione delle problematiche interiori.

    Solo il paziente riandare alle immagini, ai complessi puo' consentire di udire la chiamata e di mutare il corso della propria vita.

    Coloro i quali sono riusciti a esprimere in modo creativo la loro dimensione interiore hanno sperimentato questo richiamo proveniente dalle profondita' dell'anima.

    Gauguin lascio' il suo lavoro di impiegato, la moglie, i figli per vivere in Polinesia, in quel mondo primitivo, naturale, incontaminato che aveva sempre sognato, e nel quale pote' esprimere la ricchezza delle sue immagini inconsce.

    Le magiche fanciulle dipinte nei suoi quadri, con i loro sorrisi, la naturale sensualita' del corpo, sono forse una delle piu' splendide immagini dell'Anima, dell'Eterno Femminino.

    Ma sono anche il sogno di un Eden del quale l'uomo conserva, dall'origine dei tempi, un nostalgico ricordo.

    Mentre il destino di Gauguin incarna il mito dell'europeo che fugge dalla civilta' alla ricerca di un paradiso personale, quello di Albert Schweitzer illustra una diversa modalita' di realizzazione personale.

    Dopo essere stato uno dei piu' grandi organisti d'Europa, dei piu' sensibili interpreti di Bach, a trent'anni decise di studiare medicina e di dedicare il resto della sua esistenza alla cura dei lebbrosi, nell'Africa equatoriale francese.

    Nel suo caso la chiamata si esprime attraverso una forma di pietas.

    Per ciascuno di noi il destino e' racchiuso in questo richiamo che pone di fronte a un bivio.

    Da una parte c'è la vita, l'autenticita', la capacita' di accogliere e rispettare le nostre piu' profonde esigenze, mentre dall'altra non si trova che la morte interiore, la sterilita', la paralisi.

    Soltanto chi ha avuto il coraggio di compiere una scelta decisiva, abbandonando un'esistenza divenuta ormai troppo angusta, soffocante e inadeguata, puo' aiutare gli altri a procedere nel cammino di individuazione.

    Lasciarsi dietro le vie conosciute per seguire una nuova strada ha in se' una tragica bellezza, racchiusa nel fatto che la meta non e' mai visibile.

    Cio' che conta e' il percorso.



    Si tratta a volte di decisioni difficili, poiche' non si ha mai la certezza che quella che stiamo per intraprendere sia la strada giusta, la nostra.

    In tali momenti e' possibile contare solo sull'intuizione avvertita.

    Quando ci si trova in questi momenti cruciali dell'esistenza, ci si accorge tristemente della propria solitudine.

    Non soltanto nessuno puo' aiutarci, indicandoci con chiarezza cio' che e' giusto fare, ma pare anzi che il mondo esterno ci ostacoli.

    Dobbiamo lottare contro la famiglia, contro chi ci sta accanto e vorrebbe, per pigrizia o egoismo, rinchiudere la nostra esistenza in schemi prestabiliti.

    Non sempre sono le nostre paure, i nostri dubbi, le incertezze a frenarci, poiche' la vera e piu' ardua lotta siamo spesso costretti a ingaggiarla con coloro che ci circondano, per i quali il nostro agire rappresenta un severo monito, un muto rimprovero.

    La nostra capacita' di trasformarci, rischiando tutto cio' che abbiamo costruito fino ad ora, costituisce una segreta accusa nei confronti della paura che li ha paralizzati, impedendo loro di ascoltare la voce dell'inconscio.

    L'ostilita', la sfiducia, l'ironia, con le quali vengono accolti i nostri tentativi, somigliano a volte a una sorta di silenzioso complotto, il cui scopo e' quello di impedirci di intraprendere la nuova scelta.

    Rispondendo a una voce interna, invece che a una scelta standardizzata, per la prima volta ci comportiamo da individui che si distaccano dai parametri del collettivo, per obbedire solo alla voce interiore.

