di Ciro Elia
Mi è stato necessario un periodo lungo di incubazione prima di cominciare a scrivere questo articolo. Sentivo impegnativo e responsabilizzante scrivere, a neppure un anno dalla scomparsa di Cremerius, un commento sul significato della sua figura che non fosse mosso solo da una spinta affettiva, m anche rivolto alla riflessione sulla sua attività didattica e sul suo pensiero, così come mi è stato comunicato ed io l’ho vissuto in venti anni di seminari clinici e teorici e di supervisioni individuali con lui, e come viene espresso nella sua vastissima opera: evidentemente sono ancora presenti dei residui di un “transfert forte” nei confronti di un Maestro che è stato idealizzato e in seguito progressivamente visto in maniera più realistica, ma per il quale permane una grande ammirazione e stima non solo per il contributo fresco e originale dato alla tecnica psicoanalitica, ma anche per la coerenza, così come egli ha scritto di Freud (1991), tra vita e pensiero e la particolare attenzione ai problemi etici della psicoanalisi come professione e come Istituzione.
È stato possibile superare questa difficoltà anche attraverso la comprensione di un mio sogno di qualche giorno fa, lungo e polisemico, del quale riferirò solo l’inizio, riguardante appunto il mio rapporto con Cremerius e la stesura dell’articolo. Nel sogno telefonavo, come ho fatto parecchie volte nella realtà, a casa sua a Friburgo e mi rispondeva la moglie, alla quale chiedevo di poter parlare con lui. A questo punto vedevo la moglie e la figlia guardarsi in faccia perplesse come se non sapessero cosa dire; poi la signora mi diceva di ritelefonare più tardi, verso le undici (la telefonata avveniva nelle prime ore del mattino). Solo in quel momento mi rendevo conto di aver commesso un grosso errore, una dimenticanza, e realizzavo con dolore che non potevo più parlare con Cremerius. Questo sogno esprime chiaramente il desiderio che egli sia ancora vivo e che io possa ancora intendermi con lui, anche solo con un’occhiata come capitava a volte negli ultimi tempi.
Si tratta di un sogno legato all’elaborazione del lutto e delle implicazioni che ogni lutto comporta. Credo allora che la difficoltà maggiore a scrivere l’articolo fosse legata a sentire la sua stesura come una conferma o un’accettazione piena della sua morte.
Non posso evitare, per entrare in medias res, di fare qualche accenno, sull’onda dei ricordi, a come si è sviluppato il mio rapporto con lui, perché credo che i miei vissuti possano essere utili per fornire qualche illuminazione o impressione “dal vivo” sulla sua personalità e anche perché possono influire su certe mie opinioni o giudizi.
Questo articolo non ha nessuna pretesa di esaustività: non ho letto tutti i suoi libri e articoli, ma solo quelli che dal mio punto di vista ritenevo più importanti, e forse sono i più noti, quelli riguardanti la tecnica, la teoria, i rapporti tra psicoanalisi e società nel suo concreto divenire storico e i problemi dell’Istituzione psicoanalitica; mi riferisco ai “Seminari di psicoterapia” dell’82, a “Il mestiere dell’analista” dell’85, a “Limiti e possibilità della tecnica psicoanalitica” del ‘91, a “Il futuro della psicoanalisi” del 2000, e alla serie di articoli comparsi su “Psicoterapia e Scienze Umane” e in piccola parte anche su “Setting”. Inoltre, scopo dell’articolo è in primo luogo ricordarlo a chi l’ha conosciuto, darne l’immagine più viva possibile a chi non l’ha conosciuto di persona ed infine esporre alcune considerazioni sul suo pensiero e la sua ricerca, senza pretendere di farne un’analisi sistematica.
