sabato 17 maggio 2008

La via personale tra Edipo e identificazione


Gabriella Mariotti

Nelle riflessioni di cui vi parlerò, riprendo in particolare un aspetto che è emerso anche nelle relazioni che mi hanno preceduta: l’intento di integrare, con il concetto di persona e nel concetto di persona, consapevolezza e autenticità. Sono due elementi che spesso dai nostri pazienti abbiamo sentito definire come inconciliabili, se non addirittura antitetici: consapevolezza in questi casi finisce per diventare sinonimo di una sorta di triste ragionevolezza che spegnerebbe la cosiddetta spontaneità, la quale, peraltro, spesso non è altro che narcisistica e imperiosa pretesa di "scaricare" qualsivoglia tensione interiore. In realtà, è evidente che consapevolezza e autenticità non sono affatto inconciliabili: al contrario, dialetticamente interrelate e integrate, sono l’una "al servizio" dell’altra, nei termini della tensione positiva tra aspetti di sé e tra aspetti della relazione interpersonale. Tanto più laddove, come nel nostro caso, si intenda operare in senso terapeutico.


Parlare di via personale, dunque, soprattutto in questa particolare professione che è l’attività psicoanalitica e psicoterapeutica, implica, a mio parere, l’inevitabile riferimento al punto topico della tensione relazionale e dell’integrazione tra consapevolezza e autenticità: implica cioè riferirci all’Edipo e alle alternative che si pongono, nell’elaborazione del conflitto edipico, tra libere identificazioni e imitazione. Ciò riguarda soprattutto il rapporto del terapeuta con i propri punti di riferimento non tanto e non solo teorici, quanto piuttosto libidico-affettivi, rappresentati dai propri analisti, didatti o personali, dai supervisori e da quant’altro possa rappresentare, nel percorso di formazione, la figura del cosiddetto "maestro". Tale rapporto è evidentemente una questione di grande importanza, poiché le modalità di trasmissione del sapere psicoanalitico lo pongono al centro della "formazione": un po’ come nelle filosofie orientali, il nucleo della "trasmissione di sapere" è nella relazione tra allievo e maestro, mentore o guru che dir si voglia. Tutto ciò che riguarda questa relazione è quindi ovviamente centrale per la psicoanalisi stessa.


Mi riferisco pertanto al rapporto con il proprio mentore: con il concetto di mentore intendo indicare qualcosa di più, rispetto al gioco educativo di ruolo che può venire in parte evocato dal termine maestro: Mentore è il personaggio dell’Odissea attraverso il quale parla il dio, parla Atena, è "figura radicale che fa compiere svolte, che soppianta il rassicurante di ogni appartenenza e controllo"(Mottana, 1996). La disponibilità verso il mentore assume una specifica pregnanza nel percorso che si ha da compiere per essere, appunto, psicoterapeuta, ma ovviamente non riguarda soltanto la formazione psicoanalitica: è una questione di grande importanza per ogni analisi. Infatti, la disponibilità verso il mentore è prototipo della disponibilità verso il proprio stesso preconscio ed è segno di una posizione di apertura e agilità interiore verso sŽ e il distinto da sŽ. Ma per guadagnare questa posizione, e ogni volta riguadagnarla fuori dalla seduzione rassicurante delle certezze difensive e cristalline, si ha da passare tra Scilla e Cariddi dell’Edipo, tra imitazione e identificazione, per giungere alla capacità di riconoscere, seguire il mentore là dove egli è, e identificarsi con lui, superando l’angoscia predatoria.


Un proverbio indiano che dice "quando hai bisogno, il guru appare" interpreta esattamente la disposizione a cogliere in sé e nell’altro ciò che di "mentorico" può esserci. In primo luogo, si tratta di saper riconoscere il proprio bisogno e, in secondo luogo, si tratta di sapere individuare, riconoscere chi rappresenta una risposta a tale bisogno. E, una volta riconosciuto il mentore, si tratta di sapersi lasciar prendere per mano, sapersi arrendere, come dice Lopez (1983), al mentore come a un superiore se stesso, sia questo rappresentato dal proprio preconscio, dall’oggetto d’amore (dalla persona amata), dall’analista o dal supervisore.


