mercoledì 12 dicembre 2007

Il simbolo nella genesi della mente umana

Questo articolo cerca di riassumere in poche pagine l’enorme problema della genesi della mente umana. Facilmente leggibile nella sua argomentazione, presuppone tuttavia nella sua intenzione la conoscenza della psicosi e della sua psicoterapia. Presuppone cioè il concetto basilare che la schizofrenia origina da un disturbo della simbolizzazione del mondo, e che, a sua volta, la simbolizzazione consensuale del mondo è fondata sulla formazione di un simbolo unico e univoco, il simbolo del Sé; che quest’ultimo sta alla base dell’ontogenesi umana, come anche, nella variante psicopatologica, della relazione terapeutica.

Tale esperienza terapeutica viene riflessa in questo articolo alla finestra della storia e filosofia del simbolo. In questa prospettiva la psicosi appare coma la malattia specificamente antropologica, ove la struttura stessa dell’esistenza, e non le funzioni psichiche elementari, viene compromessa.

Non ci può essere nel paziente una vera attività simbolica senza che si costituisca il simbolo del Sé: questa nel corso degli ultimi centomila anni di ominizzazione è stata la conquista maggiore dell’evoluzione biologica e contemporaneamente il grande “salto” nella dualità della vita psichica. Tale simbolo del Sé si sviluppa nella storia dell’uomo, come nel microcosmo della psicoterapia, entro una realtà relazionale non ancora interpersonale, ma intersoggettiva, in quanto il simbolo del Sé nasce nella mente dell’Altro, del genitore#,1 del terapeuta, il quale rappresenta nella sua coscienza i fantasmi proiettivi (e anche irrappresentabili) del paziente.



Il simbolo nella genesi della mente e nelle psicosi.



1. È nota l’ipotesi secondo cui la stazione eretta, propria degli antropoidi, sia stata la premessa del divenire umano, avendo essa liberato gli arti anteriori dal compito della locomozione e permesso ad essi la manipolazione delle cose; manipolazione culminata, nell’epoca paleolitica, nell’invenzione degli strumenti di pietra, il cui uso avrebbe nel corso delle generazioni incrementato sempre più le funzioni e lo sviluppo del cervello anteriore.

Mentre la manipolazione concreta del mondo rimaneva nella preistoria dell’uomo, dell’homo erectus e habilis, ad un livello modesto corrispondente alla creazione delle prime abitazioni, all’uso del fuoco, alla prassi della caccia, si sviluppava nell’uomo la simbolizzazione del mondo. Tale simbolizzazione, di portata evolutiva ancora maggiore della manipolazione concreta delle cose, era fondata sulla scoperta della figurazione. Attraverso l’uso degli strumenti l’uomo scopriva la possibilità di raffigurare, e non solo manipolare, le cose; di raffigurare se stesso e gli animali – come ci mostrano i documenti paleoartistici delle prime culture umane, incisioni sulla roccia, fino poi all’uso dei colori nelle splendide raffigurazioni animali da parte dell’uomo di Cromagnon.

Accanto alla raffigurazione visiva si sviluppava, forse ancora più antica di quella, la raffigurazione verbale, ossia la denominazione delle cose usate e necessarie alla vita, mediante caratteristici suoni gutturali, sfocianti infine nei nomi delle cose.

Raffigurazioni visive e raffigurazioni verbali ponevano l’uomo in una simmetria figurativa ed espressiva con il mondo. Sembra che tale esperienza abbia moltiplicato il senso umano del potere, già fondato dalla manipolazione delle cose. Ora l’utile non era più costituito dal godimento della cosa costruita o predata, ma l’esperienza psichica di poter influenzare qualsiasi cosa rappresentandone la figura (Modell 1968).

Così, secondo gli antichi egizi, la seconda “ creazione “ avvenne (da parte del Dio Ptah) “ dando nomi alle cose “. E noi vediamo, già nei bimbi di tre anni, come essi si indentifichino con le figure adulte più varie (“ il pirata “, “il poliziotto”, “ il bandito “ etc.) per sviluppare la propria identità, per scoprire il proprio Sé proiettandolo sulle possibilità dell’esistenza.

