mercoledì 19 dicembre 2007

Lacan: la teoria dello specchio


La natura illusoria dell’Io è particolarmente evidente nella teoria della fase dello specchio in cui si descrive il processo con il quale nel bambino si produce l’illusione di un Io, di un Sé unificato e conscio attraverso l’identificazione con la propria immagine riflessa[1]riconoscimento dell’unità attraverso la visione della propria immagine, ma la costruzione dell’unità stessa, o, più precisamente, di un’illusione di unità. Il bambino vede l’immagine allo specchio e si riconosce in essa, ma ciò che è nello specchio non corrisponde, in effetti, al bambino reale: è solo un’immagine. Le altre persone – in particolare la madre - rinforzano questo falso riconoscimento che conduce il bambino a percepire l’immagine allo specchio come la somma fedele del suo intero essere, organizzato in questo modo in un tutt’uno completo. L’idea di unità e completezza che dà vita all’Io del soggetto, alla sua identità, è per Lacan totalmente illusoria e immaginaria, poiché non inerisce a una condizione interna preesistente all’immagine, ma si forma proprio grazie all’identificazione con essa. . È importante sottolineare che ciò che avviene in questa fase non è un

Oltre al carattere illusorio dell’Io viene così sottolineato la funzione morfogena dell’immagine: l’immagine è un elemento totalmente esterno ed estraneo al soggetto – sempre “altro” da esso[2]L’immagine non dipende tanto dalla facoltà soggettiva dell’immaginazione – non è costituita dal potere rappresentativo del soggetto com’è nella tradizione filosofico-psicologico classica – ma si svela piuttosto un potere di causazione del soggetto, una funzione, appunto, costituente proprio nella determinazione del soggetto. In questo senso bisogna sottolineare lo svuotamento operato sull’io di ogni contenuto ontologico-sostanzialistico”. - che ha il potere di costituirlo e di plasmarne l’identità. La funzione costituente dell’immagine, come spiega Di Caccia[3], riduce l’Io ad una “misera ombra”, ad un semplice “derivato” dell’altro, in completa opposizione alla tradizione essenzialista che lo interpreta, invece, come sostanza propria e specifica del soggetto, suo centro trascendentale e coordinatore della personalità: “

Lacan sostiene, dunque, la completa estraneità dell’immagine al soggetto: nella sua unità e stabilità, l’Io a cui essa da vita non potrà mai corrispondere all’intero essere che, al di qua dello specchio, rimane sempre frammentato e disperso. L’identità del soggetto altro non è che una finzione narcisistica[4] che tiene insieme, a livello immaginario, i pezzi frammentati del soggetto. “Il grande seminarista” coglie efficacemente nella famosa metafora della cipolla questa condizione:

 

l’io è un oggetto fatto come una cipolla, lo si potrebbe pelare e si troverebbero le identificazioni successive che lo hanno costituito[5]

 

Riassumendo, come abbiamo visto sopra e come osserva ancora di Caccia, l’Io stratificato come una cipolla mette in evidenza due grandi questioni: il carattere di finzione che contraddistingue l’identità, dovuto alla mancanza di una sostanzialità propria dell’Io, al suo disfarsi in molteplici identificazioni che impediscono di trovare un centro stabile, un “cuore della cipolla”. In secondo luogo, il carattere non autofondato del soggetto: nel meccanismo di identificazione l’Io non si costituisce come soggetto, ma piuttosto come oggetto composto dalle aggregazioni di identificazioni.

 







[1] Tra i sei e i diciotto mesi il bambino non ha ancora padronanza del proprio corpo; non ha controllo dei suoi movimenti e non ha la percezione del suo corpo come un’unità, un intero. Il bambino ha, piuttosto, esperienza di un corpo in frammenti,in pezzi: qualsiasi parte si trovi all’interno del suo campo visivo è lì finché lui la può vedere, ma scompare no appena il bambino non la vede più. Egli può vedere la sua mano, ma non sa che la mano appartiene a lui, la mano potrebbe essere di chiunque, o di nessuno. Però il bambino a questa età può immaginare sé stesso come un tutt’uno, perché ha visto le altre persone, e le ha percepite come esseri unitari. A un certo punto di questo periodo il bambino si vedrà riflesso in uno specchio. Guarderà la sua immagine riflessa, si volterà verso una persona reale – sua madre o qualsiasi altra persona – e riguarderà l’immagine allo specchio. Queste azioni gli conferiranno la sensazione che anche lui è un essere integrato, un intero. Si muoverà dalla percezione di un corpo frammentato a una visione di sé come un tutto integrato. Alla fine, ciò che il bambino vede nello specchio, questo essere unitario, diventerà un “Sé”, designato con la parola “IO”.



[2] In questo senso si può interpretare l’affermazione di Lacan “l’ego è sempre un alter-ego”. L’io si forma tramite l’identificazione con un’istanza esterna, con un “altro”, per cui l’io è l’altro, l’Io è basato su un’immagine, un altro. La condizione dell’Io è, dunque, quella dell’alienazione: “la stessa immagine che fornisce all’io la sua identità è ciò che lo aliena infinitamente da se stesso in quanto, appunto, ‘da sempre sottratta ’ e, proprio per questo, perché segno di una lacerazione non rimarginabile, indice della stessa significazione mortale del soggetto”. A. Di Caccia, M. Recalcati, Jaques Lacan, Paravia Bruno Mondatori Editori, 2000, p. 27



[3] Ibidem, pp. 24-25



[4] La natura narcisistica del processo è evidente nella fascinazione dell’immagine che cattura il soggetto nella promessa illusoria di unità e totalità.



[5] J. Lacan, Il seminario. Libro I, cit. in A. Di Caccia, M. Recalcati, Jaques Lacan...op. cit., p. 14



Mente e Corpo nella Psicosomatica

L’uomo è un’entità formata da corpo e mente. E’ un insieme inscindibile di queste due parti, aspetti diversi di una sola totalità. Corpo e mente non sono separati ma sono parte l’uno dell’altra. Tuttavia il corpo ha un’essenza diversa dalla mente, può essere misurato nelle sue dimensioni spaziali, fotografato e pesato. Si possono derivare, in modo scientifico, dati oggettivi delle sue funzioni, si possono analizzare i suoi fluidi e le sue secrezioni ed è possibile sezionarlo per studiarlo nelle sue componenti anatomiche.

Talvolta però, tutte queste conoscenze non si sono rivelate assolute e non sono state sufficienti per fornire una visione più precisa del corpo. Basti pensare che spesso la percezione del nostro corpo muta da un momento all’altro e sembra non essere mai lo stesso. E’ sufficiente vivere un’esperienza diversa o un’emozione più intensa, che all’improvviso si manifesta un corpo che non riconosciamo come quello di partenza.

«L’esperienza umana oscilla continuamente tra la sensazione di avere e quella di essere il nostro corpo[i]»

Il concetto di corpo non è poi così disgiunto da quello di mente. Infatti, si ritiene che l’essere umano sia capace di una rappresentazione psichica del proprio corpo e questa funzione si sviluppa sin dalla nascita, mediante il rapporto madre-bambino.

Il corpo, ha una funzione fondamentale nella comunicazione. Il linguaggio non verbale può confermare e/o negare tutto quanto viene trasmesso con le parole.

Se il concetto di corpo è più chiaramente comprensibile in modo, semplice e unitario, quello di mente o psiche risulta essere più ambiguo e complesso. La parola psiche o mente rimanda a concetti non osservabili concretamente e difficile da descrivere, come le emozioni, i sentimenti, le fantasie e il pensiero. Ed è proprio nella difficoltà di comprendere la mente, che l’uomo, per lunghi anni, si è percepito solo negli stimoli corporei.

Oggi, invece, le emozioni svolgono un ruolo importante nel motivare e orientare il comportamento.

Infiniti esempi, tratti dall’esperienza umana, dimostrano che comunissimi fenomeni psicologici, come una leggera emozione di gioia e/o di paura, si ripercuotono nell’organismo causando tachicardia; di contro, un banalissimo disturbo organico, come il raffreddore, si ripercuote sull’umore creando notevole irritazione. E, ancora: un succedersi di pesanti e particolari tensioni emotive può provocare, in alcuni individui, malattie come l’ulcera gastrica o l’ipertensione. L’approccio psicosomatico è un tentativo di vedere le persone nella loro interezza e, soprattutto, di comprendere che cosa loro succede. Possiamo dire che la medicina psicosomatica è nata per contrapporsi alla tradizione meccanicistica e riduzionista della filosofia ottocentesca, che separava nettamente la vita psichica e la malattia, essendo quest’ultima considerata sempre di origine organica, dovuta cioè alla lesione di qualche parte del corpo. La medicina psicosomatica si fonda sul concetto chiave che la persona rappresenta una inscindibile unità biologica, fatta di corpo e mente, cioè di fattori psichici ed emotivi che svolgono un ruolo determinante nello sviluppo delle malattie organiche. In generale, quindi, possiamo dire che la psicosomatica è lo studio dei rapporti intercorrenti tra mente e corpo. Essa parte dalle premesse che ogni malessere di natura psicologica abbia una ripercussione a livello somatico, e che viceversa una malattia organica comporti una alterazione della sfera psicologica. Al di là delle varie interpretazioni è sicuramente un modo nuovo di concepire l’uomo malato, una modalità che non considera solo l’organo malato da “curare”, ma la globalità psichica, sociale e culturale dell’essere umano, per cui l’organo rappresenta solo l’espressione ultima di un disturbo.

 

Il dualismo Cartesiano

Il rapporto tra soma e psiche è un discorso piuttosto antico. I primi studi sull’unità psicosomatica dell’uomo, risalgono alla scuola ippocratica. La dottrina ippocratica si propone di liberare la medicina da ogni concezione magica e religiosa, per farne una scienza basata su un metodo sicuro e razionale di diagnosi e di terapia. La salute o la malattia dell’organismo umano sono il risultato di un’armonia o disarmonia interna dell’organismo, legata all’equilibrio di quattro umori che esso contiene (sangue, flegma, bile gialla, bile nera) la cui diversa proporzione determina anche il temperamento dell’individuo e l’adeguamento dell’organismo all’ambiente climatico, geografico e politico sociale. In base a ciò, l’approccio terapeutico doveva ristabilire la perdita di armonia che deve normalmente esistere in ciascun individuo. Con Platone (primo sostenitore della posizione dualistica) si introduce la distinzione tra anima e corpo, sostanze indipendenti e irriducibili l’una all’altra. L’anima era considerata immortale e continuava a vivere dopo la morte. Per Aristotele, che rifiuta il dualismo platonico, l’anima conferisce la forma al corpo che da esso non può essere separata. L’anima, quindi, diventa il principio vitale del corpo. Con Cartesio, il dualismo (mente – corpo) anziché conoscere un rinnovamento subisce una potente cristallizzazione. La mente ed il corpo erano considerate entità completamente separate; il corpo era una macchina governata dalla mente e seppure corpo e spirito erano divisi e separati, esercitavano un’influenza reciproca. Vedere ancora oggi applicata questa posizione culturale, cioè diversificare nettamente psiche e soma nell’affrontare una patologia, è l’errore più grande, perché come già evidenziato, il corpo e la mente non sono separati ma sono parte l’uno dell’altra, aspetti diversi ma costitutivi di una totalità. In definitiva è un approccio scientifico che congloba la totalità dei processi integrati di rapporto tra il sistema somatico, psichico, sociale e culturale. Per gli orientamenti scientifici tradizionali invece il concetto psicosomatico è una conquista recente, perché a causa di pregiudizi scientifici essa era ancorata alla concezione che l’uomo fosse un prodotto materiale e che la malattie fosse perciò solo una realtà organica. Esistono, tuttavia, reazioni e disturbi psicosomatici. La reazione psicosomatica è episodica, magari momentanea, e scaturisce da un evento stimolo: per esempio nella tachicardia da spavento c’è una evidente alterazione del battito cardiaco, che è solo momentaneo e che scompare appena passa la reazione emotiva. Nei disturbi psicosomatici esiste invece un’alterazione duratura, funzionale oppure organica. Nel primo caso l’organo non è leso, ma si comporta come se lo fosse: un esempio tipico è la nevrosi cardiaca, in cui esistono tutti i sintomi dei disturbi cardiaci, ma il referto clinico appare negativo. Nella malattia organica esiste una lesione all’organo in questione: un esempio è l’ulcera gastro – duodenale, che oltre ai sintomi comporta un referto anatomo – patologico ben preciso ed individuabile.


da: www.psicolab.it

Il Modello Psicosomatico

Prima di entrare in merito del modello psicosomatico è di fondamentale importanza recuperare e approfondire dei concetti che ci guideranno lungo questo percorso di analisi.

 La famiglia è uno dei più importanti gruppi di riferimento, che assicura la formazione dell’identità umana per tutti i membri, ma soprattutto per i figli. All’interno della famiglia i bambini sviluppano autonomia e appartenenza. Dunque, il modo in cui funziona una famiglia ha implicazioni importantissime per lo sviluppo psicologico del bambino. Perché una famiglia possa funzionare bene devono essere stabiliti, all’interno del nucleo stesso, i confini ossia delle regole che definiscono chi partecipa e come al sottosistema. La funzione dei confini, e quindi delle regole, è quella di proteggere la differenzazione del sistema. Affinché una famiglia proceda lungo un iter progressivo in modo sistematico i confini devono essere chiari, in quanto i membri del sottosistema devono poter svolgere i loro compiti. La chiarezza dei confini è un parametro utile per la valutazione del funzionamento familiare.

Le famiglie con confini diffusi sono famiglie invischiate, spesso concentrate su se stesse con conseguente coinvolgimento tra i componenti e minore distanza. In situazioni di tensione questo sistema diventa sovraccarico e privo di risorse necessarie per adattarsi a cambiare. Dinanzi ad una famiglia invischiata è facile osservare come i membri abbiano sviluppato maggiore senso di appartenenza e minore senso di individualità/autonomia. Infatti, il comportamento di un membro influenza direttamente gli altri, oltrepassando prontamente i confini e riflettendosi sugli altri.

Con confini eccessivamente rigidi si delineano le famiglie disimpegnate, in cui la comunicazione tra sottosistemi diventa difficile e in cui esistono funzioni di difesa. In questo genere di famiglia i membri del sistema hanno sviluppato minore senso di appartenenza e maggiore individualità e autonomia. In genere si stratta di un sistema dove manca la capacità di chiedere aiuto e sostegno e dove è assente il senso di lealtà nei confronti della famiglia. Le tensioni che opprimono un membro non riescono a valicare i confini eccessivamente rigidi, solo un livello di tensione individuale molto elevato può far attivare sistemi di sostegno della famiglia.

Sull’analisi delle strutture familiari, Minuchin ha sviluppato la teoria sull’origine del disturbo psicosomatico. I concetti che fanno capo a questo modello sono i seguenti: - il «paziente designato[i]» è legato agli altri da un rapporto di circolarità, i suoi sintomi influenzano il malfunzionamento della struttura familiare e viceversa; - fattori stressanti esterni possono favorire l’insorgenza del disturbo, ma una volta che è comparso, esso viene mantenuto «omeostaticamente» dalla disfunzione familiare; - può essere presente una predisposizione o un’alterazione organica che spieghi il tipo di sintomo, ma, poiché il paziente reagisce in modo circolare con la famiglia, il disturbo tende a protrarsi anche dopo una terapia medica adeguata.

Secondo questo modello, Minuchin ha ipotizzato quattro modalità collegate alla comparsa e al mantenimento del sintomo psicosomatico. Primo fra tutti è l’invischiamento, che come abbiamo già accennato, è la tendenza dei componenti ad occuparsi eccessivamente degli altri. In queste famiglie “le porte sono sempre aperte”, anche gli spazi fisici non sono definiti; i membri sono intrusivi, e invadenti. Spesso parlano al posto dell’altro; i ruoli sono confusi e i confini poco distinti. Pertanto, è possibile che in tali famigli i figli hanno un ruolo genitoriale con i fratelli minori e i genitori si comportano come fossero figli.

Un’altra caratteristica fondamentale delle famiglie psicosomatiche è l’iperprotettività. Si tratta di famiglie con importanti livelli di coinvolgimento emozionale, dove ogni segnale di malessere, di uno o più membri, muove tutto il nucleo ad assumere atteggiamenti eccessivamente protettivi, che limitano l’autonomia e lo sviluppo degli interessi esterni al gruppo.

Terzo elemento distintivo delle famiglie psicosomatiche è la rigidità. In questo caso, il nucleo familiare pone resistenza a ogni forma di cambiamento. Quando un membro cerca di cambiare la propria posizione rispetto al gruppo gli altri agiscono rendendo inutile le forze. Un esempio tipico è il caso dell’adolescente, che pur cercano maggiore autonomia, viene stremato dal gruppo che si compatta e non gli permette di apportare alcuna modifica al loro sistema familiare.