Il mio rapporto con lui ha inizio verso la fine degli anni ‘60; ricordo come se fosse oggi la prima volta che lo vidi e lo ascoltai tenere una relazione al Centro di Psicoterapia di Piazza S. Ambrogio di Pier Francesco Galli, con cui Cremerius stabilirà poi una feconda e duratura collaborazione, e la profonda impressione che mi fece. Il training con lui (e con Benedetti) inizia nel ‘70 e dura sino alla fine degli anni ‘80 insieme ai colleghi del Centro di Psicoterapia e Psicologia Clinica di Via Alberto da Giussano in Milano, da noi fondato. Il rapporto evolve nel tempo, come per tanti miei colleghi, da una visione di lui come Maestro esigente e difficile a quella di collega e amico. Negli ultimi anni della sua vita, ricordando i miei soggiorni a Friburgo per approfondire il training o per festeggiare il suo ottantesimo compleanno e il suo soggiorno a Bergamo, spesso sono andato col pensiero all’evoluzione del rapporto di Hanns Sachs con Freud, così come il primo lo descrive (1944) in “Freud, maestro e amico”, perché per noi, suoi allievi, Cremerius era per tante ragioni la personificazione o riedizione di Freud. Cremerius, sia nel rapporto diretto delle supervisioni soprattutto di gruppo, nelle quali a volte era sferzante, a volte amante del coup-de-théâtre, sia dalla lettura della sua opera, mi è apparso a volte aspro e sconcertante, a volte anche contraddittorio, perché, come Freud, non sistematico, e qualche volta così utopista da non temere l’irrealismo nell’anelito per la sua visione emancipatoria e liberatoria della psicoanalisi. Se nelle supervisioni di gruppo era molto “maschile”, a volte frustrante a volte insinuante, rimanevo poi stupito di trovarlo dolce, materno e molto comprensivo nelle supervisioni individuali.
Queste difficoltà, se si riusciva ad avvicinarsi a lui (oserei dire, a conquistarlo), erano ripagate a profusione dal carisma che emanava, dalla sua autenticità, dal non-conformismo, da quella “vis” che insieme al rigore rende l’analista capace di aiutare il suo paziente, dalla calda apertura che lo porta a parlare di sé anche nei suoi scritti. Non è egli ancora “scandaloso” quando scrive che in certi casi “bisogna superare l’antico tabù che proibisce all’analista di toccare i suoi pazienti” (2000, p.181),1 o quando mette in evidenza oltre all’amore distruttivo tra analista a paziente, anche quello creativo, e parla di psicoanalisi “dell’amore” come via per la guarigione (2000, p.75)? Non è questo in linea con l’affermazione di Freud nella “Gradiva” (1906) che il “processo di guarigione si compie con una recidiva d’amore, …. e questa recidiva è indispensabile.”? Non appare meno “scandaloso” quando provocatoriamente si chiede rispetto ai problemi posti dall’analisi degli omosessuali e dalla loro combattuta richiesta di entrare come analisti nell’I.P.A.: “Se l’omosessualità non è analizzabile, l’eterosessualità è analizzabile?” (2000, p. 84).
Come ho già detto, il rapporto con Cremerius si è evoluto nel tempo non solo per una mia (e nostra) maturazione, ma anche per una sua evoluzione verso una maggiore flessibilità e tolleranza: figlio di una regione della Germania, la Renania Settentrionale-Westfalia, dove si era verificato l’incontro tra l’elemento germanico e quello latino, amante dell’Italia e della cultura italiana, mi piace pensare che egli si sia modificato nel tempo e abbia modificato la sua tecnica non solo a causa dei processi esistenziali, ma anche per la nostra influenza, dei suoi allievi italiani, come egli stesso qualche volta ha affermato.
Gli interessi di Cremerius, studioso straordinario, vanno, da un punto di vista psicoanalitico, dall’educazione alla sociologia, dalla critica letteraria all’estetica, dalla tecnica alla teoria, dalla storia e dalla filosofia politica ai problemi istituzionali della formazione degli analisti. Devo dire che, quando rileggo qualche suo scritto, rimango sempre colpito dalla quantità e congruenza dei minuziosi riferimenti bibliografici e dalla pertinenza e incisività delle sue osservazioni: in particolare la sua conoscenza e analisi critica degli scritti freudiani, soprattutto quelli riguardanti la tecnica, è estremamente approfondita e convincente. Come ho già accennato, mi soffermerò per sommi capi solo su tre aree fondamentali: la tecnica e la teoria della tecnica, la teoria di base o metapsicologia (questo secondo punto non è nettamente delimitabile rispetto al primo), società e Istituzione psicoanalitica.