Il simbolo, all’origine, era legato all’identità magica della figura creata dall’uomo con la figura dell’oggetto osservato, e in tal modo posseduto dall’intelletto artistico.

Per “ identità magica“ intendo la consapevolezza che fra la figura simbolica e quella obbiettiva esistesse un nesso misterioso di potere. Non credo, ad es., che l’antico egizio fosse così ingenuo da ritenere che la sua “barca del sole”, costruita e sotterrata per condurre l’anima del defunto nell’al di là, potesse navigare sul Nilo, ma ho motivo di credere che quella figura “assicurasse la realtà del viaggio “. Allo stesso modo, i cibi offerti per garantire la vita postmortale del defunto era ovvio che non fossero effettivamente utilizzati dalla mummia; essi, in un secondo tempo, non furono più reali, ma solo raffigurati nella lapide. Tuttavia essi assicuravano la sopravvivenza del defunto, che non era quella strettamente materiale, ma non era tuttavia concepibile senza la conservazione del cadavere attraverso la mummificazione.

Il legame misterioso che trasformava la figura nell’anima stessa della cosa era il protosimbolo (Werner e Kaplan 1984), la capacità tutta umana di forgiare il mondo intero a propria immagine e somiglianza, che viene proiettata anche nella funzione del Dio. Ecco la prima “ indiazione “ dell’uomo, l’avvento dello spirito nel simbolo, la nascita dell’Homo Simbolicus, che da più di un antropologo viene considerato quale la prerogativa essenziale dell’uomo.

2. L’uomo, è stato detto più volte in questo secolo, non è solo l’Homo Erectus, l’Homo Habilis, ma anche l’Homo Simbolicus e perciò Sapiens.

Già l’antica filosofia indiana (nei detti della Rigveda) diceva che la natura dell’uomo è di tipo simbolico: “ L’uomo è l’unico che sacrifica “.

Ma cos’è il simbolo, questo fenomeno psichico meraviglioso, che trasforma nel percorso evolutivo l’animale in una forma storica di esistenza, quella appunto umana? È anzitutto il passo successivo alla creazione dell’immagine da parte dell’essere vivente.

La capacità di creare immagini (visive, acustiche, tattili, olfattive), delle cose-immagini che ripetono le percezioni, da cui esse hanno origine, ma che permettono la sopravvivenza delle cose nella mente, anche quando le percezioni sono scomparse, e costituiscono così la “costanza spazio-temporale degli oggetti“, corrisponde al vero inizio di una vita psichica.

Senza di esse non potrebbe esserci un mondo interiore; le percezioni esplorano quello esterno, ma esse non costituiscono ancora un soggetto. È nel mondo dell’immaginario, del mentale che ciò, che altrimenti sarebbe solo un meccanismo neurofisiologico, si configura come un soggetto autonomo.

È possibile e verosimile che anche gli animali abbiano immagini. Il cane, che dopo una lunga assenza riconosce festosamente il suo padrone, il favoloso Argo, che presso a morire per vecchiaia scodinzola di gioia al ritorno di Ulisse in patria, conserva nel silenzio e nell’abbandono la vivida immagine di un partner e sta ad attenderlo fino alla morte.

Solo l’uomo, tuttavia, sviluppa simboli. Ossia la capacità di usare immagini o rappresentazioni come rimando ad altre.

Già nella sfera animale, in quella più differenziata, come nel cane e nella scimmia, compare il simbolo più elementare, l’immagine di un’altra immagine concreta nel noto riflesso condizionato di Pavlov.

Ma solo l’uomo parla. È proprio, attraverso il linguaggio verbale, che un’immagine sonora o grafica, la parola, serve a connotare un tutto, anche ciò che non è visibile, udibile, palpabile.