La posizione che sto descrivendo, in quanto implicata sia con l’identificazione sia con la capacità di relazione con il distinto da sŽ, è strettamente legata all’Edipo maturo, come profonda capacità di mantenere agilmente la tensione e la sintesi tra le diverse posizioni dell’Edipo. Ciò è premessa ineludibile per consentirsi di raggiungere l’apertura necessaria a cogliere e accogliere il mentore, in noi, e fuori di noi e per saper, a nostra volta, rappresentare il mentore per i nostri pazienti. Ne è condizione necessaria, e sufficiente, poiché è soltanto nel pieno dispiegarsi dell’Edipo maturo che amore oggettuale e amore identificatorio si fondono, quando il genitore dello stesso sesso non è più oggetto di attacco invidioso, e dunque non vi è più necessità di attaccare sŽ quando se ne assume la funzione, e il genitore di sesso diverso è al contempo sŽ, nell’identificazione, e persona distinta da sŽ, come oggetto d’amore (non è questa una questione semplice: sappiamo quanto soprattutto gli elementi di identificazione nel genitore di sesso opposto siano stati criminalizzati all’insegna della più vieta stereotipia nell’identità di genere). Non a caso, Jessica Benjamin sottolinea che tale posizione, l’Edipo maturo, è la base per il superamento delle difese rigide verso il diverso, sia questo rappresentato da una razza sia questo rappresentato dall’identità di genere differente. Ed è pertanto evidente che se non si è in questa posizione di Edipo maturo, il mentore, che è per sua natura in una situazione di diversità rispetto a noi, o meglio ancora, di temporanea distinzione, sancita dal rapporto saturo/insaturo, non verrà riconosciuto e accolto con gioia, bensì sarà sentito, proprio in quanto diverso, come minaccia. Egli dovrà essere negato, perché troppo inquietante per i nuclei narcisistici immaturi, dovrà essere controllato, dovrà essere respinto. Al massimo, dovrà essere circoscritto a un’esperienza passata, e sia ben chiaro, conclusa. Ciò priva l’individuo di occasioni centrali nella vita, lo priva di quei momenti in cui l’oggetto d’amore apre le porte di un nuovo mondo. In realtà, la disponibilità verso il mentore non si esaurisce con la fine dell’analisi: rimane come disponibilità verso il proprio preconscio, verso la persona amata, verso la vita stessa.


Come ho detto, l’irreplicabile tensione che unisce amore identificatorio e amore oggettuale coincide, in termini di dinamica interna, con l’Edipo maturo, con la capacità cioè di essere in relazione con l’altro come persona distinta, sapendosi al contempo riconoscere e identificare in lui. Ma sulla strada che porta all’Edipo maturo, e che ripercorriamo costantemente, chiaramente con senso e vissuto differente a seconda che si sia attinta almeno una volta la meta, vi è un passaggio inevitabile, e al contempo rischioso: la fase dell’imitazione.


Un mio giovane paziente, studente di psicologia, inizia l’analisi parlandomi del suo progetto di diventare a sua volta psicoanalista. Il suo primo sogno rappresenta chiaramente l’intento di prendere il mio posto, buttandomi letteralmente giù dalla mia poltrona. Nel corso della sua analisi sono emerse poi frequenti fantasie, e talora agiti, che indicavano la sua valorizzazione inconscia di tecniche e tattiche all’insegna della scorciatoia. Che cosa significava la fantasia di buttarmi giù dalla mia poltrona e prendere il mio posto, prototipo di tutte le altre scorciatoie che il paziente avrebbe poi cercato di mettere in atto, nonostante le sue indubbie capacità gli potessero consentire di percorrere la strada maestra?


Un deficit narcisistico di base, cioè il timore di non farcela a trovare la propria strada, implica l’ovvia compensazione che conosciamo come patologia narcisistica, all’interno della quale vi è anche il tentativo di risolvere l’angoscia e i sentimenti di inadeguatezza cercando di occupare il posto dell’altro. In altri termini, si cerca di risolvere il conflitto edipico spodestando i propri genitori (essendo loro), invece che essendo se stessi. Nella relazione analitica ciò comporta, evidentemente, che l’analista più che polo di libera identificazione, profondamente accolto, diventi oggetto di imitazione.


Curiosamente, di questo aspetto hanno parlato in molti, e non solo come sviluppo delle intuizioni di Gaddini in senso generale, ma nello specifico della formazione psicoanalitica, sottolineando, come fa la Von Goldacker (1997), il ruolo difensivo dell’imitazione, come difesa narcisistica per mantenere scissioni tra oggetti svalorizzati e idealizzati e per evitare sentimenti di dipendenza. O come fa Speziale Bagliacca (1982) per riportare l’attenzione sugli aspetti di collusione da parte dell’analista, che a quel punto mentore non è più, pago e soddisfatto dell’imitazione che non sa riconoscere nel suo paziente e/o allievo.