Nei momenti più critici del ciclo vitale[ii]la famiglia cerca di mantenere lo stesso funzionamento divenendo molto vulnerabile. In fasi come questa, è frequente che uno dei componenti si ammali, spostando su di se ogni preoccupazione.

Ultimo requisito della famiglia psicosomatica, per questo non meno importante, è l’evitamento dei conflitti. Si tratta di famiglie con una tolleranza alle frustrazioni molto bassa e che, non sopportando il disaccordo, soffocano i problemi al loro nascere o li negano. Queste sono famiglie che imparano a convivere con grandi conflitti irrisolti e che trovano modalità comportamentali funzionali alla loro disfunzione.

Per modificare le caratteristiche disfunzionali delle famiglie psicosomatiche Minuchin tre finalità terapeutiche: lo sviluppo dell’autonomia individuale; il riconoscimento e l’espressione di conflitti; la valorizzazione del cambiamento.

Ad oggi, la maggior parte dei terapeuti ad orientamento familiare e sistemico considerano pregevoli gli studi fatti da Minuchin e valutano importanti le sue teorizzazioni. Anche i clinici di formazione psicoanalitica e cognitivista, hanno rivolto la loro attenzione allo studio delle relazioni, approfondendo in particolar modo la relazione madre-bambino. Dunque, si può affermare che Minuchin ha contribuito notevolmente a ad allargare i confini della psicosomatica, fornendo contestualizzazioni nuove e ricche di soluzioni ad antichi problemi. Senza mai dimenticare, la complessità dell’esperienza umana, le differenze, le contraddizioni e la ricchezza di pensiero che appartengono all’individuo nel suo essere unico e inimitabile.


da www.psicolab.it



giovedì 13 dicembre 2007

Terapia breve strategica avanzata per disturbi ossessivo-compulsivi

Conoscere un problema attraverso il cambiamento: risultati empirico-sperimentali



L´immagine strategica dei disturbi ossessivo-compulsivi emersi dai dati empirici è:

Una percezione della realtà basata su una fobia che porta il paziente a reagire, attraverso il pensiero, formule o azioni compulsive, nel tentativo di ridurre le sue paure.

Le comuni tentate soluzioni adottate da pazienti ossessivo-compulsivi per gestire situazioni di panico totale consistono o nell´evitare quelle situazioni o nell´attuare, compulsivamente, particolari azioni abituali (rituali).

Alcune situazioni, persone, oppure oggetti provocano così tanta paura che vengono completamente evitate. Molto spesso, in questi casi, il paziente chiede un aiuto esterno per controllarle ed avere la certezza di non doverle mai affrontare.

Le abituali tentate soluzioni possono essere “riparatorie” o “preventive”.

Ciò significa che siamo stati in grado di individuare due diversi tipi di rituali ossessivo-compulsivi: il primo viene messo in atto per intervenire e “riparare” dopo che è accaduto qualcosa di temuto, così da non sentirsi in pericolo, perciò è orientato al passato; il secondo è incentrato sull´anticipazione della circostanza o dell´evento spaventevole, in modo da favorire il miglior esito o evitare il peggiore.



Recenti risultati empirico-sperimentali hanno rivelato che esistono due principali varianti delle azioni preventive: rituali razionali-preventivi e rituali propiziatori con pensiero magico. I rituali razionali-preventivi sono azioni specifiche che scaturiscono da una credenza irrazionale e che permettono al soggetto di prevenire le situazioni che lo spaventano, come il contagio di malattie, la perdita di controllo, la perdita di energia, e così via. I rituali propiziatori sono una forma di pensiero magico strettamente connesso a credi fatalistici religiosi, convinzioni derivate da superstizione, fiducia in poteri straordinari o nella fede, e così via.



Gli atti rituali possono essere compiuti in prima persona dal paziente o possono anche coinvolgere terze persone o l´intera famiglia. Ci sono casi in cui vediamo che per dare sfogo alle azioni compulsive nel modo più rassicurante possibile o per evitare di entrare in contatto con la situazione temuta, il paziente chiede aiuto ai parenti affinchè lo controllino, perché vedano se ha eseguito il rituale nel modo giusto, o per proteggerlo dalla situazione di pericolo. In tali casi è necessario lavorare con la famiglia, la quale diventa inevitabilmente ostaggio del paziente. Questo genere di paziente ossessivo-compulsivo può diventare violento e minacciare i membri della famiglia di suicidio o di autolesione. La famiglia, in questi casi, deve diventare co-terapeuta e rispettare il compito di osservare attivamente senza intervenire.



Per essere veramente rassicuranti i rituali ossessivo-compulsivi del paziente possono essere attuati seguendo una precisa serie numerica oppure possono essere associati ad un’immagine della mente o ad una specifica sensazione. In altre parole, la struttura dell´atto rituale può essere sia razionale e digitale sia magica e analogica in connessione con la fobia sottostante.

Dopo un pò, le tentate soluzioni eseguite dal paziente ossessivo-compulsivo, diventano patologiche e stabiliscono un sistema che si auto-alimenta, questo perché sia i rituali sia le tattiche di evitamento confermano la convinzione nella fobia di base, che a sua volta incrementa ulteriormente la necessità dei rituali e/o delle strategie di evitamento, e così via. Perciò il paziente si intrappola in un circolo vizioso in continua escalation. Ciò che si poteva considerare liberatorio per il soggetto diventa una vera incarcerazione.

I pazienti arrivano in terapia soltanto quando l´escalation tra la percezione fobica e l´esecuzione degli atti compulsivi li ha portati a vivere una vita impossibile. Prima di questo punto, essi vivono nella convinzione che il rituale sia un buon modo per controllare le proprie paure. Questa è la ragione per cui questi pazienti resitono così tanto al cambiamento.



Capire e sfruttare la logica sottostante



L’immagine metaforica che meglio rappresenta la logica sottostante ai disturbi ossessivo-compulsivi è resa da un aneddoto di Paul Watzlawick: un paziente ricoverato in un ospedale psichiatrico continuava con il suo rituale “clap clap”, batteva le mani. Uno psichiatra provò ad intervenire chiedendo al paziente: “Perchè fai così?” – “Per mandare via gli elefanti” – rispose il paziente. Il dottore, utilizzando la ‘logica ordinaria’ come strumento di cura, provò a convincere il paziente a fermarsi, dicendogli “Come puoi ben vedere, non c’è alcun elefante qui” – “Certo, è perché funziona benissimo!” rispose il paziente, facendo uso della sua ‘logica non-ordinaria’ per spiegare ciò che stava succedendo, e intanto continuava a battere le mani.



I rituali ossessivo-compulsivi non sono illogici ma seguono una logica non-ordinaria. Per modificare il loro ‘equilibrio’, quando elaboriamo strategie terapeutiche, dobbiamo entrare nella stessa logica non-ordinaria.

Non si può persuadere un paziente ad eliminare le sue ossessioni o ad interrompere l’esecuzione dei suoi atti rituali attraverso spiegazioni razionali. È invece necessario chiedergli di eseguire ‘meglio’ il suo rituale, suggerendogli ‘un metodo più efficace’ per soddisfare le sue necessità e raggiungere lo scopo delle sue azioni, il che significa riuscire a controllare la sua paura. In questo modo si può penetrare la percezione del paziente e, seguendo la logica sottostante alla sintomatologia ossessivo-compulsiva, insieme all’utilizzo di un contro-rituale, è possibile riorientarla verso la sua auto-distruzione.

In altre parole, la terapia deve seguire la logica apparentemente insensata che sta alla base delle idee e delle azioni del paziente, dichiarandogli che ciò che lui pensa e fa è sensato. Quindi, l’intervento procede nel prescrivere al paziente uno specifico contro-rituale prestabilito, presentato in modo che si adatti alle particolari idee ed azioni patologiche ossessivo-compulsive.



Per esempio, se la compulsione è quella di controllare qualcosa per un certo numero di volte, in modo da essere certi che venga fatta perfettamente, la prescrizione, utilizzando la logica numerica del controllo patologico, sarà quella di far eseguire al paziente il suo controllo un preciso e determinato numero di volte, ogniqualvolta egli senta il bisogno di verificare quella cosa.

“Da qui alla prossima seduta, ogni singola volta che compirai il tuo rituale, dovrai ripeterlo cinque volte – non una di più, non una di meno. Potrai evitare di eseguirlo; ma se lo metterai in atto, devi farlo esattamente per cinque volte, nè più, nè meno. Potrai evitare di compierlo, ma se lo fai una volta, devi ripeterlo cinque volte...”. La struttura logica di questa prescrizione apparentemente semplice corrisponde a quella di un antico stratagemma: “far salire il nemico in soffitta e togliere la scala”. Il modo di comunicare la prescrizione è qui molto importante. La comunicazione è basata su un’ipnotica assonanza linguistica, ripetuta in maniera ridondante, e su un messaggio post-ipnotico, espresso con un tono di voce marcato.

La struttura di tale tecnica è da leggersi così: se vuoi eseguire il rituale una volta, devi farlo per cinque volte.



Il ‘compito’ assegnato indica implicitamente che il terapeuta riconosce il bisogno di compiere ripetutamente il rituale compulsivo, però allo stesso tempo è lui/lei ad avere il controllo, indicando il numero di volte di esecuzione del rituale. Inoltre, il terapeuta concede il permesso “ingiuntivo” di non attuarlo affatto.

In tal modo il terapeuta assume il controllo della messa in atto del rituale. Il paziente è stato prima condotto dalla sua fobia a compiere ripetutamente tale azione, adesso è costretto a farlo dalla terapia. Ciò significa che il paziente acquisisce indirettamente la capacità di controllare la sua sintomatologia invece di esserne lo schiavo. Se noi riusciamo ad arrivare a questo per mezzo delle prescrizioni, il paziente comincerà a mettere in dubbio la propria percezione, essere totalmente posseduto dalla sua ossessione fobica. Il fatto che egli sia ora in grado di tenere sotto controllo le azioni patologiche seguendo le indicazioni terapeutiche, significa che ha la possibilità di giungere alla loro completa cessazione. Di solito è ciò che accade. Molto spesso, i pazienti tornano alla seduta successiva dichiarando di avere letteralmente interrotto il processo di ripetizione dell’atto rituale, poichè compierlo significava doverlo ripetere per cinque volte. Rivelano che eseguire i rituali era diventato realmente stancante e confessano che stranamente non hanno più sentito la necessità di metterli in pratica per ridurre la paura, proprio perché questa non si è mai presentata.



Il fondamento logico di tale effetto è quello di assumere la stessa dinamica della patologia persistente. Abbiamo cercato di far ritorcere la sua forza negativa contro se stessa, attraverso stratagemmi escogitati specificamente. In questo modo siamo riusciti a far subire un cambiamento al paziente senza alcuna contrapposizione con la sua posizione precedente, ma semplicemente tramite l’utilizzo di un contro-rituale volto ad interrompere la “dinamica auto-alimentante” del disturbo. Questa tecnica aiuta il paziente a riassumere il controllo sul sintomo.

I pazienti ossessivo-compulsivi cominciano a compiere ripetutamente questo tipo di azioni al fine di possedere maggior controllo della situazione temuta, ma finiscono paradossalmente per essere intrappolati dal sempre crescente bisogno compulsivo di attuarle. Le contromosse che vengono adattate allo specifico rituale compulsivo del paziente indirizzano la forza dei sintomi verso l’auto-annullamento.

Nella fase successiva del protocollo questa prescrizione viene mantenuta e, di solito, il numero di ripetizioni da effettuare viene aumentato. Intanto cominciamo a guidare il paziente ad affrontare direttamente le situazioni temute in precedenza.

Quando la terapia funziona bene, la persona vive la concreta esperienza di liberazione sia dalle compulsioni, sia dalle fobie. L’ultimo passo consiste nel fornire al paziente una spiegazione completa del lavoro svolto ed il suo processo. Intanto, gli si riconosce la responsabilità del successo della terapia, dovuto alle sue capacità ed alle sue risorse.

Nel corso della nostra lunga esperienza di tentativi di elaborazione del miglior trattamento possibile per i disturbi ossessivo-compulsivi, abbiamo escogitato un elevato numero di specifici contro-rituali, utilizzati ad hoc per le differenti tipologie di sintomatologia compulsiva. Così, adesso, abbiamo a nostra disposizione una serie di precise predisposte prescrizioni che hanno rivelato la loro efficacia con le diverse forme di disturbi ossessivo-compulsivi.



Ad esempio, nel caso delle formule mentali ritualistiche ripetute in modo compulsivo, abbiamo creato stratagemmi basati sulla logica di “uccidere il serpente con il suo stesso veleno”. Ricordo il caso di una giovane donna vittima di una serie di pensieri ossessivi ritualizzati. Diverse volte al giorno, principalmente prima e durante alcune azioni di ordinaria amministrazione, soffriva la costrizione mentale di ripetere formule composte di parole o numeri. Questo rallentava tutte le sue attività e la portava a quella che lei stessa considerava “una tortura mentale”, dal momento che si considerava una persona molto razionale e non poteva accettare l’idea di essere ‘obbligata’ a fare cose irrazionali.

In casi del genere viene utilizzato un semplice stratagemma che permette di ritualizzare l’atto, come descritto sopra, seguendo un modello diverso di logica non-ordinaria. Prendiamo possesso del sintomo compulsivo attraverso la sua trasformazione.

È stato dato alla giovane donna questo compito: “Da questo momento fino a quando ci rincontreremo, ogniqualvolta avrai voglia di ripetere una delle tue formule, dovrai pronunciarla al contrario. Potrai farlo tutte le volte che vorrai, secondo le tue abitudini, però partendo dalla fine verso l’inizio. Per esempio, se dirai la parola “uomo”, diventerà “omou”. Così ripeterai nella tua mente “omou, omou, omou…” tutte le volte necessarie. Se la formula è composta da più parole e numeri, l’esercizio sarà più difficile. In ogni caso, tu possiedi una mente ben allenata, giusto?”



Alla seduta successiva, la paziente mi disse che la cosa la sfiniva, ma era molto efficace, perchè dopo un pò di giorni i rituali erano diminuiti, e, il giorno prima della seduta, si erano verificati soltanto due episodi, immediatamente soppressi dall’attuazione della prescrizione. Ancora una volta abbiamo condotto la patologia all’auto-distruzione.

Un altro stratagemma, usato per pazienti ossessivo-compulsivi che devono recitare preghiere o riti particolari ripetutamente, consiste nel crearne, sulla stessa linea del rito del paziente, un altro più complesso ed elaborato, quindi apparentemente più efficace.



I nostri ultimi risultati empirico-sperimentali dimostrano che contro-rituali pre-elaborati non sembrano funzionare al meglio con pazienti che mettono in atto rituali propiziatori razionali-preventivi che hanno lo scopo di prevenire totalmente una situazione fortemente temuta. In quei casi si è dimostrato fondamentale cominciare ad agire sulla loro credenza di base, ovvero, che avere il completo controllo li proteggerà dalla situazione ‘pericolosa’. Ad esempio, i pazienti che temono il contagio di ogni tipo, per prevenirlo si lavano continuamente, puliscono e sterilizzano se stessi, la casa e tutte le altre cose. Ma paradossalmente, è proprio quando tutto è perfettamente pulito e sterilizzato che la paura del contagio comincia a crescere, e con essa aumenta la necessità di compiere il rituale compulsivo. È quando tutto sembra essere “sotto controllo” che il timore raggiunge livelli più alti. Questo perchè a quel punto l’individuo deve stare continuamente all’erta e pronto a mantenere tutto “perfetto”.

In tali casi, dobbiamo cominciare ad insinuare un dubbio: la prevenzione totale, il controllo assoluto, la pulizia o l’igiene completa sono veramente la giusta maniera per ridurre ed infine eliminare questa paura? Quindi, utilizzando domande “discriminanti” guidiamo il paziente a domandarsi se davvero debba temere di più la pulizia totale piuttosto che lo sporco. Per esempio: “Alla fine quand’è che sorge il problema, quando sei sporco o quando sei completamente pulito? Quand’è che senti il bisogno compulsivo di compiere il tuo rituale, quando sei un pò sporco o quando tutto è immacolato e tu devi proteggere e salvaguardare quella situazione?”. Così, utilizzando domande ad illusione di alternativa e parafrasi, cominciamo a modulare la percezione del paziente, quindi la sua reazione nei confronti della circostanza che provoca la paura. Introduciamo l’idea che “un pò di disordine aiuta a mantenere l’ordine”.

“Da adesso fino a quando ci incontreremo di nuovo, vorrei che tu provassi questo piccolo esperimento, seguendo l’idea che un pò di disordine aiuta a mantenere l’ordine… Ogni giorno devi deliberatamente toccare qualcosa di sporco con il dito, qualcosa che tu sai essere sporco, poi tieni il tuo dito insudiciato per 5 minuti, non un minuto di più, non uno di meno. Una volta che i 5 minuti sono trascorsi, sei libero di lavarti le mani nel modo che preferisci, proprio come vuoi… ma per 5 minuti, non uno di più non uno di meno, devi tenere il dito sporco… 5 volte per 5 minuti al giorno…”.