Nell’evoluzione dell’uomo, i simboli più complessi sono immagini che rimandano ad immagini molto più grandi di loro, a complesse esperienze esistenziali, non più percepibili direttamente nell’immaginario, ma solo nel rimando simbolico: Dio, l’Universo, l’Amore. “Das ist die wahre Symbolik”. dice Goethe, “wo das Besondere das Allgemeine repraesentiert”.

Ciò ha una premessa già nella struttura del tempo vissuto, ove l’attimo del presente può richiamare simbolicamente il passato e il futuro. “Fermati, sei bello!“ dice Faust all’attimo fuggente, riassumendo in esso, nel particolare, tutta la visione feconda di un avvenire che da esso emana e che in esso viene anticipata.

Nell’animale ciò non può accadere. L’animale ha una nozione del tempo, come in parte crediamo di sapere, “atemporale“; esso non indaga il suo passato, non se lo rappresenta; non interroga né prevede il suo futuro; vive in un presente illimitato. La morte è una rappresentazione specifica dell’uomo. L’uomo è l’unico essere vivente che la natura ha privato del vissuto di eternità.

Ma la capacità di trasformare un’immagine nell’altra, la creazione del simbolo, ha dato all’uomo una eternità più vasta, come concetto della Trascendenza. Il fatto che nell’Uomo ciascuna immagine possibile rimanda ad un’altra, diviene simbolo di un’altra (come la rosa diviene il simbolo della donna amata, questa diviene il simbolo della madre, da cui scaturisce la vita, e la madre può divenire, a sua volta, il simbolo della madre Celeste) rende impossibile all’uomo di acquietarsi in un simbolo qualsiasi. Il simbolo, come dice Lacan, ci separa per sempre dall’esaudimento completo del desiderio. Se il segno, come afferma Susanne Langer (1967) si riferisce ad una Presenza, il simbolo si riferisce ad una Assenza.

Il simbolo, che rimanda alla cosa, priva l’uomo della cosa stessa, svestita del suo abito simbolico e non dà accesso a quel che Kant chiamava il noumeno: così l’insaziabilità umana, che si distingue dalla fame di ogni altro animale, fonda anche, assieme ad essa, la perenne, cosciente o inconscia nostalgia umana dell’esaudimento completo dell’ideale in “Dio”.

E perciò nascono qui le due grandi dimensioni metafisiche dell’uomo: il Male e il Dolore come conseguenza dell’insaziabilità, come ebbero ben a riconoscere Buddha e Schopenhauer, e l’ideale irraggiungibile, il quale, come ci dice S. Gregorio Magno, può essere toccato solo per attimi (“ furtim et tenuiter. Non solide sed raptim “).

Questa vita spirituale dell’uomo non è comprensibile nei limiti della materia. Ma la materia ne è una base: l’asimmetria cerebrale sembra stare alla base della nascita del simbolo, nel senso che permette un paragone tra due tracce diverse.

L’emergere del simbolo nella mente dell’uomo primitivo, quale esso appare nelle pitture rupestri, ha permesso la creazione di un mondo interiore, ove le immagini appaiono come risvolti di altre. Bisogna, per valutare l’importanza psicologica e culturale di tale processo, riflettere sul fatto, che i nessi simbolici risultanti dall’accostamento e dalla sovrapposizione delle immagini più diverse, non rappresentano più, come la percezione, una copia dell’universo, ma la creazione di un secondo universo esistente soltanto nella nostra mente. È questa la dimensione fantasmatica del simbolo. A questa si aggiunge quella più propriamente cognitiva: l’emergere del simbolo nella preistoria umana, nella mente ancora povera di una conoscenza scientifica delle concatenazioni causali degli eventi, equivaleva al loro legarsi mentale in certe corrispondenze figurative: fenomeno questo così essenziale per la strutturazione di uno spazio psichico interno, che certi autori, come C.G. Jung, arrivano a dire che certe rappresentazioni mentali, errate se interpretate come corrispondenti a fatti reali, sono tuttavia vere dal punto di vista di una realtà psichica.