    Dal momento in cui nasciamo veniamo eterodiretti, dapprima dai progetti dei nostri genitori, poi da quelli dell'ambiente in cui viviamo.

    Soltanto quando operiamo delle scelte personali diventiamo autodiretti.

    Nell'immaginario collettivo questa capacita' di auto–dirigersi, di essere responsabili delle proprie decisioni, e' raffigurata dal mito di Ulisse.

    Nei dieci anni del suo peregrinare, egli incontra e ama delle creature bellissime: ninfe, maghe, o donne mortali.

    Ma deve sempre abbandonarle, per seguire il suo destino, quel richiamo inconscio, personificato da Ermes.

    Ulisse e' la perfetta incarnazione dell'uomo spinto dal suo demone interiore, quel demone che costringe l'individuo creativo a seguire sempre la propria strada, rimanendo fedele a se stesso, nonostante il dolore arrecato a se' e agli altri.

    Troncare gli affetti, voltare le spalle al mondo che noi abbiamo costruito, e' terribile, perche' non abbiamo nessun altra giustificazione, all'infuori della fedelta' a noi stessi.

    Tale modalita' di agire equivale al tradimento.

    Cio' che io tradisco, voltandogli le spalle, e' il collettivo.

    Si capisce allora come in tali situazioni si venga assaliti dai rimorsi, dai dubbi, dai sensi di colpa
    (nota 4)."

Tradire va inteso dunque in questo contesto come il liberarsi dai lacci e dai vincoli che, sotto la maschera della fedelta' e della coerenza, nascondono il volto del conformismo e della paura di cambiare ed emanciparsi.

Incontrare se stessi non e' pero', come tutti sappiamo, ne' un’operazione facile ne' un'esperienza piacevole, anzi buona parte delle nostre energie le spendiamo ad allontanare dai nostri occhi lo specchio che ci mostrerebbe la nostra vera immagine.

Ma la vita spesso ci pone l'obbligo di non volgere piu' altrove lo sguardo e affrontare il confronto con noi stessi.


    "Chi guarda nello "specchio" dell'acqua vede per prima cosa, e' vero, la propria immagine.

    Chi va verso se' stesso rischia l'incontro con se' stesso.

    Lo specchio non lusinga; mostra fedelmente quel che in lui si riflette, e cioe' quel volto che non mostriamo mai al mondo, perche' lo veliamo per mezzo della Persona, la maschera dell'attore.

    Ma dietro la maschera c'e' lo specchio che mostra il vero volto.

    Questa e' la prima prova di coraggio da affrontare sulla via interiore, una prova che basta a far desistere, spaventata, la maggioranza degli uomini.

    Infatti l'incontro con se' stessi e' una delle esperienze piu' sgradevoli, alle quali si sfugge proiettando tutto cio' che e' negativo sul mondo circostante.

    Chi e' in condizione di vedere la propria Ombra e di sopportarne la conoscenza ha gia' assolto una piccola parte del compito: ha perlomeno fatto affiorare "l'inconscio personale".

    Ma l'Ombra e' parte viva della personalita' e vuole vivere con lei sotto qualche forma.

    Non e' possibile impedirle di esistere con argomenti, ne' con altrettanti argomenti la si puo' rendere anodina.

    Questo problema e' estremamente difficile poiche' non soltanto mette in causa l'uomo intero, ma gli ricorda al tempo stesso la sua miseria e la sua incapacita'.

     


    Le nature forti - o dovremmo piuttosto dire deboli? - non amano sentirsi porre questo problema; preferiscono quindi escogitare un qualche eroico "al di la' del bene e del male", e tagliano il nodo gordiano invece di scioglierlo.

    Ma presto o tardi il conto deve essere saldato e siamo costretti a confessare a noi stessi che esistono problemi assolutamente insolubili con i nostri soli mezzi.