Quando il paziente teme il contagio o le infezioni, utilizziamo spesso l’analogia con i futuri re, gli eredi al trono, che erano spesso soggetti ad aggressioni da parte dei traditori ed erano quindi resi immuni a tutti i veleni esistenti. Fin da tenera età venivano sottoposti a piccole dosi di veleno. Ogni giorno la dose veniva aumentata fino a che non arrivava il giorno in cui il futuro re diventava totalmente immune al veleno, e nessun tipo di pozione poteva ucciderlo, neanche se fosse stata versata nel suo calice da un traditore. Sulla base di questa saggezza, al fine di diventare immuni del tutto a qualcosa, e poter avere controllo su di essa, non la si deve evitare o prevenire, ma al contrario la si deve prendere e sopportare a piccole dosi finchè arriva il giorno in cui non avrà più alcun effetto su di noi.

Nella maggior parte dei casi, anche la più ostinata delle ossessioni e delle compulsioni può essere vinta semplicemente ridefinendo la situazione e creando ad hoc una serie di concrete esperienze emozionali-correttive che liberano il paziente dal suo sistema percettivo-reattivo rigido e auto-alimentante.

È questo modello in costante auto-correzione che, con le sue tecniche apparentemente semplici, ci ha permesso di raggiungere straordinari e, in qualche misura, persino sorprendenti risultati. Questo può apparire come qualcosa di magico, ma non è nient’altro che tecnologia avanzata. Come Clark affermava “… la tecnologia avanzata è nei suoi effetti indistinguibile dalla magia”.


da: www.psicolab.net













La terapia del disturbo ossessivo-compulsivo

Nella rubrica di questo numero parlerò della terapia del disturbo ossessivo-compulsivo, riportando un intervento che lessi ad un convegno intitolato "Premesse cliniche alla ragion d'essere delle terapie del disturbo ossessivo-compulsivo", organizzato dalla I Clinica Psichiatrica dell'Università "La Sapienza" di Roma il 27-9-97. Quella occasione mi ha permesso di riflettere su questo interessante disturbo, che, come vedremo, riguarda sia la psicoanalisi che la psichiatria, per cui avremo modo anche di tornare sul tema della integrazione tra diversi approcci terapeutici, di cui ho parlato nella precedente rubrica (Il Ruolo Terapeutico, n. 79/1998).


All'inizio del secolo l'attenzione di Freud fu catturata dal disturbo ossessivo-compulsivo come una delle più affascinanti e misteriose patologie mentali [Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (Caso clinico dell'Uomo dei Topi), 1909, Opere, 6: 1-124; La disposizione alla nevrosi ossessiva, 1913. Opere, 7: 235-244]. Però già nel 1926 osservò che questo disturbo è "il più interessante e gratificante oggetto di ricerca analitica, ma, come problema, non è stato ancora padroneggiato" [Inibizione, sintomo e angoscia, 1926. Opere, 10: 233-317]. A tutt'oggi, circa settant'anni dopo, possiamo dire che in campo psicanalitico siamo ancora in difficoltà rispetto questo disturbo, tanto affascinante e promettente a livello teorico, quanto frustrante a livello terapeutico. Non solo, ma mentre la ricerca psichiatrica ha fatto progressi significativi, le basi della teoria psicoanalitica del disturbo ossessivo poste con chiarezza da Freud furono modificate solo marginalmente dagli psicoanalisti negli anni successivi. Come osserva A.H. Esman in una review del disturbo ossessivo-compulsivo come paradigma del difficile rapporto tra psicoanalisi e psichiatria [Psychoanalysis and general psychiatry: obsessive-compulsive disorder as paradigm. J. Am. Psychoanal. Ass., 1989, 2: 319-336], sembra che negli ultimi decenni nella letteratura psicoanalitica regni un disinteresse verso questo disturbo: sono rarissimi i contributi, e ai congressi non vengono quasi mai organizzati panel o discussioni sistematiche sulla sua terapia e sulla sua concettualizzazione psicoanalitica. Uno degli ultimi contributi ufficiali è stato il resoconto di Anna Freud del panel tenuto al Congresso dell'International Psychoanalytic Association del 1965 sulla rivalutazione delle concezioni classiche della nevrosi ossessiva [Obsessional neurosis: a summary of psychoanalytic views as presented at the congress. International Journal of Psychoanalysis, 1966, 47: 116-122]. Tra le principali osservazioni di Anna Freud vi fu la sua sottolineatura della importanza dei fattori "costituzionali", compresi quelli ereditari, nella genesi del disturbo ossessivo, piuttosto che dei fattori ambientali; sarebbero questi fattori costituzionali quelli responsabili della "intensità delle tendenze sadico-anali", come lei si espresse, e della "preferenza" da parte del paziente verso un determinato meccanismo di difesa, cosa che poi determina il quadro sintomatologico. Svalutò anche l'importanza di ricercare le cause determinanti il disturbo ossessivo nello sviluppo precoce del bambino, in quanto potevano essere considerate aspecifiche dal punto di vista eziologico, mentre lo potevano essere le "fissazioni" o le "regressioni" alla fase anale, dovute appunto alla intensità costituzionale di determinate tendenze libidiche in questi pazienti. I tentativi psicoanalitici si rifacevano quindi alla teoria dello sviluppo libidico postulata da Freud, ma i complessi motivi della regressione, della fissazione e della organizzazione difensiva non furono mai sufficientemente capiti, per cui i concetti metapsicologici della tradizione psicoanalitica classica (Io, Es, libido, ecc.) furono utilizzati da tanti analisti, lungo quasi tutto il corso di questo secolo, come narrative più o meno convincenti che non sono però mai state validate dalla ricerca empirica. Si ha la impressione che questi concetti metapsicologici per tanti siano stati utilizzati a piacere per razionalizzare quello che non si riusciva a capire nella clinica, per mantenere la sensazione rassicurante che da qualche parte vi fosse una spiegazione, un senso che al momento sfuggiva (un po' come molti fanno con l'oroscopo, che data la sua elasticità e non falsificabilità - nel senso di Popper - pare abbia una risposta per tutti gli eventi della vita).


Eppure il contributo di Freud fu fondamentale nella storia di questo disturbo. Come osserva Esman, anche se la delineazione della sindrome ossessivo-compulsiva emerse dalla tradizione della psichiatria descrittiva francese, fu Freud colui che la fece uscire dalle nebbie del misticismo ottocentesco e ne permise una comprensione clinica. Le sue costruzioni esplicative resero possibile a tanti clinici di empatizzare coi tormenti dell'ossessivo, coi suoi dubbi irrisolvibili, coi suoi rituali e ruminazioni. La descrizione psicoanalitica di questa nevrosi è molto convincente nella delineazione della continua lotta quotidiana del paziente: l'ambivalenza, il bisogno disperato di controllo, la lotta contro quelli che il paziente percepisce come desideri proibiti, la qualità rigida e implacabile delle sue proibizioni interne, la sua propensione per il pensiero magico, la confusione tra pensiero e azione, e così via.


Eppure oggi possiamo dire che se molti terapeuti si sentirono più capaci di avvicinare e comprendere il paziente ossessivo, forse non fu così per tanti pazienti, i quali non si sentirono capiti dai loro analisti e in gran parte non trovarono beneficio dalle terapie dinamiche così come venivano praticate, e che si vergognavano del loro disturbo, forse sentendosi anche in colpa per il fatto che non miglioravano dopo aver ascoltato le ingegnose interpretazioni che venivano loro proposte. La vera natura del disturbo ossessivo-compulsivo, per tanti anni, rimase misteriosa. Non solo, ma non si riusciva neppure a conoscere la reale entità del fenomeno, cioè quale ne fosse l'epidemiologia. Per una serie di ragioni, non ultima la profonda vergogna che tipicamente ha sempre caratterizzato coloro ne soffrono e che li fa nascondere il disturbo, per tanti anni si credeva che la reale prevalenza del disturbo ossessivo-compulsivo fosse solo lo 0,05 % della popolazione, mentre negli anni recenti si è potuto dimostrare che la prevalenza lifetime è di cica il 2,5%, una proporzione quindi enormemente maggiore.


Si può menzionare un episodio indicativo del modo con cui l'ossessivo-compulsivo vive la sua esperienza della malattia. Alcuni anni fa Judith Rapoport, una ricercatrice del National Institute of Mental Health degli Stati Uniti che nel 1989 aveva scritto un libro divulgativo sul disturbo ossessivo-compulsivo [Il ragazzo che si lavava in continuazione, Torino: Bollati Boringhieri, 1994], fu intervistata in una popolare trasmissione televisiva americana su questo disturbo, sulle sue manifestazioni, sulla sua eziologia e sulle possibili terapie. Con grande sorpresa dei giornalisti e della autrice stessa, durante la trasmissione e fino nei giorni seguenti la redazione fu subissata di telefonate da tutte le parti degli Stati Uniti da parte di una quantità impressionante di persone ossessivo-compulsive che erano state profondamente toccate dalle parole della Rapoport. Dicevano che "finalmente ora sapevano che anche loro erano persone normali", che avevano una malattia conosciuta, che aveva anche un nome, della quale si erano vergognati per tutta la vita e che non raramente tra enormi fatiche e acrobazie erano riusciti a nasconderla a tutti, afflitti da una profonda vergogna e dalla paura di "essere matti". La sensazione comune espressa in quelle telefonate era di questo tipo: "allora non sono matto, c'è qualcun altro al mondo come me". Un uomo per esempio che per tutta la vita era stato costretto a stare lungo tempo in bagno a compiere determinati rituali, raccontò che era riuscito a nascondere questa cosa persino alla propria moglie, passando lungo tempo nel bagno di notte quando lei dormiva; ora, dopo quella trasmissione televisiva, era stato capace di parlarne con la moglie, e questa nuova sensazione di essere accettato, riconosciuto come un paziente con un disturbo come un altro, aveva portato a un netto miglioramento nel suo stato soggettivo e dei sintomi. Del resto, è stato riportato che un alta percentuale di pazienti ossessivi, e precisamente il 36%, presentano un miglioramento dei loro sintomi solo per aver fatto delle letture divulgative sulla malattia (questa percentuale è la più alta dopo quella dell'efficacia dei farmaci serotoninergici [56%], ed è maggiore di quella di tutte le psicoterapie, dell'uso di altri farmaci [15%], e dei gruppi di self-help [14%]).


Si rimane impressionati da questo reperto: se è vero che la lettura di scritti divulgativi sul disturbo ossessivo-compulsivo, o la consapevolezza di avere una malattia o di essere capiti da qualcun altro, cioè un fattore puramente psicodinamico, ha un impatto così grande sulla manifestazione dei sintomi, c'è da chiedersi come mai le psicoterapie in genere non abbiano dato risultati soddisfacenti.


Si può avanzare un'ipotesi: molte terapie dinamiche non sono state efficaci nel disturbo ossessivo perché erano guidate da una teoria della malattia insoddisfacente e non corrispondente a quella che solo da non molti anni si sta facendo sempre più strada nella comunità scientifica. Probabilmente molti pazienti si sono sentiti inadeguati anche col terapeuta che chiedeva loro determinate prestazioni alle quali non potevano corrispondere, ripetendo e rivivendo, nel transfert, la stessa vergogna che provavano nella vita. Basti pensare che anni fa, e forse ancora oggi in qualche paese, vi sono analisti che credono che uno specifico sintomo ossessivo possa essere eliminato interpretando il suo significato simbolico inconscio, col risultato che il paziente, il quale depone fiducia nel suo terapeuta e nelle sue aspettative, non può che sentirsi inadeguato e colpevolizzato se l'agognato cambiamento non avviene. Per non parlare del franco peggioramento di tanti ossessivi una volta che intraprendono una psicoanalisi classica caratterizzata dalla tipica ritualità e fissità del setting, richiesta di puntualità negli orari e regole ferree che vanno rispettate: molti ossessivi vanno a nozze con questo tipo di terapia ritualizzata, e si comportano come "pazienti perfetti", mettendo in scacco il processo analitico, in una sorta di folie à deux o di gara su chi è più ossessivo nel rispettare le regole del setting. In questi casi si può dire che l'analisi sia quasi il colpo di grazia per questi pazienti. Il terapeuta inesperto può rimanere incastrato in questa ritualizzazione inconsapevolmente incoraggiata dalla sua stessa tecnica, e non sapere che, come vari analisti hanno più volte osservato (ad esempio Cremerius), la tecnica ottimale in questi casi può essere proprio quella di non rispettare il setting da parte dell'analista, cioè di non comportarsi da analista tradizionale, spiazzando così il paziente e coinvolgendolo in comportamenti ed emozioni nuove per lui.


Anni fa trattai con una terapia bisettimanale un paziente affetto da un disturbo ossessivo-compulsivo presente da otto anni, e ottenni, con mia sorpresa, un miglioramento che iniziò a manifestarsi alla 23a seduta con l'eliminazione di un primo rituale ossessivo, e che poi continuò gradualmente fino a una guarigione quasi completa (tra l'altro, è proprio questo il caso clinico a cui si è ispirato Nanni Moretti per uno dei personaggi del film La stanza del figlio, vincitore nel 2001 del David di Donatello e della Palma d'Oro al Festival di Cannes - nel film questo paziente era interpretato da una donna; vedi il dibattito su questo film che si è svolto nella lista SMC e il dibattito che si è svolto nella lista della Società Psicoanalitica Italiana [SPI]). Sono passati oggi più di 10 anni dall'inizio di quella terapia, ed il paziente mantiene ancora in modo stabile il miglioramento raggiunto, che si rafforza sempre di più. Fui talmente sorpreso da questa guarigione, per me inaspettata, che dopo 2 anni ? di terapia volli pubblicare il resoconto dettagliato di questo caso (dopo poco più di 200 sedute), per discuterlo con dei colleghi. Sulla rivista su cui fu pubblicato [Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, 4: 117-126] intervennero, nei tre fascicoli seguenti, una quindicina di colleghi sia italiani che stranieri (tra i quali R.R. Holt, M. Reda, P.L. Wachtel, G. Fossi, G. Liotti, G. Medri, W. Galliano, ecc.) che in vario modo contribuirono alla discussione di questo miglioramento. Sarebbe lungo qui esporre come andò il dibattito e le varie ipotesi formulate nei vari interventi, fatti tra l'altro da terapeuti anche di orientamento diverso (psicoanalisti, cognitivisti, transazionalisti, ecc.). Voglio solo menzionare che alla fine del dibattito volle intervenire il paziente stesso, che, tramite me, inviò alla redazione un suo commento in forma anonima per spiegare i motivi per i quali secondo lui era avvenuto il miglioramento, cioè per descriverli con le sue parole, così come lui li aveva percepiti (il paziente era al corrente che avevo pubblicato il suo caso - anche se mascherando alcune cose per non renderlo riconoscibile - poiché avevo dovuto chiedergli il permesso, ed aveva anche seguito con interesse il dibattito sulla rivista). Ebbene, la sua spiegazione del miglioramento era diversa da quella ipotizzata dalla maggior parte dei colleghi intervenuti: si basava soprattutto nel aver trovato in me un "compagno di viaggio", per così dire un "amico", che aveva condiviso con lui la sua sofferenza, e che lo aveva fatto sentire "meno solo" in tanti momenti in cui lottava con i suoi sintomi (per la verità questo compagno di viaggio non era stato sempre capace di essere tale nel corso di questo "viaggio" - ad esempio a volte mi ero annoiato per le sue ruminazioni ossessive - ma quello che era stato importante per lui era il modo con cui avevo gestito queste difficoltà, ad esempio non vergognandomene troppo, elaborandole insieme a lui, cercando di capire anche perché a volte lo trovavo noioso). Aveva detto anche che questa figura amica che lo aveva accompagnato gli era servita come "modello alternativo alle figure genitoriali", il modello di una persona tollerante che per esempio cercava sempre di capire prima di giudicare, che non si vergognava di commettere degli errori ma mostrava una certa accettazione, e così via. Io condividevo questa formulazione, nel senso che la "esperienza emozionale correttiva" [vedi il lavoro di Alexander del 1946 su Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, 2: 85-101, pubblicato su Internet al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/alexan-1.htm] fatta con me gli era servita per poi riprendere un percorso di maturazione psicologica ed eliminare i sintomi (che peraltro erano svaniti uno per uno spontaneamente, senza che io lo coinvolgessi in tecniche comportamentali - riguardo alle tecniche di psicoterapia cognitivo-comportamentale, va detto però che a volte sono molto efficaci: vedi ad esempio il videotape "Recenti sviluppi nella diagnosi e nella terapia cognitivo-comportamentale del Disturbo Ossessivo-Compulsivo"). La mia impressione comunque era che in questo caso un fattore importante responsabile del miglioramento era dovuto anche al tipo di persona che stava dietro ai sintomi, cioè un individuo molto intelligente e motivato, interiormente ricco, con forza di volontà e notevoli doti umane.