Lo specchio analogico di nessi simbolici delle cose, delle loro consonanze e somiglianze, forniva la prima chiave per una comprensione olistica, magica dell’universo: chi ne era in possesso aveva già una funzione sacerdotale; i primordi della scienza stanno, come nell’antico Egitto, nelle mani dei sacerdoti.

La terza dimensione del simbolo era infine di natura affettiva. Io vedo quest’ultima soprattutto nella possibilità di elaborare il dolore dell’esistenza, sempre in aumento con lo sviluppo delle strutture nervose e la differenziazione delle civiltà.

La simbolizzazione ci aiuta ad osservare eventi che ci turbano o ci avviliscono allo specchio dei simboli di essi, i quali con le loro più vaste risonanze, che arrivano alle grandi cifre dell’esistenza umana, ci permettono di trascenderci. Qualsiasi religione è per sua natura simbolica; nessuno vede Dio, in nessuna sabbia è impressa la sua orma fuor che nel simbolo.

Il fatto fondamentale, comune alle tre dimensioni del simbolo, è sempre lo stesso: il simbolo, che pone una successione di immagini in relazione semantica le une con le altre, che collega segmenti semantici a rappresentazioni diverse organizzandole così in nessi di significati, creando l’immagine dell’immagine, innalza e approfondisce lo spazio psichico entro cui si configura l’esperienza della vita, aggiunge alla percezione e alla memoria la metafora, l’allegoria, la similitudine, la rappresentazione di cose che non si vedono; aggiunge al mondo esterno, introiettato percettivamente e ripetibile nel ricordo di esso, un mondo interno irripetibile senza tale creazione mentale. Qui sta il vero grande salto evolutivo che separa l’uomo dall’animale, cui sono proprie figurazioni psichiche ancora elementari (il riflesso condizionato può essere considerato come “orimento“ del simbolo, come una sua primissima e ancora rozza anticipazione)

Se a ciò aggiungiamo che il simbolo è anche un rispecchiarsi di sé nell’altro e dell’altro in sé; che il Sé alle origini della vita non preesiste a tale movimento, ma si crea in esso, nello spazio fra madre e bimbo, cosicché lo spazio, il biologico, diviene nell’identificazione storia, tempo; così il neonato acquista un’anima nel pensiero della madre: possiamo allora dire che il simbolo sta alla base del modo di essere dell’Uomo.

3. L’antichità è piena di simboli. Il mito è, come il sogno, un grande simbolo, un simbolo che nasce nella veglia. Vediamone un esempio. Il mito racconta che Europa, la giovane figlia del Re di Tiro, Fenice, giocava sulla spiaggia, allorché un toro, in cui Giove, innamoratosi della giovine, si era trasformato, la rapì e la portò attraverso i flutti del mare sull’isola di Creta; nacque a Creta la cultura europea.

Gli antichi credevano nella realtà concreta dei miti. Eppure ci doveva essere, dietro questa loro ingenua coscienza, il pensiero inconscio che animava il mito; pensiero che noi oggi potremmo formulare come la consapevolezza che un grande movimento culturale nato sulle sponde dell’Asia minore e dell’Egitto, per duemila anni si era sviluppato verso il nord, verso Creta, Cipro, le isole dell’Egeo, le coste dell’Anatolia, il mondo miceneo e greco.

Perché il bisogno dell’uomo di raffigurare in simboli i pensieri astratti, le esperienze della storia e anche gli avvenimenti quotidiani?

Già il sogno ci mostra questa continua traduzione di informazioni, formulabili razionalmente, in immagini e ci sono prove che la traduzione avviene anche in senso contrario, dalle emozioni, alle immagini, ai pensieri (Bucci 1997).