A mio parere, l’imitazione diventa negazione dell’Edipo quando, lungi dal costituire quell’esperienza fondamentale ed esplorativa che contraddistingue certi passaggi infantili e adolescenziali, si irrigidisce come modalità di impossessamento, come negativo dell’interiorizzazione. Zelig, il personaggio di Woody Allen, ne è prototipo: l’imitazione dà un temporaneo sollievo, ma copre e al contempo alimenta l’incapacità di confrontarsi con il sé più autentico. Infatti, la sensazione di fondo di chi imbocca cronicamente questa strada sarà sempre quella di trovarsi in un posto che non è veramente il proprio, con il conseguente portato di ansia e di tensione apparentemente immotivate, di precarietà, di facilità al panico e alle fantasie persecutorie: "prima o poi il legittimo proprietario tornerà e che ne sarà di me?".


Tuttavia, è vero che l’imitazione dà sollievo (temporaneo) e ha una sua funzione positiva soprattutto nelle fasi esplorative. Con l’imitazione ad esempio l’adolescente si rassicura, egli può essere "come l’altro", può mettere in atto quelle regole, quei codici che gli sono stati estranei fino a quel momento. E’ un po’ come se dicesse "Ah, si fa così!" prima di trovare il suo proprio modo di farlo, di esserlo. In questo senso, la fase dell’imitazione è rassicurante anche nei termini dell’appartenenza: condividendo un codice, un linguaggio, si appartiene a un gruppo o quantomeno all’illusione di una coppia. Parlo di "illusione di coppia" perché l’imitazione si osserva anche in certe coppie adulte, nelle quali si sviluppa un codice comportamentale di imitazione reciproca all’interno del quale la ricerca di rassicurazione poggia sulle fantasie simbiotico-narcisistiche più smaccate e sfocia nell’inautenticità, all’insegna della ricerca e della proiezione reciproca del proprio sŽ narcisistico.


Tornando a noi, cioè alla coppia psicoterapeutica, possiamo dire che con l’imitazione del proprio maestro anche il terapeuta cerca di rassicurarsi, cerca di rinforzare il valore dell’interpretazione fatta al suo paziente, attraverso la fantasia che l’abbia detta il maestro, e cerca altresì di non sentirsi solo davanti e con il paziente: due funzioni che possono essere al limite dell’escamotage, e che possono anche non intaccare gravemente la qualità dell’interpretazione, che in realtà viene genuinamente prodotta dal terapeuta, da lui sentita e proposta autenticamente, per quanto poi si rassicuri pensando "anche il mio maestro avrebbe detto così". In questo senso, l’imitazione, grazie alle funzioni di rinforzo e appartenenza, come ho detto, può non intaccare gravemente la qualità dell’interpretazione, dal momento che essa è stata frutto autentico della relazione con il paziente, e addirittura potrebbe essere funzionale a un’interpretazione adeguata e coraggiosa che l’analista riesce a fare proprio grazie al fatto che non si sente solo, ma certamente la intacca in una qualche misura poiché rivela la difficoltà dell’analista a tenere la tensione relazionale a tu per tu con il paziente e a riconoscere egli stesso autorevolezza alla propria interpretazione.


In questo senso, emerge la componente difensiva, e vedremo poi quella aggressiva, dell’imitazione: più evidente nel caso l’interpretazione sia frutto di un pensiero non solo del tipo "che cosa farebbe il maestro ora?", ma


anche del tipo "in quella occasione il maestro ha fatto così". Allora, è sottrarsi alla relazione hic et nunc con il paziente, poiché sovrappone una storia diversa a quella attuale, è trovare una scorciatoia, che non porta da nessuna parte utile. é non essere sé; è, propriamente, imitare il maestro. In questo caso, dico proprio maestro, perché il mentore è stato svilito a meccanico manuale di regole.


Ecco dunque il versante aggressivo dell’imitazione, poiché in questo modo il mentore è tenuto fuori, non dentro, non è interiorizzato, non vi è identificazione. é tenuto alla superficie: "tutto ciò che tu mi hai trasmesso è te, non è diventato me. E per soprattassa, ti faccio pure la caricatura".


Ho parlato prima di scorciatoia che non porta da nessuna parte utile: per evitare il percorso di evoluzione personale, per non affrontare e tollerare la separazione, per non avvertire la nostalgia e talora il doloroso senso di perdita e di spaesamento, si mette in atto il "sarò te, occuperò il tuo posto", all’insegna della rabbia narcisistico-edipica più evidente. Ma, come sappiamo, non si può essere l’altro, al massimo se ne diventerà la copia, e in quanto copia, non potrà che essere una brutta copia.