Dicevo prima che i progressi della ricerca psichiatrica nei tempi recenti sono stati imponenti. In molti casi la psicoterapia da sola non è efficace, e i farmaci come la Corimipramina o gli SSRI (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors) possono avere un ruolo importante nel mobilizzare i sintomi. Il fatto che i farmaci serotoninergici siano efficaci anche su altri disturbi, ha fatto parlare di uno "spettro ossessivo-compulsivo", cioè di un insieme di disturbi in un qualche modo raggruppabili insieme. Ma ritengo che se questi farmaci hanno un vasto spettro di azione non significa assolutamente che si possa fare una sorta di diagnosi ex juvantibus e postulare uno "spettro". Come osserva S.A. Rasmussen [Commentary: Obsessive Compulsive Spectrum Disorder. J. Clin. Psychiatry, 1994, 3: 89-91], vi sono molte spiegazioni possibili del fatto che questi farmaci agiscano su forme cliniche disparate tra loro, come ad esempio il fatto che la serotonina è diffusamente distribuita in tutta l'anatomia del sistema nervoso, il fatto che è un neuromodulatore mentre i classici neurotrasmettitori sono eccitatori o inibitori, ecc. L'effetto della serotonina per certi versi è paragonabile in medicina all'effetto che i corticosteroidi hanno su una vasta gamma di sintomi clinici e diversi organi (le leucemie, gli eczemi cutanei, e così via), e non avrebbe senso categorizzare con una sola diagnosi tutti i disturbi che migliorano con i corticosteroidi, né parlare di uno spettro di disturbi. In altre parole, questi farmaci possono agire su un processo secondario che è il risultato di varie e distinte eziologie primarie. In questo senso, proprio come nel caso dei corticosteroidi, i farmaci serotoninergici possono migliorare il disturbo ossessivo-compulsivo, ma non curarlo, cioè non incidere a livello eziologico. Come si è espresso Donald Klein nella sua introduzione alla monografia di E. Hollander [Obsessive Compulsive Related Disorders. Washington, D.C.: American Psychiatric Press, 1993], se l'enuresi notturna risponde bene all'antidepressivo Imipramina non significa che essa sia un tipo di depressione.


Il fatto che la psicoterapia abbia prodotto pochi benefici nel disturbo ossessivo-compulsivo, e contemporaneamente che i farmaci serotoninergici producano risultati, ha portato ad enfatizzare la terapia farmacologica come terapia privilegiata o "di prima scelta" per questi disturbi. A costo di ripetere cose per molti scontate, ritengo che questo modo di ragionare sia scorretto, nel senso che i farmaci e la psicoterapia non devono mai essere visti come alternativi l'uno rispetto all'altro. L'intervento psicologico, come rapporto medico-paziente più o meno strutturato in una forma di psicoterapia, fa sempre da sfondo a qualunque tipo di intervento somatico o biologico e lo influenza a volte profondamente. Alcuni psicofarmacologi quando lavorano coi pazienti sembra che siano di fronte a un tavolo autoptico, scordano cioè la differenza tra una scienza di base e la clinica. Lo stesso modello medico classico ha sempre avuto una concezione complessa della clinica, dove l'effetto placebo viene sempre tenuto in considerazione e studiato come una variabile fondamentale. Nella storia della medicina, la psicoterapia può anche essere considerata come un tentativo di massimizzare l'effetto placebo allo scopo di renderlo più controllabile, più specifico, ripetibile, e più stabile nel tempo. Nel lavoro clinico è impossibile far finta che determinate variabili legate al rapporto interpersonale non esistano, e se queste variabili esistono, tanto vale conoscerle ed utilizzarle a scopo terapeutico, secondo le capacità di ciascuno e il tempo a disposizione, imparando dall'esperienza accumulata da generazioni di psicoterapeuti nel corso di questo secolo.


Se dicevo che non ha senso concepire farmaci e psicoterapia come alternativi, non ha neppure senso, a mio parere, parlare di "terapie integrate". A volte si scorda che il concetto di integrazione, per esistere, presuppone che vi siano delle cose da integrare, cioè che esse esistano come separate (ho accennato a questa problematica nella mia rubrica sul numero scorso del Ruolo Terapeutico, 79/1998, dove riportavo il mio intervento letto a una tavola rotonda tenuta a Bologna sulla integrazione delle psicoterapie - curiosamente, quella tavola rotonda fu tenuta proprio il 27-9-97, lo stesso giorno in cui lessi a Roma questo intervento, ed è questo il motivo per cui non potei partecipare di persona). In psichiatria invece, così come in medicina, non esiste la possibilità di somministrare farmaci a prescindere dal rapporto interpersonale: il rapporto col medico ha di per sé degli effetti, all'interno di esso possono essere fatti vari interventi, uno dei quali è somministrare dei farmaci, i cui effetti vanno valutati attentamente dal clinico tenendo sempre in considerazione il tipo di effetti placebo che si sviluppano in aggiunta a quelli farmacologici (vedi a questo riguardo la mia rubrica sul n. 86/2001, dedicata proprio a questo tema). La psichiatria quindi è sempre "integrata", o meglio, è sempre clinica, cioè un rapporto interpersonale in cui avvengono varie cose che hanno diversi significati, e ciascuno degli interventi va analizzato attentamente tramite i rispettivi strumenti disciplinari. Se è vero infatti che nel disturbo ossessivo esistono alterazioni neurobiologiche, queste possono essere affrontate terapeuticamente, se possibile, con mezzi appropriati, senza che questa cosiddetta "integrazione" rappresenti un problema di qualsiasi tipo, né pratico né teorico, per ciascuno degli statuti teorico-pratici dei singoli approcci. Tra l'altro, fu proprio Freud a parlare di una "predisposizione costituzionale" allo sviluppo della nevrosi ossessiva e di una "precocità" dello sviluppo dell'Io, originata da uno squilibrio tra lo sviluppo cognitivo e quello emotivo. Oggi, alla luce delle recenti acquisizioni sulle alterazioni meurochimiche e neuroanatomiche (sia strutturali che funzionali) in molti pazienti ossessivo-compulsivi possiamo forse ipotizzare la eziologia squisitamente non psicologica (ammesso che sia possibile esprimersi in questi termini dualistici - non entro qui nel problema del rapporto mente-corpo) di alcune delle tipiche difese ossessive, quali l'isolamento dell'affetto e la intellettualizzazione, così pure come certi pensieri o ruminazioni autocolpevolizzanti o dubbi ossessivi: questi possono originare, ad esempio, da problemi di differenziazione emisferica in cui predomina l'attività dell'emisfero sinistro e/o esiste un deficit nella struttura o nella funzione dell'emisfero destro, cosicché non si è raggiunta una adeguata integrazione e armonizzazione delle varie funzioni psichiche (la "integrazione" delle funzioni psichiche è sempre stato l'obiettivo della terapia analitica - rimando anche al lavoro di W. Bucci sulla "Attività Referenziale" [Psychoanalysis and Cognitive Science: A Multiple Code Theory. New York: Guilford, 1997; trad. it.: Psicoanalisi e scienza cognitiva, Roma: Fioriti, 1999; ho parlato della Bucci a pp. 97-99 del mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995]). Ma queste alterazioni biologiche provocano in secondo luogo una reazione con disturbi squisitamente psicologici (quali soprattutto la vergogna, il senso di inadeguatezza per non capire sé stessi e la coazione dei propri comportamenti, onde la paura di essere "folli", ecc.), ed è anche a questi problemi che va indirizzata una adeguata psicoeducazione e effettiva "interpretazione" delle cause dei sintomi.


Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

Disturbo ossessivo


A differenza di altri disturbi psicologici, sostanzialmente omogenei, nella pratica clinica si possono distinguere con relativa chiarezza sette tipologie di disturbo ossessivo-compulsivo, talvolta presenti in concomitanza. - Disturbi da contaminazione - Si tratta di ossessioni e compulsioni connesse a improbabili (o irrealistici) contagi o contaminazioni. Sostanze "contaminanti" diventano spesso non solo lo sporco oggettivo, ma anche urine, feci, sangue e siringhe, carne cruda, persone malate, genitali, sudore, e persino saponi, solventi e detersivi, contenenti sostanze chimiche potenzialmente "dannose". Se la persona entra in contatto con uno degli agenti "contaminanti", mette in atto una serie di rituali di lavaggio, pulizia, sterilizzazione o disinfezione volti a neutralizzare l'azione dei germi e a tranquillizzarsi rispetto alla possibilità di contagio o a liberarsi dalla sensazione di disgusto. 

- Disturbi da controllo - Si tratta di ossessioni e compulsioni implicanti controlli protratti e ripetuti senza necessità, volti a riparare o prevenire gravi disgrazie o incidenti. Le persone che ne soffrono tendono a controllare e ricontrollare sia per tranquillizzarsi riguardo al dubbio ossessivo di aver fatto qualcosa di male e non ricordarlo, sia a scopo preventivo, per essere sicuri di aver fatto il possibile per prevenire qualunque possibile catastrofe. Controllano così di aver chiuso le porte e le finestre di casa, le portiere della macchina, il rubinetto del gas e dell'acqua, la saracinesca del garage o l'armadietto dei medicinali; di aver spento fornelli elettrici o altri elettrodomestici, le luci in ogni stanza di casa o i fari della macchina; di non aver perso cose personali lasciandole cadere; di non aver investito involontariamente qualcuno con la macchina

- Ossessioni pure - Si tratta di pensieri o, più spesso, immagini relative a scene in cui la persona attua comportamenti indesiderati e inaccettabili, privi di senso, pericolosi o socialmente sconvenienti (aggredire qualcuno, avere rapporti omosessuali o pedofilici, tradire il partner, bestemmiare, compiere azioni blasfeme, offendere persone care, ecc.). Queste persone non hanno né rituali mentali né compulsioni, ma soltanto pensieri ossessivi. 

- Superstizione eccessiva - Si tratta di un pensiero superstizioso portato all'eccesso. Chi ne soffre ritiene che il fatto di fare o non fare determinate cose, di pronunciare o non pronunciare alcune parole, di vedere o non vedere certe cose (es. carri funebri, cimiteri, manifesti mortuari), certi numeri o certi colori, di contare o non contare un numero preciso di volte degli oggetti, di ripetere o non ripetere particolari azioni il "giusto" numero di volte, sia determinante per l'esito degli eventi. Tale effetto può essere scongiurato soltanto ripetendo l'atto (es. cancellando e riscrivendo la stessa parola, pensando a cose positive) o facendo qualche altro rituale "anti-iella".

- Ordine e simmetria - Chi ne soffre non tollera assolutamente che gli oggetti siano posti in modo anche minimamente disordinato o asimmetrico, perché ciò gli procura una sgradevole sensazione di mancanza di armonia e di logicità. Libri, fogli, penne, asciugamani, videocassette, cd, abiti nell'armadio, piatti, pentole, tazzine, devono risultare perfettamente allineati, simmetrici e ordinati secondo una sequenza logica (es. dimensione, colore, ecc.). Quando ciò non avviene queste persone passano ore del loro tempo a riordinare ed allineare questi oggetti, fino a sentirsi completamente tranquilli e soddisfatti.

- Accumulo/accaparramento - E' un tipo di ossessione piuttosto rara che caratterizza coloro che tendono a conservare ed accumulare oggetti insignificanti e inservibili (riviste e giornali vecchi, pacchetti di sigarette vuoti, bottiglie vuote, asciugamani di carta usati, confezioni di alimenti), per la paura di gettare via qualcosa che "un giorno o l'altro potrebbe servire..".

- Compulsioni mentali - Non costituiscono una reale categoria a parte di disturbi ossessivi, perché la natura delle ossessioni può essere una qualunque delle precedenti. Coloro che ne soffrono, pur non presentando alcuna compulsione materiale, come nel caso delle ossessioni pure, effettuano precisi cerimoniali mentali (contare, pregare, ripetersi frasi, formule, pensieri positivi o numeri fortunati) per scongiurare la possibilità che si avveri il contenuto del pensiero ossessivo e ridurre di conseguenza l'ansia.


Una forma particolare di ossessione è quella che riguarda la preoccupazione eccessiva e irrazionale di avere una parte del proprio corpo difettosa o deforme (vedi dismorfofobia).


Il disturbo ossessivo-compulsivo colpisce, indistintamente per età e sesso, dal 2 al 3% della popolazione. Può infatti manifestarsi sia negli uomini sia nelle donne, indifferentemente, e può esordire nell'infanzia, nell'adolescenza o nella prima età adulta.

L'età tipica in cui compare più frequentemente è tra i 6 e i 15 anni nei maschi e tra i 20 e i 29 nelle donne. I primi sintomi si manifestano nella maggior parte dei casi prima dei 25 anni (il 15% ha esordio intorno ai 10 anni) e in bassissima percentuale dopo i 40 anni. 

Se il disturbo ossessivo-compulsivo non viene curato, generalmente tende a cronicizzare e ad aggravarsi progressivamente.


La
psicoterapia cognitivo-comportamentale costituisce il trattamento psicoterapeutico di elezione per bambini, adolescenti e adulti con DOC. Essa, come dice il nome, è costituita da due tipi di psicoterapia che si integrano a vicenda: la psicoterapia comportamentale e la psicoterapia cognitiva.

Tra le tecniche più usate della psicoterapia comportamentale per il DOC ci sono quelle dell'esposizione e prevenzione della risposta.L'esposizione allo stimolo ansiogeno si basa sul fatto che l'ansia tende a diminuire spontaneamente dopo un lungo contatto con lo stimolo stesso. Così, le persone con l'ossessione per i germi possono essere invitate a stare in contatto con oggetti "contenenti germi" (es: prendere in mano dei soldi) finché l'ansia non è scomparsa. La ripetizione dell'esposizione, che deve essere condotta in modo estremamente graduale e tollerabile per il paziente, consente la diminuzione dell'ansia fino alla sua completa estinzione.

Perché la tecnica dell'esposizione sia più efficace è necessario che sia affiancata alla tecnica di prevenzione della risposta, perché l'emissione dei rituali ostacola una sufficiente durata dell'esposizione e non consente l'estinzione dell'ansia condizionata. Nella prevenzione della risposta vengono sospesi, o inizialmente almeno rimandati, gli abituali comportamenti ritualistici che seguono alla comparsa dell'ossessione. Riprendendo l'esempio precedente, la persona con l'ossessione dei germi viene esposta allo stimolo ansiogeno e viene invitata a sforzarsi di non mettere in atto il suo rituale di lavaggio, aspettando che l'ansia svanisca spontaneamente.

Si segue insomma il principio "guarda la paura in faccia e cesserà di turbarti".

La psicoterapia cognitiva centra la sua attenzione sulla modificazione di alcuni processi di pensiero automatici e disfunzionali; in particolare agisce su l'eccessivo senso di responsabilità, sull'eccessiva importanza attribuita ai pensieri, sulla sovrastima della possibilità di controllare i propri pensieri e sulla sovrastima della pericolosità dell'ansia, che costituiscono le principali distorsioni cognitive dei pazienti ossessivo-compulsivi.

Trattamento farmacologico

La terapia farmacologica del DOC è stata caratterizzata storicamente dall'impiego dell'antidepressivo triciclico clomipramina (Anafranil). Recentemente si è largamente diffuso l'impiego degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI). Vari studi hanno sottolineato la sostanziale equivalenza terapeutica della clomipramina e degli SSRI nel trattamento del DOC.

La tendenza, per avere un'efficacia anti-ossessiva delle molecole antidepressive, è all'uso di dosaggi che vanno verso quelli massimi consentiti per ciascuna molecola. Può essere necessario un periodo di tempo che va dalle dieci alle dodici settimane prima di ottenere una risposta clinica positiva.

Una percentuale di pazienti che può variare dal 30 al 40% non rispondono ai farmaci. Anche per i pazienti che rispondono in maniera significativa al trattamento farmacologico, la dimensione della risposta è abitualmente incompleta, con pochi pazienti che arrivano ad essere totalmente privi di sintomi. 

Troviamo quindi, per cercare di ottenere un effetto terapeutico, l'uso in combinazione di clomipramina e di un farmaco SSRI, della clomipramina somministrata per via endovenosa, che ha dimostrato di essere una terapia efficace per i pazienti che non rispondono al trattamento per via orale, o di neurolettici di ultima generazione, quali il risperidone (Risperdal, Belivon), l'olanzapina (Zyprexa) e la quietapina (Seroquel).