Le immagini che nascono dalle immagini emanano da un sistema analogico proprio della struttura della nostra psiche e del nostro sistema cerebrale: il sistema analogico ha la proprietà di duplicare le immagini così come in origine il neurone si duplicava in senso biologico attraverso la mitosi. Il duplicato psichico, che sostituisce quello fisico (Jouvet 1994), è l’inizio della vita psichica, la quale ha forse la sua culla proprio nel sogno. Sebbene non conosciamo un uomo presimbolico, possiamo tuttavia speculare sulla genesi evolutiva del simbolo, intravedendo tre grandi direzioni di sviluppo filogenetico della mente umana:

L’uomo preistorico sta ancora agli albori della coscienza razionale, così come l’uomo che sogna. Non comprende razionalmente ciò che noi comprendiamo. Crede nella realtà concreta dei miti. Non scorge dietro ad essi ciò che noi oggi chiameremmo il loro significato. Il significato è tutto dentro l’immagine stessa, la quale è allora l’unica espressione possibile del significato.

Quest’ultimo deve essere anche presente nell’Inconscio. Così come nei sogni. La verità appariva anzitutto, nel corso dell’evoluzione, traverso l’immagine, e ancor oggi un detto del Talmud ci dice che essa non è venuta nuda nel mondo, ma vestita del velo del simbolo. Così noi abbiamo appreso a pensare da piccoli: per immagini, accanto alle rivelazioni sensoriali, da cui, pensando, non potevamo allontanarci. In questa fucina di immagini, prima fra tutte il viso della madre che ci amava, ci chiamava per nome, ci immetteva nel suo mondo simbolico. Attraverso di lei il nostro Sé sviluppava il suo primo simbolo, l’immagine del Sé, l’immagine di tutte le immagini del Sé che si andavano creando traverso le prime interazioni sociali.

L’adesione della psiche primitiva al mondo delle immagini, che può apparire al pensiero razionale come una limitazione del pensiero stesso, era tuttavia un atto di liberazione: perché sostitutiva alla concatenazione causale dei segni, quali essi vengono percepiti già dagli animali superiori, il regno del possibile, della fantasia, della creazione della mente umana. L’uomo costruisce il suo mondo, non solo lo percepisce.

Il simbolo rappresenta così la possibilità del Sé di moltiplicare le immagini di se stesso e del mondo attraverso le

sue variazioni pressoché infinite.

Vediamo questo nei sogni, ove ad esempio un qualsiasi contenuto mentale, ad esempio una miseria esistenziale di qualsiasi genere, può apparire come prigione, muro invalicabile, fosso, pantano, tomba etc. La sempre maggiore strutturazione della psiche nel corso dell’evoluzione ha permesso il costituirsi del sistema analogico come modo di auto-costruzione ed auto-riflessione. Il dolore della vita, che aumenta in profondità di pari passo con la complessizzazione dell’animo umano, trova così nell’opera della simbolizzazione una maggiore possibilità di elaborazione, non solo perché esso, attraverso i grandi simboli dell’esistenza, viene trasmutato, ma anche perché esso nelle immagini oniriche della vita quotidiana viene riflesso, guardato dall’Io dormiente che nello stesso atto del guardare si pone al di fuori.



Origine del simbolo



Esiste una situazione fondamentale, in cui vedo originarsi il simbolo: il sogno e l’allucinazione nell’incontro psicoterapeutico. Prima di sviluppare questo pensiero e riconoscerne il suo germe nell’ontogenesi umana, desidero dare qualche immagine immediata del mio discorso. Tre esempi. Un paziente, che si sente perseguitato da voci estranee, che sembrano erompere dalle viscere della terra e dagli angoli più remoti del cielo, ascolta improvvisamente la voce del suo terapeuta, che nel sogno gli dice: “non temere; va nel giardino e odi le voci degli uccelli; sono la voce di Dio.“ Egli non sa distinguere: è il suo terapeuta che gli parla oppure è il suo nuovo Sé, che, nato nell’incontro psicoterapeutico, si afferma vittoriosamente nella lotta contro la psicosi e trasforma la persecuzione in una benedizione?

Un altro paziente sogna che un’interpretazione del suo terapeuta, la quale gli mostra la sua vera identità, altrimenti contraffatta dalla psicosi, “è un raggio di sole, che penetra la sua abitazione non da una finestra, ma dal tetto in giù fino al sottosuolo“. Egli si sveglia con la domanda: “ Era il messaggio del mio terapeuta o è il mio nuovo Sé, che è venuto ad annunciarsi come un raggio di sole? “.