La tecnica
Dedicherò lo spazio maggiore alla tecnica psicoanalitica, perché il contributo di Cremerius da questo punto di vista è stato il più ampio e il più significativo e perché contiene delle intuizioni, proposte e concettualizzazioni che il pensiero psicoanalitico attuale ha fatto proprie o sta sviluppando, raramente riconoscendone la paternità, se non in ambito tedesco. Credo che il fatto di avere organizzato negli anni ‘80, in qualità di vice-presidente della Deutsche Psychoanalytische Vereinigung (DPV), il “Gruppo Bernfeld” col proposito di riformare gli ordinamenti dell’I.P.A. in senso democratico (tentativo rivelatosi fallimentare) possa avere influito negativamente sulla diffusione della sua opera, insieme al suo successivo ritiro dall’establishment psicoanalitico e ai reiterati articoli critici verso la psicoanalisi istituzionalizzata. Inoltre, mi pare opportuno iniziare dal suo importante contributo alla tecnica psicoanalitica anche per ripercorrere il percorso che egli stesso utilizzava nella formazione, nel senso che dava precedenza assoluta all’approccio clinico focalizzandosi sulle “cose”, sui fatti che accadono nella seduta sia ad opera del paziente che dell’analista, per mostrare successivamente il modello teorico che era stato utilizzato e come era stato utilizzato. La sua raccomandazione è di osservare le espressioni verbali e soprattutto non verbali del paziente, particolarmente all’inizio della seduta, senza voli pindarici di carattere teorico e di porre solo delle ipotesi preliminari, che andranno confermate o confutate nel prosieguo della seduta o delle sedute successive. La teoria della tecnica viene a volte presentata da Cremerius stesso e da qualche suo commentatore come semplice, quasi banale, centrata su transfert e resistenze, transfert e controtransfert, pulsioni e difese. Qui chiaramente egli si colloca nell’ambito del modello pulsionale e di quello strutturale o della Psicologia dell’Io con particolare riguardo alla concettualizzazione di A. Freud [non della Psicologia dell’Io americana che egli ha criticato aspramente nell’ultimo suo articolo (2000) pubblicato da “Setting”], utilizzandoli nel senso del motto charcotiano fatto proprio da Freud: “La théorie, c’est bon, mais ça n’empeche pas d’exister”. Ma questa proclamata semplicità non è che uno dei “trucchi”, consapevoli o inconsapevoli, di Cremerius. Il suo atteggiamento, piuttosto, è di profonda diffidenza nei confronti delle grandi elaborazioni teoriche non provate e dell’onnipotenza terapeutica, in una visione sobria del “mestiere dell’analista” e della terapia stessa: invitando gli analisti a volare basso, afferma provocatoriamente (2000, p.94) che la terapia psicoanalitica non va vista né come un trattamento finalizzato “al ritrovamento della guarigione”, né come “accesso alla più profonda comprensione universale”, al “vero Sé” e al “nucleo psicotico”, bensì come un procedimento che stabilisca le “condizioni psicologiche maggiormente favorevoli per le funzioni dell’Io” (Freud, 1937).
Se prendiamo in considerazione alcuni dei suoi lavori, quali “La regola psicoanalitica dell’astinenza: dall’uso secondo le regole all’uso operativo” (1985), “Traslazione e controtraslazione in pazienti con gravi disturbi del Super-Io” (1991), “Un’analisi critica della tecnica terapeutica di Kohut” (1991), “Tecnica psicoanalitica e sessualità femminile” (2000), ci rendiamo conto che la sua tecnica nel dispiegarsi concreto è estremamente raffinata e complessa e tiene conto di un’ampia serie di elementi che vanno ben oltre i modelli pulsionale e strutturale, utilizzando in primo luogo il modello relazionale, che si rifà a Ferenczi, Balint e Fairbain, in maniera creativa e originale, con grande riguardo e attenzione per i problemi narcisistici del paziente.
Inizierò col rivolgere in primo luogo uno sguardo su “Cremerius al lavoro”, esaminando l’analisi critica della tecnica usata da Kohut nelle due analisi del sig. Z e soprattutto il suo trattamento di Paula, una donna “fallica” che era estremamente aggressiva per difendersi dall’auto-svalutazione, e che naturalmente lo era anche nel transfert (2000, p.61-67).