Quando sia il trattamento psicoterapeutico cognitivo comportamentale che la terapia farmacologica non hanno dato risultati soddisfacenti, può essere utile ricorrere ad un ricovero ospedaliero in una struttura specializzata.


da www.ipsico.org








 


mercoledì 12 dicembre 2007

Cremerius: la psicoanalisi come illuminazione

di Silvia Vegetti Finzi


Il 20 marzo è morto Johannes Cremerius, uno dei maggiori psicoanalisti freudiani, un personaggio storico per contributi culturali e percorso di vita. La morte lo ha colto in Renania dove era nato, nel 1918, e da dove proveniva la sua famiglia, un luogo, come amava ricordare, in cui germanici e romani avevano vissuto in pace per secoli. E proprio italo-tedesca è stata, per vari motivi, la sua collocazione esistenziale, tanto da definire il nostro Paese "la sua seconda patria". Nel 1939 si era rifugiato presso il Collegio Ghislieri di Pavia per studiare medicina senza sottostare alle pesanti ingiunzioni della cultura nazista. Costretto a ritornare in Germania, fu inviato come medico al fronte orientale e, durante la ritirata, fu tra i pochi sopravvissuti a un naufragio nello stretto di Skagerrak. Nel frattempo la sua formazione medica si arricchiva di specializzazioni in psichiatria e medicina interna, di una formazione psicosomatica e di un training psicoanalitico. Nel 1950, invitato negli Stati Uniti, conobbe i maggiori psicoanalisti esuli dall'Europa per motivi politici e razziali, come Alexander, Kriss e Loewenstein, la Horney, Rado e la Deutsch. Al suo ritorno in Germania, la fondazione Rockefeller gli concesse i finanziamenti per l'apertura di un reparto Psicosomatico presso il policlinico di Monaco, ove svolse, tra l'altro, importanti ricerche sulla psicodinamica del diabete mellito. Ottenne poi una cattedra universitaria a Giessen e successivamente a Friburgo. In quegli anni gli psicoanalisti universitari erano fortemente impegnati, secondo gli ideali della Scuola di Francoforte, a promuovere, contro i residui di autoritarismo, lo spirito critico e le istanze democratiche.


Sarà su queste affinità che si realizzerà, nel 1966, il fecondo incontro, in Italia, con Gaetano Benedetti e Pier Francesco Galli, fondatore del Gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia e della nota rivista Psicoterapia e Scienze Umane. Successivamente collaborerà con altri centri affini, ultimo dei quali la Scuola di psicoterapia psicoanalitica che pubblica la rivista Setting . Le numerose opere di Cremerius spaziano, sempre dal punto di vista della psicoanalisi, dalla storia alla sociologia, dalla teoria alla clinica, dall'educazione alla critica letteraria, dall'estetica alla formazione degli analisti. Recentemente intervistato da uno dei suoi più attenti biografi italiani, Marco Francesconi, Cremerius afferma che lo scopo della terapia non consiste nella guarigione intesa come adattamento alle esigenze sociali poiché "la via è lo scopo". E la via psicoanalitica comporta un'esperienza di "illuminazione" di sé e del mondo. Ma questo accade soltanto se la ricerca è condotta nel segno della libertà, al di fuori di regole burocratiche e condizionamenti istituzionali. Il paziente non è un malato ma un uomo impegnato in una difficile impresa esistenziale. Come tale non dev'essere modificato, ma compreso e accompagnato perché la vita è creazione, non adeguazione. "Io penso, dice ancora Cremerius, che possa essere riconosciuto come analista solo chi si sia addentrato nella filosofia freudiana, quindi nelle lotte per la libertà, contro l'antisemitismo e l'oppressione dei deboli, per i diritti dei bambini, per il rispetto delle donne e il riconoscimento del loro valore".


Il suo testamento spirituale si conclude con queste parole: "Vedete, sono un illuminista appassionato, anche se ho dovuto subire delle sconfitte". Ma, per noi, la sconfitta peggiore è la sua morte, l'impossibilità , d'ora in poi, di ascoltare una voce così nobile e forte. Tra i suoi libri principali: Educazione e psicoanalisi, Nevrosi e genialità, Il mestiere dell'analista , editi da Bollati Boringhieri; Psicosomatica clinica , Borla edizioni e Il futuro della psicoanalisi , Armando editore.

Attualità di Cremerius

di Ciro Elia

Mi è stato necessario un periodo lungo di incubazione prima di cominciare a scrivere questo articolo. Sentivo impegnativo e responsabilizzante scrivere, a neppure un anno dalla scomparsa di Cremerius, un commento sul significato della sua figura che non fosse mosso solo da una spinta affettiva, m anche rivolto alla riflessione sulla sua attività didattica e sul suo pensiero, così come mi è stato comunicato ed io l’ho vissuto in venti anni di seminari clinici e teorici e di supervisioni individuali con lui, e come viene espresso nella sua vastissima opera: evidentemente sono ancora presenti dei residui di un “transfert forte” nei confronti di un Maestro che è stato idealizzato e in seguito progressivamente visto in maniera più realistica, ma per il quale permane una grande ammirazione e stima non solo per il contributo fresco e originale dato alla tecnica psicoanalitica, ma anche per la coerenza, così come egli ha scritto di Freud (1991), tra vita e pensiero e la particolare attenzione ai problemi etici della psicoanalisi come professione e come Istituzione.
È stato possibile superare questa difficoltà anche attraverso la comprensione di un mio sogno di qualche giorno fa, lungo e polisemico, del quale riferirò solo l’inizio, riguardante appunto il mio rapporto con Cremerius e la stesura dell’articolo. Nel sogno telefonavo, come ho fatto parecchie volte nella realtà, a casa sua a Friburgo e mi rispondeva la moglie, alla quale chiedevo di poter parlare con lui. A questo punto vedevo la moglie e la figlia guardarsi in faccia perplesse come se non sapessero cosa dire; poi la signora mi diceva di ritelefonare più tardi, verso le undici (la telefonata avveniva nelle prime ore del mattino). Solo in quel momento mi rendevo conto di aver commesso un grosso errore, una dimenticanza, e realizzavo con dolore che non potevo più parlare con Cremerius. Questo sogno esprime chiaramente il desiderio che egli sia ancora vivo e che io possa ancora intendermi con lui, anche solo con un’occhiata come capitava a volte negli ultimi tempi.
Si tratta di un sogno legato all’elaborazione del lutto e delle implicazioni che ogni lutto comporta. Credo allora che la difficoltà maggiore a scrivere l’articolo fosse legata a sentire la sua stesura come una conferma o un’accettazione piena della sua morte.
Non posso evitare, per entrare in medias res, di fare qualche accenno, sull’onda dei ricordi, a come si è sviluppato il mio rapporto con lui, perché credo che i miei vissuti possano essere utili per fornire qualche illuminazione o impressione “dal vivo” sulla sua personalità e anche perché possono influire su certe mie opinioni o giudizi.
Questo articolo non ha nessuna pretesa di esaustività: non ho letto tutti i suoi libri e articoli, ma solo quelli che dal mio punto di vista ritenevo più importanti, e forse sono i più noti, quelli riguardanti la tecnica, la teoria, i rapporti tra psicoanalisi e società nel suo concreto divenire storico e i problemi dell’Istituzione psicoanalitica; mi riferisco ai “Seminari di psicoterapia” dell’82, a “Il mestiere dell’analista” dell’85, a “Limiti e possibilità della tecnica psicoanalitica” del ‘91, a “Il futuro della psicoanalisi” del 2000, e alla serie di articoli comparsi su “Psicoterapia e Scienze Umane” e in piccola parte anche su “Setting”. Inoltre, scopo dell’articolo è in primo luogo ricordarlo a chi l’ha conosciuto, darne l’immagine più viva possibile a chi non l’ha conosciuto di persona ed infine esporre alcune considerazioni sul suo pensiero e la sua ricerca, senza pretendere di farne un’analisi sistematica.
Il mio rapporto con lui ha inizio verso la fine degli anni ‘60; ricordo come se fosse oggi la prima volta che lo vidi e lo ascoltai tenere una relazione al Centro di Psicoterapia di Piazza S. Ambrogio di Pier Francesco Galli, con cui Cremerius stabilirà poi una feconda e duratura collaborazione, e la profonda impressione che mi fece. Il training con lui (e con Benedetti) inizia nel ‘70 e dura sino alla fine degli anni ‘80 insieme ai colleghi del Centro di Psicoterapia e Psicologia Clinica di Via Alberto da Giussano in Milano, da noi fondato. Il rapporto evolve nel tempo, come per tanti miei colleghi, da una visione di lui come Maestro esigente e difficile a quella di collega e amico. Negli ultimi anni della sua vita, ricordando i miei soggiorni a Friburgo per approfondire il training o per festeggiare il suo ottantesimo compleanno e il suo soggiorno a Bergamo, spesso sono andato col pensiero all’evoluzione del rapporto di Hanns Sachs con Freud, così come il primo lo descrive (1944) in “Freud, maestro e amico”, perché per noi, suoi allievi, Cremerius era per tante ragioni la personificazione o riedizione di Freud. Cremerius, sia nel rapporto diretto delle supervisioni soprattutto di gruppo, nelle quali a volte era sferzante, a volte amante del coup-de-théâtre, sia dalla lettura della sua opera, mi è apparso a volte aspro e sconcertante, a volte anche contraddittorio, perché, come Freud, non sistematico, e qualche volta così utopista da non temere l’irrealismo nell’anelito per la sua visione emancipatoria e liberatoria della psicoanalisi. Se nelle supervisioni di gruppo era molto “maschile”, a volte frustrante a volte insinuante, rimanevo poi stupito di trovarlo dolce, materno e molto comprensivo nelle supervisioni individuali.
Queste difficoltà, se si riusciva ad avvicinarsi a lui (oserei dire, a conquistarlo), erano ripagate a profusione dal carisma che emanava, dalla sua autenticità, dal non-conformismo, da quella “vis” che insieme al rigore rende l’analista capace di aiutare il suo paziente, dalla calda apertura che lo porta a parlare di sé anche nei suoi scritti. Non è egli ancora “scandaloso” quando scrive che in certi casi “bisogna superare l’antico tabù che proibisce all’analista di toccare i suoi pazienti” (2000, p.181),1 o quando mette in evidenza oltre all’amore distruttivo tra analista a paziente, anche quello creativo, e parla di psicoanalisi “dell’amore” come via per la guarigione (2000, p.75)? Non è questo in linea con l’affermazione di Freud nella “Gradiva” (1906) che il “processo di guarigione si compie con una recidiva d’amore, …. e questa recidiva è indispensabile.”? Non appare meno “scandaloso” quando provocatoriamente si chiede rispetto ai problemi posti dall’analisi degli omosessuali e dalla loro combattuta richiesta di entrare come analisti nell’I.P.A.: “Se l’omosessualità non è analizzabile, l’eterosessualità è analizzabile?” (2000, p. 84).
Come ho già detto, il rapporto con Cremerius si è evoluto nel tempo non solo per una mia (e nostra) maturazione, ma anche per una sua evoluzione verso una maggiore flessibilità e tolleranza: figlio di una regione della Germania, la Renania Settentrionale-Westfalia, dove si era verificato l’incontro tra l’elemento germanico e quello latino, amante dell’Italia e della cultura italiana, mi piace pensare che egli si sia modificato nel tempo e abbia modificato la sua tecnica non solo a causa dei processi esistenziali, ma anche per la nostra influenza, dei suoi allievi italiani, come egli stesso qualche volta ha affermato.
Gli interessi di Cremerius, studioso straordinario, vanno, da un punto di vista psicoanalitico, dall’educazione alla sociologia, dalla critica letteraria all’estetica, dalla tecnica alla teoria, dalla storia e dalla filosofia politica ai problemi istituzionali della formazione degli analisti. Devo dire che, quando rileggo qualche suo scritto, rimango sempre colpito dalla quantità e congruenza dei minuziosi riferimenti bibliografici e dalla pertinenza e incisività delle sue osservazioni: in particolare la sua conoscenza e analisi critica degli scritti freudiani, soprattutto quelli riguardanti la tecnica, è estremamente approfondita e convincente. Come ho già accennato, mi soffermerò per sommi capi solo su tre aree fondamentali: la tecnica e la teoria della tecnica, la teoria di base o metapsicologia (questo secondo punto non è nettamente delimitabile rispetto al primo), società e Istituzione psicoanalitica.