Un terzo paziente sogna di un agnello incatenato, presso a morire di fame e di sete. Egli lo slega, gli dà da bere e da mangiare; improvvisamente non sa: è lui l’agnello o il salvatore di questi? “E chi è questa persona che slega l’agnello e lo nutre: è lui o il suo terapeuta? “

Vediamo in questi sogni come il soggetto del sognatore si apprende nello specchio dell’oggetto terapeutico: anzitutto si identifica con esso e trae da tale identificazione la sua virtù essenziale, la sua forza di vivere; in seguito si distingue da esso, si delimita come persona proprio nell’incontro che lo fa divenir persona.

Noi abbiamo chiamato “soggetto transizionale“ tale immagine del Sé che è anche immagine di un Tu, nel cui viso il Sé si riconosce e si crea; abbiamo anche detto, nelle nostre opere, come il soggetto transizionale in un primo stadio, ancora pre-simbolico, non è pienamente cosciente di sé, non si pone ancora la domanda “chi sono io?“, ma anzitutto esiste prima di riflettere sulla propria esistenza. È poi nell’avvento della piena guarigione che la relazione “inter-soggettiva“ diviene “interpersonale“, nel momento in cui non c’è solo l’identificazione, la fusione, la simbiosi, ma anche la distinzione, la differenziazione, la “personazione“.

È il simbolo del Sé che qui nasce, quel simbolo che permette al Sé di riconoscersi, di essere Soggetto, e di creare quindi, con la riflessione, il proprio Sé-Oggetto.#2



Ho denominato con diverse metafore tale processo, parlando di “simmetria dualizzante”, che trasforma la “confusione psicotica”, fonte di sofferenza, perché senza possibile ricezione sociale, di “simbiosi terapeutica“, in cui il terapeuta col suo Inconscio si identifica col suo paziente, attraversa nei suoi sogni i paesaggi psicotici del suo paziente, veste i suoi vestiti, porta i suoi carichi, viene chiamato col suo nome.

A differenza del paziente, che all’inizio costruisce inconsciamente la sua identità nella “nicchia“ dell’identità altrui, il terapeuta lo precede nella creazione del simbolo, in quanto si riconosce come il vicario del suo paziente, il suo compagno di viaggio e realizza così sin da principio la “complementarità soggetto-oggetto”

Si tratta di una complementarità in cui l’oggetto non è solo il contenuto percettivo, ma la base stessa della percezione. Questo è dunque il simbolo: una simmetria che si costituisce nella asimmetria e che permette quella distinzione, che nell’ontogenesi umana è anche “individuazione”.

La nascita del Sé e precisamente del simbolo del Sé nell’incontro psicoterapeutico, in quella fase cruciale, che è il ponte fra la dissoluzione psicotica del Sé e la sua ricostituzione nella dualità, mi permette di ipotizzare quanto segue.

Primo: non esiste distinzione fra nascita del Sé e nascita del simbolo. Il nostro concetto di “simbolo del Sé “abbraccia ambedue, nel senso che il Sé non emerge alla coscienza se non come simbolo del Sé, ossia come capacità egoica. È un fatto che la rifondazione dell’Io e del simbolo del Sé equivale nella psicoterapia della psicosi schizofrenica alla ricostituzione dell’attività simbolica del soggetto. Mentre nello stadio di confusione psicotica, il legame tra le cose e le parole, fra gli oggetti e le loro rappresentazioni verbali, va perduto (per cui le parole vengono confuse con le cose), si instaura, con la rifondazione del Sé, anche la normale attività simbolica. Mentre, cioè, i cosidetti “simboli schizofrenici“ non sono altro che “protosimboli“, non permettono cioè quella distinzione fra l’immagine simbolizzante e la cosa simbolizzata, viceversa l’emergere del simbolo del Sé va di pari passo con la ricostruzione simbolica del mondo; di un mondo, che non più penetra, scinde, dissolve il soggetto, ma viene invece “posseduto“ cognitivamente.