é evidente che l’imitazione, nel senso che ho or ora descritto, rimanda dunque a una problematica edipica irrisolta e basata su fragilità narcisistica: con l’imitazione il mentore viene tenuto fuori, poiché l’angoscia sotterranea è quella di esserne schiacciati, e la risposta aggressiva è proprio lo svilimento del mentore a modello reificato da imitare. Contemporaneamente, viene mantenuta la fissità edipica rigida: "io resto piccolo, tu sei il grande, rimango l’allievo, il bambino giovane per la vita". In questa fantasia di eterna giovinezza, pagata al prezzo di non essere e non diventare sŽ, si ritorna al tema di prima: il mentore è collocato nella posizione di altro, il grande, e non viene accolto profondamente come voce del dio, dell’Atena interiore. Da questo punto di vista, poiché il rapporto col mentore è prototipo del rapporto che si instaura con il proprio stesso preconscio, tale situazione è di grande impedimento al raggiungimento dell’Edipo maturo, è foriera di chiusure libidico-emotive, e quindi anche di pensiero.


Prima di concludere il mio intervento, mi pare importante accennare al polo complementare opposto, cioè a quelle situazioni nelle quali è l’analista stesso che tradisce il suo ruolo mentorico, per farsi struttura reificata, per farsi Pigmalione. Egli non riconosce, e talora inconsciamente richiede, l’imitazione da parte del paziente e scambia per attacco invidioso e/o distruttivo ciò che è invece affermazione di vitalità e autenticità. Questo analista non è mentore, ma reificazione del mentore, talora rintracciabile ad esempio negli irrigidimenti ideologico-teorici, nelle regolamentazioni iperburocratiche, nelle regole-dogma, per le quali non c’è risposta al perché, se non "si fa così". In questo senso, si rischia di penalizzare nel paziente, nell’allievo, proprio il suo essere persona, si rischia di rifare la storia di Eva, Pandora e Prometeo, puniti per non aver accettato l’invito devitalizzante all’acquiescenza imitativa come posizione cronica e per avere cercato, e pagato, il sapere personale.


La dimensione personale nell’incontro terapeutico è dunque il superamento dell’imitazione come mascheramento dell’attacco invidioso al genitore, è dimensione nella quale ha piena espressione la dialettica dei distinti, laddove l’analista è in grado di provare profonda identificazione nel paziente e al contempo di mantenere la propria ineludibile unicità di persona, osando anche sfidare regole polverose e miti reificati. Sapendo dunque mantenere la tensione tra autenticità e consapevolezza.


Per concludere, riprendo una bellissima citazione di Nietzsche che illumina il valore del mentore, del mentore autentico, così come ci impegniamo a essere per i nostri pazienti, così come ho avuto il privilegio di incontrare nella mia vita e alcuni dei quali sono qui con me, oggi.


"I tuoi veri educatori e plasmatori ti rivelano qual è il vero senso originario e la materia fondamentale del tuo essere, qualche cosa di assolutamente ineducabile e implasmabile. In ogni caso, difficilmente accessibile, impacciato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere nient’altro che i tuoi liberatori. E’ questo il segreto di ogni formazione, essa non procura membra artificiali, nasi di cera, occhi occhialuti. Essa invece è liberazione, rimozione di tutte le erbacce, delle macerie, dei vermi che vogliono intaccare i germi delicati delle piante, è irradiazione di luce e calore, benigno rovesciarsi di piogge notturne".


 


Bibliografia


Benjamin J. (1995), Soggetti d’amore. Raffaello Cortina Editore, Milano 1996.


Gaddini E., Scritti 1953-1985. Raffaello Cortina Editore, Milano 1989.


Lopez D., La psicoanalisi della persona. Boringhieri, Torino1983.


Mottana P. (a cura di), Il mentore come antimaestro. Clueb, Bologna 1996.


Nietzsche F., Considerazioni inattuali (III). Einaudi, Torino 1981.


Speziale Bagliacca R., "Identità e rappacificazione. L’ideale dell’io, l’individuazione, lo psicoanalista e la fine analisi". In: Itinerari della psicoanalisi. Loescher, Torino 1982.


Von Goldacker U. (1997), "De l’Evaluation à l’auto-Evaluation, difficultes avec Ôl’apprentissage par l’experience’". Bulletin F.E.P. 48.


1 commento:

  1. salve, questo blog e' una miniera di materiale ed elaborazioni utili a chi studia, pratica o semplicemente come me bazzica i territori della Psiche per interesse personale e ricerca di risposte...A parte i poswts sul DOC che mi riguardano personalmente, e' interessante tornare a rileggerlo, di qualunque argomento tratti. Non so se l'autrice e' professionista o studentessa, comunque complimenti e grazie. (ho lasciato un pvt qui su Splinder).

    RispondiElimina