La tecnica
Dedicherò lo spazio maggiore alla tecnica psicoanalitica, perché il contributo di Cremerius da questo punto di vista è stato il più ampio e il più significativo e perché contiene delle intuizioni, proposte e concettualizzazioni che il pensiero psicoanalitico attuale ha fatto proprie o sta sviluppando, raramente riconoscendone la paternità, se non in ambito tedesco. Credo che il fatto di avere organizzato negli anni ‘80, in qualità di vice-presidente della Deutsche Psychoanalytische Vereinigung (DPV), il “Gruppo Bernfeld” col proposito di riformare gli ordinamenti dell’I.P.A. in senso democratico (tentativo rivelatosi fallimentare) possa avere influito negativamente sulla diffusione della sua opera, insieme al suo successivo ritiro dall’establishment psicoanalitico e ai reiterati articoli critici verso la psicoanalisi istituzionalizzata. Inoltre, mi pare opportuno iniziare dal suo importante contributo alla tecnica psicoanalitica anche per ripercorrere il percorso che egli stesso utilizzava nella formazione, nel senso che dava precedenza assoluta all’approccio clinico focalizzandosi sulle “cose”, sui fatti che accadono nella seduta sia ad opera del paziente che dell’analista, per mostrare successivamente il modello teorico che era stato utilizzato e come era stato utilizzato. La sua raccomandazione è di osservare le espressioni verbali e soprattutto non verbali del paziente, particolarmente all’inizio della seduta, senza voli pindarici di carattere teorico e di porre solo delle ipotesi preliminari, che andranno confermate o confutate nel prosieguo della seduta o delle sedute successive. La teoria della tecnica viene a volte presentata da Cremerius stesso e da qualche suo commentatore come semplice, quasi banale, centrata su transfert e resistenze, transfert e controtransfert, pulsioni e difese. Qui chiaramente egli si colloca nell’ambito del modello pulsionale e di quello strutturale o della Psicologia dell’Io con particolare riguardo alla concettualizzazione di A. Freud [non della Psicologia dell’Io americana che egli ha criticato aspramente nell’ultimo suo articolo (2000) pubblicato da “Setting”], utilizzandoli nel senso del motto charcotiano fatto proprio da Freud: “La théorie, c’est bon, mais ça n’empeche pas d’exister”. Ma questa proclamata semplicità non è che uno dei “trucchi”, consapevoli o inconsapevoli, di Cremerius. Il suo atteggiamento, piuttosto, è di profonda diffidenza nei confronti delle grandi elaborazioni teoriche non provate e dell’onnipotenza terapeutica, in una visione sobria del “mestiere dell’analista” e della terapia stessa: invitando gli analisti a volare basso, afferma provocatoriamente (2000, p.94) che la terapia psicoanalitica non va vista né come un trattamento finalizzato “al ritrovamento della guarigione”, né come “accesso alla più profonda comprensione universale”, al “vero Sé” e al “nucleo psicotico”, bensì come un procedimento che stabilisca le “condizioni psicologiche maggiormente favorevoli per le funzioni dell’Io” (Freud, 1937).
Se prendiamo in considerazione alcuni dei suoi lavori, quali “La regola psicoanalitica dell’astinenza: dall’uso secondo le regole all’uso operativo” (1985), “Traslazione e controtraslazione in pazienti con gravi disturbi del Super-Io” (1991), “Un’analisi critica della tecnica terapeutica di Kohut” (1991), “Tecnica psicoanalitica e sessualità femminile” (2000), ci rendiamo conto che la sua tecnica nel dispiegarsi concreto è estremamente raffinata e complessa e tiene conto di un’ampia serie di elementi che vanno ben oltre i modelli pulsionale e strutturale, utilizzando in primo luogo il modello relazionale, che si rifà a Ferenczi, Balint e Fairbain, in maniera creativa e originale, con grande riguardo e attenzione per i problemi narcisistici del paziente.
Inizierò col rivolgere in primo luogo uno sguardo su “Cremerius al lavoro”, esaminando l’analisi critica della tecnica usata da Kohut nelle due analisi del sig. Z e soprattutto il suo trattamento di Paula, una donna “fallica” che era estremamente aggressiva per difendersi dall’auto-svalutazione, e che naturalmente lo era anche nel transfert (2000, p.61-67).
In questa difficile terapia dall’esito favorevole osserviamo un’elaborazione delle resistenze attraverso un intreccio di feed-back multipli tra interventi non-interpretativi e interpretativi per poter arrivare all’interpretazione del conflitto di base. Mi pare che il punto fondamentale del suo operare tecnico corregga la linea di Freud quale è espressa in “Ricordare, ripetere e rielaborare (1914) e cioè che l’insight come momento cognitivo debba precedere la rielaborazione: per Cremerius insight e rielaborazione sono strettamente connessi e iniziano fin dalle prime battute della terapia. I principali interventi utilizzati possono essere così riassunti: una grande flessibilità nell’accordarsi sul setting (la paziente rifiutava il lettino); creazione di una relazione positiva con la paziente attraverso un costante monitoraggio del controtransfert; movimenti di autodisvelamento da parte dell’analista in un misurato dosaggio di simmetria rispetto a certi movimenti della paziente allo scopo di favorire la sua identificazione con l’analista [l’autodisvelamento o self-disclosure sulla base delle proposte della corrente intersoggettivista della psicoanalisi (Renik 1995, Jacobs 1999)2 è oggi al centro di un grosso dibattito]; non-interpretazione nella fase iniziale dell’analisi delle proiezioni negative sull’analista e quindi delle resistenze, ma risposte precise e sincere di disconferma rispetto alle credenze della paziente [su questo punto credo, come fa Cremerius, che sia opportuno essere più flessibili e giudicare caso per caso rispetto all’ “interpretazione precoce e sistematica del transfert” che Kernberg (2001) mette al primo punto tra le caratteristiche tecniche della corrente psicoanalitica contemporanea da lui considerata come principale (mainstream), nella quale convergerebbero i kleiniani moderni, i neo-freudiani e gli indipendenti inglesi (l’ex-middle group)]; un’estrema attenzione e riguardo per la ferita narcisistica della paziente, riconoscendo la sua sofferenza e la validità dei motivi (anche sociali) che l’hanno portata ad essere così com’è, attraverso un rispecchiamento attivo e positivo del Sé della paziente; nelle medesime interpretazioni di transfert vengono focalizzati insieme ed integrati l’elemento relazionale e quello intrapsichico, nella medesima linea di Gill che nel suo ultimo libro del ‘94 afferma che “la psicoanalisi ha bisogno di entrambe le psicologie: mono-personale e bi-personale” (p.43); lo stesso concetto è riaffermato da Hoffman (2000), che tra i vari aspetti dialettici della situazione analitica pone la dialettica tra intrapsichico e interrelazionale e attribuisce al processo terapeutico la caratteristica della complessità. E Cremerius già nel 1985 nell’articolo sulla regola dell’astinenza scriveva: “…. Orientare il nostro fare a una regola è un’illusione, dobbiamo optare per la dialettica del processo analitico” (p.30) e, a proposito del rapporto transfert-controtransfert, parlava di “campo” e di “un reticolo di rapporti molto complessi” (p.21e 22). Infine, un punto fondamentale della tecnica riguarda l’attenzione all’attività interpretativa sul Super-io (1991): il principio è che non è possibile, anzi che sia controproducente mettere in luce il rimosso, se precedentemente non è stata attenuata la pressione severa del Super-io; l’analista in questo modo si pone, nelle parole di Cremerius, come difensore dell’Io del paziente. Questa attenzione particolare rivolta all’elaborazione del Super-io va di pari passo con la norma della Psicologia dell’Io di interpretare dalla superficie alla profondità dell’Io prima di arrivare ai “contenuti”, in contrasto con la posizione kleiniana delle “interpretazioni profonde”, ed è stata ampiamente ripresa e sviluppata dai neo-psicologi dell’Io americani P. Gray (1994) e F. Busch (1995).
La posizione dialettica di Cremerius e la sua comprensione delle esigenze della clinica si rivelano anche nell’atteggiamento che assume rispetto al quesito se la psicoanalisi debba limitarsi all’attività di illuminazione e rischiaramento (Aufklärung) della coscienza nel senso di Kant e di Freud (anche in senso sociale) o utilizzare anche altri tipi di interventi per aiutare il paziente. Una risposta integrativa già si affaccia nell’articolo dell’81 “Esistono due tecniche psicoanalitiche?”, nel quale si mettono a confronto le caratteristiche della tecnica, cosiddetta paterna, basata sull’interpretazione e sull’insight, con quelle della tecnica, cosiddetta materna, centrata sull’esperienza emozionale. Una seconda risposta viene data nel quarto capitolo del libro “Il mestiere dell’analista” (1985) dedicato al tema della rielaborazione, nel quale sostiene, pure nella scia di Freud, che per favorire “un cambiamento dell’Io” è necessaria un’influenza attiva dell’analista mediante vari tipi di interventi, tra i quali in certe situazioni la manipolazione del transfert, l’utilizzazione di attività supportive quali consigli, interventi pedagogici, ecc. Una serie di ricerche, cominciando da quella ben nota di Wallerstein della Menninger Foundation (1986), e di autori come Luborsky (1984), Pine (1985), Gabbard (2000) ecc., sostengono la compresenza in ogni terapia analitica di un polo espressivo e di un polo supportivo in dosi e modalità variabili a seconda delle esigenze del paziente e l’utilità o la necessità degli interventi supportivi anche nel favorire l’insight. Cremerius afferma a questo proposito che si tratta di tecniche che, pur indispensabili, non hanno una solida base teorica nella psicoanalisi e si chiede se la terapia debba attenersi solo a strategie teoricamente fondate. Questa tematica è chiaramente collegabile alle argomentazioni che egli svolge nell’articolo su “La regola psicoanalitica dell’astinenza”, nel quale critica il concetto di una neutralità che si attiene alle regole e prende invece posizione a favore di “tecnica attiva che lavora con rappresentazioni scopo-mezzi” (1985, p.29). Mi pare tuttavia, come Cremerius stesso suggerisce, che la formula creativa e liberatoria di operare secondo rappresentazioni scopo-mezzi abbia bisogno di essere ancorata a una teoria di base e a una teoria della tecnica che, per quanto sempre da interpretare di volta in volta, da un lato indichino lo scopo da raggiungere in un certo momento della terapia non ottenibile con la pura interpretazione, a volte è addirittura controproducente, e dall’altro quali siano i mezzi non-interpreativi più opportuni, senza naturalmente venir meno al principio dell’astinenza. Nel capitolo di esame critico della tecnica adottata da Kohut nelle due analisi del sig. Z Cremerius, dopo aver messo in evidenza come il successo della seconda analisi non sia legato ai nuovi concetti della Psicologia del Sé, ma ad un uso relazionale e interattivo dei concetti di transfert e di controtransfert (1991, p.136-137), sottolinea come la teoria di Kohut reifica il Sé come homunculus nella psiche (Freud aveva fatto la stessa cosa rispetto alle istanze psichiche) e il modello di pensiero rimane centrato su una metodologia algoritmica, cioè su “un sistema di regole, con cui si sa in anticipo che cosa si fa e che cosa si farà”: il modello di psiche è ancora improntato alle scienze naturali (la stessa critica è svolta da Eagle rispetto al Sé considerato come principio sovraordinato -1984). Allo stesso modo recentemente si esprime Aron (1998), un intersoggettivista il quale, rispetto alla diatriba Kohut-Kernberg sull’idealizzazione dell’analista ad opera dei pazienti narcisisti, scrive che non dobbiamo fare appello a un altro “libro delle regole” per quanto raffinato, ma di volta in volta vedere, tenendo conto anche delle caratteristiche idiosincratiche dell’analista ma non perciò nevrotiche, se permettere alle idealizzazioni del paziente di svilupparsi (Kohut), oppure interpretare sistematicamente l’idealizzazione (Kernberg), oppure fare prima una cosa e poi l’altra o viceversa, come io tendo a fare nella linea flessibile e adattabile di Cremerius.
Tornando ora al problema delle difficoltà che Cremerius aveva rispetto ai fondamenti teorici dell’attività non-interpretativa, attualmente abbiamo a disposizione una serie di scoperte di grande importanza dovute alla ricerca neuroscientifica e al cognitivismo, anche se non permettono a tutt’oggi di costruire una teoria psicoanalitica di base unitaria e comprensiva. Faccio brevemente riferimento alle principali: in primo luogo i processi di pensiero sono intimamente connessi all’attività motoria e il sistema nervoso, non essendo passivo, non ha bisogno di liberarsi inesorabilmente della tensione (come Freud riteneva, per cui la scarica motoria avrebbe impedito l’emergenza dei ricordi del paziente); la psicoterapia viene oggi considerata per una parte rilevante, non unica per altro, come una nuova relazione di attaccamento, una relazione con un nuovo oggetto, la quale è in grado di ristrutturare la memoria procedurale implicita, che è connessa peculiarmente con le modalità di attaccamento all’oggetto (Amini 1996, Fonagy 1999, Gabbard 2000); secondo Lyons-Ruth (1998) e Stern (1998) la conoscenza relazionale, attivata da “momenti di incontro” tra analista e paziente, svolge un ruolo terapeutico importante, che per altro a mio parere non dobbiamo sopravvalutare. Inoltre, da un punto di vista più strettamente tecnico, la stessa attività interpretativa può essere considerata alla stregua di un’“azione”, nel senso che opera un’influenza affettiva sul paziente o veicola messaggi che vanno ben al di là della pura e semplice componente di disvelamento dei contenuti inconsci e, nell’ottica intersoggettiva del processo, gli enactment del paziente vengono oggi messi in relazione con i corrispondenti e sempre presenti enactment dell’analista e viceversa. Queste concettualizzazioni e proposte tecniche favoriscono una posizione più aperta, coinvolta, spontanea dell’analista e forniscono una base teorica sostenibile a una serie di interventi che Cremerius, come abbiamo visto sopra nel caso di Paula, faceva sulla base di un modello interattivo della terapia e secondo un’interpretazione in parte intuitiva dell’ottica mezzi-scopo. Se ora consideriamo i dieci punti fondamentali dello “scambio clinico” formulati da Lichtenberg et al. (1996) nell’ambito dell’attuale Psicologia del Sé, troviamo che la gran parte di questi interventi fanno già parte del bagaglio tecnico di Cremerius, sia che siano o non siano da lui chiaramente esplicitati: creare una cornice amichevole in un clima di sicurezza (vi ricordate quando diceva che il paziente si deve trovare con noi come il pesce nell’acqua?); il messaggio contiene il messaggio, cioè le affermazioni del paziente non vanno viste con sospetto, ma accettate nella loro componente di “verità”; indossare le attribuzioni del paziente cioè cercare di vederci come il paziente ci sperimenta; le resistenze sono atteggiamenti o comunicazioni che vanno esplorate, non affrontate, come qualsiasi altro messaggio; l’importanza dei “coinvolgimenti spontanei disciplinati”; valutazione attenta degli effetti degli interventi, considerando le sequenze della seduta e le risposte del paziente. Tuttavia la differenza fondamentale tra Lichtenberg e Cremerius è che dal primo questi principi tecnici vengono fatti discendere da una teoria del Sé che considera quest’ultimo come centro di esperienza e di motivazione, con il rischio di farlo diventare il principio sovraordinato del comportamento, mentre viene messa del tutto in secondo piano la teoria del conflitto e quindi l’interpretazione in particolare delle pulsioni aggressive e delle resistenze come espressione delle difese. È chiaro che da queste differenze teoriche discendono da fondamentali divaricazioni dal punto di vista tecnico, al di là di alcuni aspetti condivisi. Da un punto di vista generale, per Cremerius si tratta di muoversi su una linea, per quanto possibile, di consapevolezza da parte dell’analista dei fenomeni transferali e controtransferali che, pur dando grande importanza alla relazione, non la consideri di per sé l’elemento centrale dell’attività terapeutica: l’elemento centrale resta la chiarificazione e l’emancipazione non solo per il paziente, ma anche per l’analista. I mezzi non interpretativi a cui Cremerius fa riferimento hanno lo scopo, oltre che di favorire lo sviluppo della relazione e la modificazione del paziente, di incentivare le sue capacità di insight in un processo a feed-back.
Con i pazienti più regrediti, border-line o psicotici, nei quali i ricordi fondamentali sono legati all’esperienza preverbale o anche ad esperienze non-verbali, la psicoterapia deve consentire agli schemi senso-affettivo-motori legati alla memoria procedurale implicita o al codice subsimbolico della Bucci (1997) di essere messi in azione (Stern 1993) o, a mio parere, di essere in certi casi stimolati a manifestarsi. “Le azioni affettive di soddisfacimento protosimbolico o presentazionale” da me descritte (1996) tendono ad integrare consapevolezza e spontaneità da parte dell’analista, allorché in questi pazienti dobbiamo a volte porci lo scopo di stimolare il transfert positivo o anche erotico, a volte di dare senso a un transfert erotizzato, a volte di fornire una risposta e un significato concretisticamente comprensibile all’aggressività confusiva e ingestibile del paziente.