Secondo punto: è possibile dedurre da ciò qualcosa di fondamentale, che riguarda tutta l’ontogenesi umana? Sappiamo ben poco della vita interiore del neonato, che non può verbalizzarla, ma una cosa mi sembra emergere con chiarezza da tutte quelle ricerche, che da Margaret Mahler (1975) vanno fino a Daniel Stern (1985): quella integrazione di simbiosi postnatale e di individuazione, che permette di osservare i fenomeni sia dal punto di vista della simbiosi, come ha fatto la Mahler, sia dal punto di vista della precoce emersione del Sé, su cui si sono appuntate le ricerche e le osservazioni di Stern.

Simbiosi e distinzione: ecco la natura, la struttura del simbolo.

Nel momento in cui il bimbo si percepisce nel viso, nel sorriso, nel gesto della madre, abbiamo quella identificazione con il mondo che mai è così completa, felice, indubitabile come nella esperienza post-natale (a cui forse, secondo la teoria di Rank, regredisce l’artista, il quale esperisce la sua opera d’arte contemporaneamente come espressione di sé e rivelazione del mondo).

Ma nel momento stesso in cui questo bimbo percepisce la gratificazione dei suoi bisogni vitali come dipendente da un altro (ed esperisce tale dipendenza in modo così totale come mai negli anni successivi), egli apprende in modo fondamentale la distinzione fra Sé e Non-Sé. Il Sé buono, accettato, amato non è dunque la madre, ma il suo simbolo, il simbolo dell’amore materno, che è contemporaneamente il simbolo positivo del Sé. Ecco come dunque abbiamo la nascita del simbolo umano nel primo e fondamentale rapporto duale, che struttura l’intera esistenza. L’origine ultima del Sé, che ci appare nei sogni e nell’incontro psicoterapeutico come fucina di simboli, in ultima analisi ha la sua base nella strutturazione psichica dell’uomo, nella relazione, nella dualità.



Conclusione



Da qui l’importanza della partecipazione del terapeuta al mondo psichico, presimbolico del sofferente psicotico. È in tale partecipazione, fatta di tempo, pazienza, ascolto, interesse, simpatia, proposta, messaggio, interpretazione, fantasia, arte, che il protosimbolo psicotico viene trasformato nel simbolo comune, e che in questo modo si crea nel paziente il “ simbolo del Sé“, il ritrovamento di sé stesso, la scoperta della propria identità, e così la trasformazione dell’intersoggettività (ove la relazione è ancora intrapsichica, fantasmatica, affidata ad immagini che precedono la consapevolezza della propria persona e di quella terapeutica) nella interpersonalità.



Note

##1 Vedasi a questo proposito la relazione tra attaccamento e funzione riflessiva in Fonagy e Target (1997).

#2 Il concetto di simbolo del Sé ha degli degli elementi in comune con il concetto di meta-rappresentazione di Frith (1992) e con quello di funzione riflessiva di Fonagy (1997), pur nella diversità degli ambiti concettuali.



Bibliografia

BUCCI W. (1997) Psychoanalysis and Cognitive Science, The Guilford Press, New York; tr. it. Psicoanalisi e scienza cognitiva, Fioriti Editore, Firenze 1999.

FONAGY P., TARGET M. (1997) Attachment and Reflective Function: their Role in Self-organization, Development and Psychopathology, 9, Cambridge University Press; tr. it. Attaccamento e funzione riflessiva: il loro ruolo nell’organizzazione del Sé, in “Attaccamento e funzione riflessiva”, R. Cortina Editore, Milano 2001, pp. 101-133.

JOUVET M. (1994) Die Nachtseite des Bewusstseins. Warum wir traeumen, Rowohlt, Hamburg.

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MAHLER M. S., PINE S., BERGMAN A. (1975) The Psychological Birth of the Human Infant. Symbiosis and Individuation, Basic Books, New York; tr. it. La nascita psicologica del bambino, Boringhieri, Torino 1978.

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Gaetano Benedetti

Inzlingerstrasse 291

4125 Riehen (CH)

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