    Una simile ammissione, che ha il vantaggio di essere onesta, sincera e reale, permette di porre la base di una reazione compensatoria dell'inconscio collettivo; ecco che adesso ci sentiamo inclinati a prestare orecchio a un'idea utile o a percepire pensieri cui prima non permettevamo di formularsi.

    Faremo magari attenzione ai sogni che si presentano in quei momenti o rifletteremo a certi fatti che ci accadono proprio allora.

    Se si assume una simile posizione, forze soccorritrici che sonnecchiano nella natura umana piu' profonda si destano e intervengono, poiche' miseria e debolezza sono l'esperienza eterna e l'eterno problema dell'umanita', al quale esiste anche un'eterna risposta; altrimenti l'uomo sarebbe gia' da tempo perito.

    Quando si e' fatto tutto quello che si poteva fare, non rimane altro che quello che si potrebbe ancora fare, se si sapesse.

    Ma quanto sa di se' stesso l'uomo?

    A quel che ci dice l'esperienza, ben poco. Percio' rimane ancora molto spazio per l'inconscio. [...] L'incontro con se' stessi significa anzitutto l'incontro con la propria Ombra.

    L'Ombra e', in verita', come una gola montana, una porta angusta la cui stretta non e' risparmiata a chiunque scenda alla profonda sorgente (nota 5)."



Rispondere alla chiamata del Daimon, tradire la propria appartenenza, andare incontro a se stessi, al contrario della maggior parte delle persone per le quali il lato oscuro della personalita' rimane al livello inconscio, rendersi conto inevitabilmente che l'Ombra esiste, ma anche che puo' essere una risorsa.

In altre parole, prima che l'Io possa affermarsi e' necessario che esso riesca a dominare e ad assimilare l'Ombra, che proceda verso l'individuazione. "Hai cercato il carico piu' pesante e trovasti te stesso!" grida Nietzsche: il drago che l'eroe deve affrontare e' accucciato dentro la sua armatura.


L'atto eroico consiste dunque prima di tutto nel rispondere alla chiamata del proprio Daimon, del proprio centro interiore, cioe' nel riconoscere e accettare il richiamo del proprio profondo, del proprio inconscio, che e' come il richiamo di un tesoro seppellito, affondato, e' il grido d'aiuto di parti di noi che vogliono venire alla luce, alla coscienza, che vogliono "vivere con noi". Perche' sono noi.

Cosi come l'eroe si avventura nel mondo sconosciuto e pieno di insidie mortali, l'io "sprofonda" nelle tortuose viscere della sua natura.


L'eroe riesce nel suo intento rinascendo.

Per far cio' deve penetrare in fondo alle sue origini e venire nuovamente alla luce (Campbell), deve penetrare nell'inconscio divoratore, deve subire la trasformazione che lo fa accedere alla sua vera natura e lo fa rinascere come un "altro".

Egli rinasce qualitativamente diverso da come era, la trasformazione che subisce nel combattimento col drago lo glorifica, lo trasfigura, lo divinizza.

Solo l'Io-eroe riesce a vincere la paura che l'inconscio-drago incute.

Vincere il potere dell'inconscio uroborico che non permette il distacco da se', il raggiungimento di un'adeguata autonomia psicologica, di una propria, libera realizzazione.


Note

1) K. Marx, Manoscritti economico–filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 1968, III manoscritto p. 123, cit. - A. Carotenuto, Senso e contenuto della psicologia analitica, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, p. 36

2) C.G. Jung, Psicogenesi della schizofrenia, in Opere, vol. III, Psicogenesi delle malattie mentali, Boringhieri, Torino, 1971, p. 254

3) C.G. Jung, Simboli della Trasformazione, in Opere, vol. V, Boringhieri, Torino, 1970, pp. 348-349

4) A. Carotenuto, La chiamata del daimon, Bompiani, Milano, pp. 144-145

5) C.G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, pp. 38-40






Enrico Palumbo