Metapsicologia ed epistemologia
Ho già fatto precedentemente riferimento alle critiche convincenti che Cremerius rivolge alle conclusioni di Kohut rispetto alle due analisi del sig. Z e alla teoria del Sé, in quanto il Sé viene reificato come un homunculus nella psiche allo stesso modo delle istanze freudiane e in particolare dell’Io, e il modello di psiche resta improntato a quello delle scienze naturali (1921, p.136-137). Voglio solo accennare in questo contesto anche alla dura critica di Cremerius nei confronti di Kohut, perché questi nelle sue opere, in una sorta di solipsistico narcisismo, non riconosce di fare riferimento e di attingere ampiamente alla prospettiva relazionale che, iniziando con Ferenczi e passando per autori come Balint e Nacht, arriva a Winnicott, e nei confronti di tutti quegli autori che con scarsa onestà intellettuale non riconoscono il debito verso i loro predecessori. Ben diverso – voglio sottolinearlo – è l’atteggiamento di Cremerius, che si pone criticamente in una posizione dialettica nei confronti del pensiero freudiano e riconosce tutta l’importanza per lui degli autori relazionali, quali Ferenczi, Balint, Fairbain, Racker, ecc., dei quali per altro mette in evidenza gli aspetti deboli.
Per quanto concerne il problema della scientificità della psicoanalisi, Cremerius dichiara in molti articoli e nelle prospettive che traccia nel suo ultimo libro per la psicoanalisi futura (2000, p.180-184) che questa deve accentuare gli sforzi, già intrapresi seppure con esitazione e lentezza, per diventare una “scienza normale”, cioè entrare in un processo di sviluppo nel quale i dogmi e le affermazioni apodittiche del tipo “noi possediamo la verità” vengano messe in discussione. A questo proposito egli ribadisce la necessità che la ricerca empirica permetta di avvalorare o ricusare enunciati clinici e teorici dati per scontati e che il confronto reciproco con le scienze affini diventi più ampio, favorendo un’integrazione laddove possibile. È sua profonda convinzione che la psicoanalisi, in quanto bene che appartiene a tutti gli uomini, non può essere monopolizzata da nessuno, siano individui, associazioni o scuole e, in quanto scienza, debba sempre essere messa in discussione in modo da poter generare nuovo sapere. L’invito al confronto e all’integrazione viene oggi rivolto e tentato da autori quali Bucci (1997), Kandel (1999), Fonagy (1999), Gabbard (2000), ecc. L’ultimo Cremerius (2000) pone, finalmente, anche la metapsicologia tra i concetti vaghi tramandati tradizionalmente, allorché afferma che non è stata ancora sufficientemente smitizzata e si richiama a Holt (1994) nella sua devastante critica a questa parte del pensiero freudiano; pure criticata è la posizione di Wallerstein (1998), allorché questi considera i concetti metapsicologici come utili metafore di cui ci serviamo nella prassi, e viene nuovamente sottolineata la babele linguistica e concettuale che caratterizza ancora il campo delle teorie psicoanalitiche. La critica di Cremerius alla metapsicologia freudiana arriva, almeno in forma così esplicita, solo alla fine dei suoi scritti: in effetti egli non si è mai occupato in maniera particolare della teoria di base della psicoanalisi e della sua incompatibilità, soprattutto nel suo impianto economico o energetico, con le acquisizioni neurobiologiche degli ultimi trent’anni e con la visione tecnica e teorica di tipo relazionale che egli stesso aveva abbracciato. Nell’articolo del 1985 sulla regola psicoanalitica dell’astinenza afferma chiaramente (p.23) che un atteggiamento di astinenza da parte dell’analista produce un danno al paziente, poiché la libido è alla ricerca dell’oggetto, come Fairbain e Balint ritengono, piuttosto che in prima istanza alla ricerca del piacere come formulato da Freud. La posizione clinica e teorica di Cremerius era avanzata rispetto a quella della psicoanalisi italiana di trenta anni fa e tendeva a integrare il pensiero freudiano soprattutto della teoria strutturale con la Psicologia bipersonale e tripersonale di Balint, utilizzando anche certi aspetti di scuola kleiniana successivi agli anni ‘50 soprattutto rispetto ai concetti di transfert e controtransfert (P. Heimann 1950, H.Racker 1957). Il riferimento fondamentale di Cremerius, oltre al pensiero freudiano, è costituito dal middle-group inglese, oggi chiamato dei British indipendents, che tendeva a integrare le formulazioni della Psicologia dell’Io, soprattutto di A. Freud, con alcuni aspetti del pensiero kleiniano, soprattutto rispetto alla teoria degli oggetti internalizzati; per altro egli era molto critico nei confronti degli assunti di base della teoria kleiniana soprattutto per quanto riguarda la concettualizzazione dell’Edipo. Anche da questo punto di vita egli è stato un anticipatore dell’attuale tendenza integrativa, sostenuta già nel 1985 da Thomae e Kächele e ripresa recentemente con particolare enfasi da Kernberg (2001) (in un articolo di cui pubblichiamo su questo numero di “Setting” la traduzione italiana) e da Wallerstein (2002). Da parte di Wallerstein viene messa in evidenza tutta l’importanza delle concettualizzazioni di Ferenczi, che “sono ora fatte oggetto di una vera e propria rinascita di interesse”, ma Cremerius fin dagli anni 70 ha rivalutato e riabilitato l’opera di Ferenczi, dedicandogli uno studio appassionato. Inoltre sia da parte di Kernberg che di Wallerstein viene messa in luce la grande importanza dei British independents, anche perché negli ultimi venti anni hanno favorito l’avvicinamento tra gli psicologi dell’Io e i kleiniani. Rispetto a questi sviluppi della tendenza integrativa da parte di massimi esponenti dell’I.P.A. viene tuttavia il dubbio che possano essere anche stimolati da ragioni “politiche”, nel tentativo di ovviare a quella confusione teorica, che dal punto di vista scientifico è uno dei talloni di Achille della psicoanalisi e contro la quale tante volte Cremerius si è scagliato nel suo impegno forte di fedeltà critica a Freud. Sorge anche il dubbio che questi tentativi di integrazione si risolvano in un ecumenismo di facciata, se non vi è l’impegno a costituire una teoria di base o una nuova metapsicologia, che dia un valido fondamento scientifico alla psicoanalisi. L’invito alla ricerca, ribadito anche negli ultimi scritti, e i suoi dubbi su integrazioni di carattere tattico, vengono ripresi in un recente articolo di Garza-Guerrero (2002) il quale, rifacendosi a Fonagy, sostiene che “la nostra pratica clinica non mantiene nessuna vicina o logica relazione con la molteplicità delle nostre teorie: ciascuna teoria genera tecniche differenti, e, a una volta, la stessa tecnica potrebbe essere giustificata da differenti correnti teoriche”; nello stesso contesto l’autore richiama la necessità di un’integrazione con le risultanze delle neuroscienze, della genetica, della psicofarmacologia, ecc. Si tratta evidentemente di un richiamo a quel modello definito da G.L. Engel (1982) come biopsicosociale, al quale è auspicabile che pure la psicoanalisi faccia riferimento. Del resto, in un quadro concettuale diverso, Freud si richiamava alla molteplicità e complessità dei fattori eziopatogenetici per le nevrosi con il suo concetto di sovradeterminazione.
Per riprendere il tema della metapsicologia appare sconcertante o contraddittoria la fedeltà di Cremerius al concetto economico di pulsione e la sua critica, per altro tardiva, alla metapsicologia freudiana. Mi sono spesso chiesto come mai si sia occupato così poco di un problema tanto importante come quello costituito dall’obsolescenza della teoria di base freudiana: la mia ipotesi, ricordando anche le risposte piuttosto vaghe che dava a certe mie domande nei seminari di teoria, è che il suo principale interesse fosse rivolto alla prassi, alle “cose” legate all’incontro “reciproco” tra analista e paziente e alla relazione stretta tra nevrosi e situazioni politiche, sociali ed economiche. Credo che non gli sfuggissero affatto i contorcimenti e le contraddizioni dovute all’impianto energetico-meccanicista o fisicalista della metapsicologia, che non fu mai adeguata o rivista da Freud alla luce degli sviluppi della biologia della prima metà del secolo. Del resto, nel commovente primo capitolo del suo ultimo libro (2002) dedicato alla franca analisi del suo rapporto con Freud e al passaggio doloroso dell’idealizzazione all’esame critico, egli conclude allo stesso modo del “Freud studioso” e non “dell’organizzatore del movimento psicoanalitico” (p. 47) che la validità delle teorie psicoanalitiche non è affatto dimostrata in modo certo.
La messa in crisi di parte di Cremerius della metapsicologia è avvenuta, a mio parere, quasi controvoglia, perché egli voleva difendere tutta la centralità, nella teoria e nella prassi, del complesso edipico e del concetto di pulsione nel suo duplice aspetto sessuale e aggressivo e nel suo radicamento nella corporeità; inoltre per lui era di fondamentale importanza serbare alla pulsione tutta la sua valenza eversiva rispetto alle situazioni sociali. Nella concezione di Cremerius il rischiaramento o Aufklärung fa da contrappunto o si muove in parallelo, e potrebbe sembrare paradossale, alle vaste implicazioni della pulsione, per cui egli vede gran parte della attuale psicoanalisi appiattita, deistintualizzata e devitalizzata da un lato e svuotata di ogni spinta critica dall’altro. Cremerius non risparmia critiche anche ad esponenti, come Fairbain e Guntrip, della Teoria delle relazioni oggettuali, a cui per altro aderisce per molti aspetti, e alla teoria del Sé di Kohut (2002, p. 81-82), in quanto svalutano l’importanza del complesso edipico e della sessualità a favore della fase pre-edipica. È convinto insieme a Parin (1986) che nelle nuove teorizzazioni la psicoanalisi abbia subito una sorta di “processo di purificazione” come difesa dalla sessualità e una semplificazione e un impoverimento, in quanto l’eziopatogenesi viene ridotta alle difficoltà della prima infanzia e del rapporto madre-bambino e le condizioni socio-culturali perdono ogni rilievo causale. È con queste convinzioni che egli riafferma la sua fedeltà a Freud, ribadendo tutta la pregnanza e immutata attualità di concetti quali “pulsionalità, conflitti pulsionali, passione, angoscia di castrazione, desiderio di incesto”; (personalmente ritengo che la pulsione conservi tutta la sua capacità esplicativa anche se non viene più intesa nella chiave insostenibile dell’energia psichica). D’altra parte, l’atteggiamento di Cremerius nei confronti di Freud è aperto e dialettico perché sottopone a severa critica la contraddizione tra gli scritti tecnici (1911-14) nella loro metafora dell’analista come specchio o chirurgo e il suo operare relazionale nel vivo del rapporto col paziente; inoltre, mette in luce che Freud non interprava le conseguenze sul transfert delle “azioni” che metteva in atto (1985, p.187-188).
Si tratta di concetti che Gill ha estesamente sviluppato nel suo lavoro sull’analisi del transfert (1982), nel quale sottolinea pure che il transfert non è semplicemente la riedizione di un processo endopsichico, ma anche l’effetto di qualche percezione dello stato emotivo dell’analista: questa fondamentale modificazione della visione del rapporto transfert-controtransfert, presente anche nelle formulazioni di Cremerius (1991, p.150), sta alla base di molte attuali concezioni della prospettiva intersoggettiva e costruttivista. Questa concezione interattiva del transfert e del controtransfert trova la sua giustificazione teorica in quelle concettualizzazioni, che da Cremerius non vengono mai sviluppate sistematicamente, ma sono sempre inframezzate alle argomentazioni di carattere tecnico: mi riferisco ai concetti di amore primario, di difetto fondamentale e di “virtù terapeutica dell’oggetto” mutuati da Balint (1968) e alle vicissitudini introiettive e proiettive degli oggetti buoni e cattivi di derivazione kleiniana.
È chiaro quindi che dal punto di vista teorico Cremerius si muove su due piani disgiunti e paralleli, che peraltro riesce a integrare bene sul livello tecnico: quello delle pulsioni e quello delle relazioni oggettuali.
Voglio concludere questa seconda parte dell’articolo con qualche considerazione sulla posizione epistemologica di Cremerius, quale emerge soprattutto dal capitolo su “La costruzione della realtà biografica nel processo analitico” (1985). Dopo aver ricordato il percorso che dalla teoria del trauma sessuale portò Freud alla constatazione che la biografia raccontata dal paziente non ha spesso alcun riscontro nella “realtà materiale”, Cremerius contesta l’effetto terapeutico attribuito di per sé da Freud alle costruzioni e/o alle ricostruzioni terapeutiche e insiste sul fatto che l’analista deve prendere molto sul serio le costruzioni biografiche del paziente nelle quali le difese hanno un ruolo fondamentale, legando le capacità mutative ed epistemiche dell’analisi soprattutto all’interazione reciproca tra paziente e terapeuta e alla sua comprensione. Tuttavia, rimane altrettanto fondamentale per lui la scoperta della realtà biografica nascosta dietro quella raccontata: la realtà biografica ricostruita in analisi comprende non solo i desideri, le pulsioni e le nostalgie dell’infanzia, più tardi ricoperte dalla fantasia, dal romanzo familiare, ecc., ma “anche le condizioni reali, le situazioni storiche che condizionarono queste modalità di elaborazione” (1985, p.169).
La realtà biografica, che origina dal processo psicoanalitico, è dialettica nel senso che il suo valore epistemologico è legato sì alla ricostruzione di quanto il paziente stesso ha costruito o elaborato per via dei propri desideri e difese, ma anche di quanto è stato condizionato dalla realtà storica della sua vita, dalla situazione familiare, ecc., cioè da quanto è stato fatto all’Io. Cremerius considera come costruzione del paziente l’elaborazione successiva della realtà storica, che è a sua volta una realtà vissuta soggettivamente, una realtà psichica, e usa pure il termine di costruzione, una nuova costruzione, per quanto viene elaborato dal processo analitico, e non di ricostruzione, perché è protesa verso il futuro, contenendo in sé un nuovo progetto d vita, più realistico perché tiene conto dell’esame di realtà effettuato. Mi pare chiaro che egli anticipa concetti come quello di Sé narrativo e di narratività in analisi, ma senza scivolare verso posizioni coerentistiche o narratologiche o costruttivistiche estreme.
L’importanza dei traumi reali per la psicopatologia è stata ampiamente riconosciuta da tante ricerche degli ultimi venti-trenta anni, soprattutto nell’area della Teoria dell’attaccamento; sullo stesso piano si pone il richiamo di Pazzagli e Rossi Monti (1999) a una visione epistemologica “binoculare” della psicoanalisi che la “colloca al punto di intersezione tra mondo esterno e interno, tra realtà e fantasia”, citando una serie di autori (Miller 1981, Green 1990, Person e Klar 1995), che hanno deprecato la tendenza attuale a “una generica diffidenza per l’affidabilità di qualunque memoria storica”. E del resto in parecchi punti della sua opera Freud ha sottolineato la qualità dialettica della memoria come registrazione di fatti e di impressioni e come loro ricostruzione successiva.
Al di là del pericolo di qualche confusione legato ad un uso non sempre univoco dei concetti di costruzione e ricostruzione, Cremerius abbraccia chiaramente una visione epistemologicamente dialettica del processo psicanalitico che, come ho cercato di mostrare (2001), si muove tra la ricostruzione o la scoperta di ciò che probabilisticamente è più aderente alle situazioni fattuali di carattere relazionale, pulsionale, familiare, sociale, economico, ecc. del paziente e la costruzione di elementi che appaiono probabilisticamente più ipotetici; inoltre egli dà al termine costruzione il senso del “nuovo” della relazione analitica, della non-ripetizione, della progettualità: per questi aspetti oggi si parla di co-costruzione.
Mi pare che sulla base di questo concetto di costruzione egli possa a ragione essere annoverato tra i precursori del “costruttivismo critico” o “moderato” come Gill (1994) e Hoffman (1998).

La società e l’Istituzione psicoanalitica
Quest’ultima parte dell’articolo riguarda l’insegnamento e il pensiero di Cremerius relativi al rapporto tra psicoanalisi e società e tra psicoanalisi e Istituzione psicoanalitica nella sua concreta realizzazione: il riferimento non è solo all’I.P.A., ma in generale anche agli altri istituti o società di formazione. Si tratta senza dubbio della parte più appassionata e appassionante del suo discorso, sulla quale sovente si tende a sorvolare o a considerarla come superata, perché si tratta di riflessioni critiche incisive, “perturbanti”, che possono mettere in crisi rispetto alla coerenza delle proprie scelte sociali e del proprio operare. Mi pare che il pregio più rilevante di queste sue osservazioni, che utilizzano lo strumento psicoanalitico nella critica della società e dell’Istituzione psicanalitica, sia la loro coerenza e stretta integrazione con aspetti fondamentali della tecnica e della teoria, per esempio riguardo alla sessualità; un altro elemento importante di unificazione tra i vari campi di ricerca è costituito dalla forte impronta di eticità di origine kantiana.
L’impegno etico della psicoanalisi è cominciato con Freud, allorché ha sottolineato in campo clinico l’esigenza della ricerca della “verità” nel paziente e il suo valore terapeutico ed emancipatorio e, rispetto all’eziopatogenesi delle nevrosi, ne ha messo in evidenza anche le origini sociali. Ma Cremerius – credo – rispetto alla coerenza tra vita e pensiero e alla costanza dell’impegno etico nei vari settori della sua ricerca è stato più consistente e congruente del Maestro, del quale mette in luce chiaramente, seppure dolorosamente, le contraddizioni, allorché dopo il 1910 Freud entra in conflitto “tra il mantenimento e la stabilizzazione di ciò che ormai era stato raggiunto e la revisione critica di esso” (1987). Infatti, per assicurare la sopravvivenza del movimento psicoanalitico e delle proprie idee, adattò un’istituzionalizzazione rigida della psicoanalisi e si orientò verso una politica di potere e un’organizzazione di tipo militare o chiesastico: per Cremerius la fondazione dell’I.P.A. segna la fine del pensiero scientifico di tipo liberale per la psicoanalisi. Attraverso una precisa e puntigliosa ricostruzione dei fatti, egli dimostra quanto Freud si sia adattato a una serie di compromessi di natura tattica e politica, cercando di coprire la storia d’amore di Jung con Sabina Spilrein, coinvolgendo la psicoanalisi nel trattamento delle nevrosi di guerra durante il primo conflitto mondiale, oppure accettando più tardi che le Istituzioni psicoanalitiche tedesche si adattassero alle leggi naziste allo scopo di salvarne la continuità. Implacabilmente egli dimostra come Freud abbia estromesso dall’Associazione i cosiddetti deviazionisti o dissidenti come Rank, Reich, Adler, ecc., per ragioni di supremazia e di potere: su questo punto meraviglia, ma poi non troppo, leggere ancora che l’I.P.A. si muove nella linea dell’autoritarismo, allorché un suo esponente, Wallerstein, recentemente (2000) giustifica Freud nei suoi atteggiamenti antiscientifici e parla di “successo … nello sradicare (sic!) i punti di vista di coloro che considerava dissidenti”. Ma Cremerius pone invece Freud fra i dissidenti rispetto a sé stesso (1983), in quanto la sua prassi clinica è molto diversa dalla tecnica indicata dalle metafore dello specchio e del chirurgo e deplora che, anche successivamente alla sua morte fino ai giorni nostri, le Istituzioni psicoanalitiche si siano adattate ad ogni sistema politico. Il suo atteggiamento critico radicale nei confronti dell’Istituzione psicoanalitica come verso tanti aspetti della tecnica freudiana e tante sfaccettature della società fa chiaramente riferimento al pensiero kantiano sia nella connotazione di imperativo etico che nell’uso critico, chiarificatore, della ragione “nella duplice accezione di esercitare la facoltà del pensiero razionale e di esprimere critica, dissenso, contestazione” (Meneguz 2000).
Riprendo ora il tema, centrale per Cremerius, della sessualità (anche del Super-Io per altro egli mette in luce l’aspetto socio-culturale e l’ambiguità nei confronti del potere): esso attraversa profondamente il suo pensiero, dalla tecnica alla teoria e all’esame critico di certi aspetti fondamentali della società. Ho già sottolineato come Cremerius rimproveri alle teorie relazionali e alla Psicologia del Sé di svalutare o non considerare l’importanza per la psicoanalisi della sessualità, del complesso edipico e dei desideri sessuali e aggressivi ad esso connessi, a tutto vantaggio dell’enfasi sulla fase preedipica e di aver fatto diventare la psicoanalisi una teoria che non dà più fastidio a nessuno. In questo modo la psicoanalisi perde di incisività e anche di prestigio in seno alla società e sembra andare a braccetto con la grande richiesta di medicalizzazione che aumenta sempre di più, contribuendo in questo modo alla copertura della conflittualità e del vuoto di partecipazione e di valori etici: così viene favorita la permanenza di un potere che, attraverso la manipolazione dell’immagine e delle parole e la somministrazione del nulla, cerca di perpetuarsi. È nel contesto di queste mie considerazioni che si colloca la domanda di Cremerius e di altri, in particolare dei rappresentanti della Scuola di Francoforte, Marcuse e Adorno, se la psicoanalisi abbia veramente liberato la sessualità e quale sia la sua posizione o significato nella società attuale. La risposta che è stata data è nel complesso negativa e pessimista: non si tratterebbe di una vera liberazione della sessualità, ma piuttosto di un suo uso di tipo pre-genitale a favore del mercato e quindi di interessi politici. Viene perduta la capacità della pulsione e del processo primario a cercare il nuovo, la creatività: si cade in un’oppiacea ripetitività sessuale addomesticata. “Proprio ciò che del processo primario non è indirizzato è l’unica cosa creativa della vita” (Morgenthaler 1993). Inoltre Cremerius, nella sua analisi della società post-moderna, che non è più la società gerarchico-autoritaria dei tempi di Freud basata su istanze o metanarrative come le chiama Lyotard (1981), cioè Stato, Chiese, famiglia, classe, ecc., sottolinea le molteplicità dei modelli e dei comportamenti e la conseguente accentuazione dei conflitti tra i vari ruoli e identificazione: è come se l’individuo dovesse continuare a inventarsi o riciclarsi.
Delle osservazioni di Cremerius sui grandi mutamenti avvenuti negli ultimi cinquanta anni rispetto ai ruoli del padre, delle donne, del rapporto genitori-figli, sottolineerò solo quelle che mi appaiono meno note e più importanti per la psicoanalisi:
1) l’identificazione oggi maggiore da parte dell’analista nel ruolo materno che in quello paterno va di pari passo o va collegata con la maternalizzazione dello stato e dell’assistenza sociale, con tutto il rischio di passivizzazione e di infantilismo dell’individuo;
2) la società richiede il rovesciamento della massima freudiana “dove è l’Io, deve subentrare l’Es” e al primato della genitalità deve sostituirsi quello della pre-genitalità;
3) la domanda più importante che Cremerius pone e si pone è se la psicoanalisi riuscirà a far fronte ai problemi e alle richieste dell’uomo di oggi: sarà in grado di promuovere riflessioni valide sulla teoria della tecnica e sulla teoria di base? Lo stesso problema rispetto ai soggetti “post-moderni” viene riproposta da altri analisti e filosofi: A. Honneth, direttore della Scuola di Francoforte, dà una definizione –mi sembra- condivisibile della società post-moderna (2000): “… vale la pena di conservare … l’osservazione che, di recente, almeno nelle società altamente sviluppate, c’è un aumento della tendenza dei soggetti a concedere e ad immaginare maggiori possibilità di identità interna rispetto a condizioni di attribuzione consequenziale di un ruolo e rigide aspettative di comportamento”. Altri autori (per esempio Giuffrida 2000) sottolineano anche la tendenza della personalità post-moderna all’indifferenziazione, non solo sessuale, in quanto le singole individualità, grazie alla comunicazione mass-mediatica, andrebbero verso l’omologazione e la cancellazione. Galimberti (1999) è pure molto critico verso la comunicazione “tautologica” che ha origine dallo strapotere dei mezzi tecnologici.
Senza assolutamente affrontare qui i problemi posti da Cremerius e da altri autori, vorrei semplicemente proporre qualche considerazione:
1) come fa notare Holt (2001), il post-modernismo, nei suoi riflessi sulla psicoanalisi, se da un lato costituisce nei suoi aspetti di relativismo estremo un grosso pericolo, dall’altro tende a mitigare la rigidità, il dogmatismo, l’autoritarismo degli istituti psicoanalitici, a modificare la freddezza delle formulazioni teoriche, a rivalutare l’importanza degli aspetti di realtà nella relazione analista/paziente;
2) il modello di personalità in psicoanalisi sembra molto cambiato da Freud agli esponenti della Teoria delle relazioni oggettuali (vedasi in particolare, ma non solo Winnicot, citato da Lingiardi e Girosi 2002), per cui il già citato Honneth scrive che “lo stato di maturità del soggetto non è più misurato … in termini di forza dell’Io, ma in termini di capacità di aprirsi ai molti lati della propria persona, come espresso nel concetto di vitalità”;
3) secondo Giuffrida (2002) le patologie attuali, caratterizzate soprattutto dalla difettualità di rappresentare e strutturare una realtà psichica individuale (A. Green 2000), potrebbero dare luogo a un nuovo modo di interpretare il mondo: perché questo avvenga, è però necessario che si adattino schemi nuovi per interpretare la patologia e forse il ruolo o la struttura stessa dell’inconscio: in effetti le attuali correnti intersoggettive e costruttiviste della psicoanalisi ci ammoniscono a tenere sempre presente quanto le nostre credenze e pregiudizi coscienti e inconsci, legati anche alla teoria che abbracciamo, condizionino il nostro atteggiamento verso il paziente;
4) una giovane donna, che ha un comportamento bisessuale e che mi è sembrata parecchio disturbata, mi ha salutato alla fine del primo colloquio dicendomi che non posso capirla perché ho dei valori diversi dai suoi. Si tratta di una immediata e forte resistenza all’analisi e alla relazione con me oppure del fatto che ha sentito che io non sono così aperto alla sensibilità post-moderna?
Sulla scia di Honneth, che prende posizione a favore della capacità della psicoanalisi nella versione della Teoria delle relazioni oggettuali ad affrontare “le nuove soggettività” (egli fa soprattutto riferimento a Loewald), a me pare che dal punto di vista tecnico l’approccio intersoggettivo, che costituisce uno sviluppo della Teoria delle relazioni oggettuali, sia particolarmente indicato a rispondere ai problemi dei soggetti “post-moderni”: la maggior messa in gioco dell’analista nella relazione affettiva con il paziente, la valutazione dell’importanza degli aspetti di realtà della relazione, la capacità di comprendere quanto avviene in questa mutua situazione possono favorire la costruzione o l’elicitazione di quegli schemi affettivo-cognitivi o affettivo-rappresentazionali che mancano al paziente. Si tratta a mio parere di un impegno ancora più complesso e delicato di quanto fosse in passato, in quanto occorre aiutare il paziente a costituire o a ricostruire un Sé che sia in grado di integrare le sue molteplici facce; da questo può svilupparsi la forza del Sé, intesa in senso diverso dal vecchio concetto di forza dell’Io, cioè come capacità di contenere ed articolare la complessità interna, senza che la sua vitalità e creatività ne risultino menomate.
L’ultimo punto dell’articolo concerne la posizione critica di Cremerius rispetto alla psicoanalisi istituzionalizzata: la tratterò solo per brevi flash e commenti, non perché non si tratti di un aspetto fondamentale del suo pensiero, organicamente correlato alle formulazioni tecniche e teoriche, ma perché non voglio far diventare troppo lungo questo scritto volto a ricordarlo con affetto e gratitudine, ma anche con la “leggerezza” che gli era propria, e anche perché mi sono occupato recentemente (2002) e precedentemente (1998) dello stesso problema su “Setting”.
L’importanza che Cremerius attribuiva a questa parte della sua ricerca è confermata dal fatto che sono almeno dodici tra i settantuno articoli, scritti o tradotti in italiano, quelli nei quali egli si occupa con grande passione di questo tema e nel mio ricordo sono molti i seminari del training nei quali ha svolto o fatto riferimento a questi problemi. Inoltre, molta parte dell’ultimo capitolo del libro del 2002 (pubblicato per la prima volta nel 1995 come articolo su “Psicoterapia e Scienze Umane”), che è una sorta di testamento spirituale sul “Futuro della psicoanalisi”, si occupa della preoccupante “situazione che minaccia le Istituzioni psicoanalitiche”.
L’attualità del suo pensiero anche su questo punto viene confermata dalla rilettura di questi suoi articoli ed anche da quelli recentemente pubblicati sullo stesso argomento (Körner 2002, Garza-Guerrrero 2002) in un numero dell’”International Journal”, sui quali mi soffermerò brevemente più avanti.
L’atteggiamento critico di Cremerius è radicale e si rivolge non solo all’I.P.A. ma anche alle Istituzioni psicoanalitiche in generale: le sue osservazioni sono improntate a un marcato pessimismo, ma la prognosi sul futuro della psicoanalisi e sulle se prospettive (tema sul quale negli ultimi venti anni sono stati presentati molti interventi e contributi in relazione alla diffusa sensazione che la psicoanalisi attraversi un periodo di crisi) in quanto idea rimane positiva, piena di speranza e di fiducia. L’analisi di Cremerius è in primo luogo storico-critica, in quanto parte dalla fondazione dell’I.P.A., da quel marzo 1910 quando comincia a determinarsi la scissione tra lo spirito emancipatorio-liberale e scientifico che aveva animato fino ad allora il suo fondatore e le caratteristiche autoritario-gerarchiche dell’Istituzione, alle quali ben presto furono sacrificate le idee innovative, il dibattito scientifico e la ricerca, l’atteggiamento critico verso la società: quest’ultimo dovrebbe avere per Cremerius la stessa portata rivoluzionaria nell’ambito delle idee di quella determinata dall’altro grande innovatore del XIX secolo, Karl Marx.
L’organizzazione chiesastica, il culto della personalità, il “movimento psicoanalitico” come strumento di potere hanno condotto a scissioni o all’emarginazione di tante personalità creative, che sono state considerate come dissidenti e i cui contributi sono stati spesso riconosciuti molti anni dopo dal cosiddetto mainstream (1983). Ma Cremerius nota acutamente che Freud diventò dissidente verso sé stesso non solo per quelle modalità tecniche da lui utilizzate nella prassi, ma neglette o rifiutate nei suoi scritti tecnici, ma anche dal punto di vista teorico: egli infatti con la formulazione della teoria strutturale nel 1922 “scivolò sempre di più verso una posizione dissidente” (1983, p.5) poiché la teoria strutturale non venne accettata da molti analisti. Ancora recentemente P. Gray (1994) e F. Busch (1995), neo-freudiani americani, hanno sottolineato che la teoria strutturale e quella dell’angoscia come segnale non sono state pienamente adottate e sviluppate nella tecnica.
I punti fondamentali sui quali si appunta la critica di Cremerius non riguardano i fattori esogeni della crisi della psicoanalisi, ma quelli interni, legati alla struttura ideologica e organizzativa dell’I.P.A.: si tratta del procedimento di selezione per l’ammissione, dell’analisi didattica e del programma del corso di formazione. Le caratteristiche autoritaristiche di questi tre strumenti fondamentali della formazione vengono a determinare quel tipo di sistema che egli definisce come ”chiuso”, contrapposto al “sistema aperto”: questa terminologia fa riferimento ai concetti di Popper (1942) di società aperta e società chiusa. Non voglio soffermarmi più di tanto sulle articolate riflessioni di carattere storico, pedagogico, psicoanalitico che Cremerius sviluppa rispetto agli effetti negativi di questi tre strumenti: in primo luogo il sistema di selazione dei candidati tende a preferire quelli “normopati“ o “di imitazione”, in secondo luogo l’analisi didattica omogenizza i candidati e li indottrina secondo un determinato credo, in terzo luogo l’indottrinamento è completato da programmi di studio unidirezionali e rigidi, rispetto ai quali i candidati non hanno possibilità di scelta. In questo modo non può essere raggiunto lo scopo principale della formazione psicoanalitica, cioè lo sviluppo di un Io forte e critico, capace non solo di far fronte alle situazioni relazionali che il rapporto analitico comporta, ma anche di porsi “criticamente nei confronti della società” (Freud 1910). Rispetto al sistema di selezione dei candidati, il suo parere (1991, p. 30) è che ci si limiti ad un solo primo colloquio che verifichi che il candidato non soffra di gravi disturbi psichici e che la motivazione sia adeguata. L’analisi didattica, che è una vera contraddizione in terminis perché non permette nessuna soluzione della conflittualità edipica e del transfert, va assolutamente sostituita da una normale, efficace, analisi personale con un analista scelto liberamente dal candidato anche al di fuori dei docenti di quella Scuola o Associazione.
Quanto all’organizzazione della formazione Cremerius auspica, ancora nel suo articolo del ‘95, che gli istituti psicoanalitici si diano un’organizzazione di tipo universitario, in cui si offra ai candidati “uno spazio libero e aperto” (2002, p. 182), in cui, oltre alle supervisioni cliniche e allo studio della psicoanalisi nei suoi vari aspetti, si possano seguire corsi sia delle varie materie umanistiche che delle scienze affini senza programmi rigidamente prestabiliti. Questo Centro psicoanalitico dovrebbe offrire la possibilità a quanti sono interessati alla psicoanalisi, al rapporto tra psicoanalisi e cultura, alla relazione tra psicoanalisi e società di poter frequentare dei corsi o seminari aperti a tutti. Al tempo stesso tale Centro dovrebbe porsi lo scopo di effettuare ricerca in ambito psicoanalitico.
Mi limiterò a qualche commento su queste posizioni di Cremerius. Le sue affermazioni o i suoi desideri sulla organizzazione di un Centro psicoanalitico aperto mi appaiono da un lato entusiasmanti e innovative, dall’altro utopistiche o almeno molto lontane dalla realtà italiana: un Centro psicoanalitico siffatto non potrebbe sostenersi economicamente senza il sostegno dello Stato, il rapporto eventuale con l’Università sarebbe problematico e potrebbe facilmente mettere in forse la sua autonomia. Inoltre, come sottolinea Körner (2002), l’insegnamento attuale della psicoanalisi deve rendere operativi i temi di studio e permettere il controllo dell’insegnamento stesso rispetto all’efficienza e ai risultati, abbandonando, almeno in parte, gli ideali dell’educazione liberale senza perdere di vista la natura particolare, soggettiva, profondamente umana della competenza psicoanalitica. Anche delle proposte di Garza-Guerrero (2002) sottolineerò quelli che mi appaiono più interessanti: 1) l’istituto psicoanalitico dovrebbe adottare un modello educativo universitario autonomo nello stesso senso dell’idea di Cremerius; 2) il sistema di accreditamento dovrebbe basarsi su controlli locali ed esterni, indipendenti dai docenti che hanno seguito il candidato nel training; 3) l’istituto dovrebbe avere una presenza viva e attiva nella comunità locale, lontana da un’aristocratica o timorosa chiusura.
Per quanto mi riguarda ho messo in luce (2002) i grossi ostacoli che devono essere ancora superati nella nostra Istituzione, fondata a Milano da Cremerius e da Benedetti, perché possa diventare una struttura a “sistema aperto”: il problema fondamentale mi pare costituito dall’assenza di un’integrazione democratica tra Scuola e Associazione, soprattutto per quanto concerne la scelta di nuovi Docenti della Scuola, nella quale l’Associazione deve poter far sentire la sua voce. Il rischio naturalmente è che il sistema gerarchico-autoritario di scelta porti alla designazione di colleghi omogenei e sottomessi, a tutto danno della creatività, dello spirito critico, della capacità di iniziativa della Scuola stessa. Il più grosso dono che possiamo fare a Cremerius è quello, già da me auspicato (2002), di una democratizzazione, condivisione e mutualità tra Scuola e Associazione; credo che in questo modo potremmo veramente fare nostra la speranza finale di Cremerius (2002, p.184):
Spero che la generazione che determinerà nel prossimo secolo il futuro della psicoanalisi non la riproduca in maniera missionaria e apostolica…, bensì la proponga come una scienza che non può essere monopolizzata, che ‘appartiene’ a tutti gli uomini…

Note
1 L’anno di pubblicazione e la pagina dei passi citati si riferiscono alle opere ed agli articoli in italiano, per facilitarne il reperimento.
2 Il riferimento è qui al capitolo “Freud al lavoro: uno sguardo al di sopra della sua spalla. La sua tecnica nei resoconti di allievi e pazienti” (1985).


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Sommario
L’articolo, dopo aver messo in evidenza il grosso debito affettivo e conoscitivo dell’Autore nei confronti di Cremerius, maestro e amico, e il lungo lavoro di training con lui, presenta alcune riflessioni sulla sua tecnica, sulle sue posizioni metapsicologiche ed epistemologiche, sulla sua acuta critica nei confronti della società e dell’Istituzione psicoanalitica. In particolare, vengono messe in luce l’attualità della sua posizione tecnica, che anticipa per certi aspetti le recenti formulazioni intersoggettivistiche, pur nella fedeltà ai fondamentali principi freudiani (l’Edipo, la sessualità, le “pulsioni”, ecc.) e la coerenza e la stretta integrazione tra elementi tecnici e teorici e la critica della società e dell’Istituzione psicoanalitica mediante l’ uso dello strumento psicoanalitico.

Summary
First, the article highlights the Author’s debt of gratitude and knowledge towards Cremerius, master and friend, and the long training under his supervision. Then, it presents some comments about his tecnique, his metapsychological and epistemological issues, his sharp criticism towards society and the psychoanalytical institution. Particularly, the following topics are highlighted: the relevance of his technical viewpoints, which anticipates, in some ways, recent intersubjective concepts, though remaining faithful to Freud’s basic principles (Oedipus complex, sexuality, “drives”, and so on); the coherence and the close integration between technical and theoretical elements; the criticism towards society and psychoanalytical institution using the psychoanalytical tool itself.

Ciro Elia