In questa difficile terapia dall’esito favorevole osserviamo un’elaborazione delle resistenze attraverso un intreccio di feed-back multipli tra interventi non-interpretativi e interpretativi per poter arrivare all’interpretazione del conflitto di base. Mi pare che il punto fondamentale del suo operare tecnico corregga la linea di Freud quale è espressa in “Ricordare, ripetere e rielaborare (1914) e cioè che l’insight come momento cognitivo debba precedere la rielaborazione: per Cremerius insight e rielaborazione sono strettamente connessi e iniziano fin dalle prime battute della terapia. I principali interventi utilizzati possono essere così riassunti: una grande flessibilità nell’accordarsi sul setting (la paziente rifiutava il lettino); creazione di una relazione positiva con la paziente attraverso un costante monitoraggio del controtransfert; movimenti di autodisvelamento da parte dell’analista in un misurato dosaggio di simmetria rispetto a certi movimenti della paziente allo scopo di favorire la sua identificazione con l’analista [l’autodisvelamento o self-disclosure sulla base delle proposte della corrente intersoggettivista della psicoanalisi (Renik 1995, Jacobs 1999)2 è oggi al centro di un grosso dibattito]; non-interpretazione nella fase iniziale dell’analisi delle proiezioni negative sull’analista e quindi delle resistenze, ma risposte precise e sincere di disconferma rispetto alle credenze della paziente [su questo punto credo, come fa Cremerius, che sia opportuno essere più flessibili e giudicare caso per caso rispetto all’ “interpretazione precoce e sistematica del transfert” che Kernberg (2001) mette al primo punto tra le caratteristiche tecniche della corrente psicoanalitica contemporanea da lui considerata come principale (mainstream), nella quale convergerebbero i kleiniani moderni, i neo-freudiani e gli indipendenti inglesi (l’ex-middle group)]; un’estrema attenzione e riguardo per la ferita narcisistica della paziente, riconoscendo la sua sofferenza e la validità dei motivi (anche sociali) che l’hanno portata ad essere così com’è, attraverso un rispecchiamento attivo e positivo del Sé della paziente; nelle medesime interpretazioni di transfert vengono focalizzati insieme ed integrati l’elemento relazionale e quello intrapsichico, nella medesima linea di Gill che nel suo ultimo libro del ‘94 afferma che “la psicoanalisi ha bisogno di entrambe le psicologie: mono-personale e bi-personale” (p.43); lo stesso concetto è riaffermato da Hoffman (2000), che tra i vari aspetti dialettici della situazione analitica pone la dialettica tra intrapsichico e interrelazionale e attribuisce al processo terapeutico la caratteristica della complessità. E Cremerius già nel 1985 nell’articolo sulla regola dell’astinenza scriveva: “…. Orientare il nostro fare a una regola è un’illusione, dobbiamo optare per la dialettica del processo analitico” (p.30) e, a proposito del rapporto transfert-controtransfert, parlava di “campo” e di “un reticolo di rapporti molto complessi” (p.21e 22). Infine, un punto fondamentale della tecnica riguarda l’attenzione all’attività interpretativa sul Super-io (1991): il principio è che non è possibile, anzi che sia controproducente mettere in luce il rimosso, se precedentemente non è stata attenuata la pressione severa del Super-io; l’analista in questo modo si pone, nelle parole di Cremerius, come difensore dell’Io del paziente. Questa attenzione particolare rivolta all’elaborazione del Super-io va di pari passo con la norma della Psicologia dell’Io di interpretare dalla superficie alla profondità dell’Io prima di arrivare ai “contenuti”, in contrasto con la posizione kleiniana delle “interpretazioni profonde”, ed è stata ampiamente ripresa e sviluppata dai neo-psicologi dell’Io americani P. Gray (1994) e F. Busch (1995).
La posizione dialettica di Cremerius e la sua comprensione delle esigenze della clinica si rivelano anche nell’atteggiamento che assume rispetto al quesito se la psicoanalisi debba limitarsi all’attività di illuminazione e rischiaramento (Aufklärung) della coscienza nel senso di Kant e di Freud (anche in senso sociale) o utilizzare anche altri tipi di interventi per aiutare il paziente. Una risposta integrativa già si affaccia nell’articolo dell’81 “Esistono due tecniche psicoanalitiche?”, nel quale si mettono a confronto le caratteristiche della tecnica, cosiddetta paterna, basata sull’interpretazione e sull’insight, con quelle della tecnica, cosiddetta materna, centrata sull’esperienza emozionale. Una seconda risposta viene data nel quarto capitolo del libro “Il mestiere dell’analista” (1985) dedicato al tema della rielaborazione, nel quale sostiene, pure nella scia di Freud, che per favorire “un cambiamento dell’Io” è necessaria un’influenza attiva dell’analista mediante vari tipi di interventi, tra i quali in certe situazioni la manipolazione del transfert, l’utilizzazione di attività supportive quali consigli, interventi pedagogici, ecc. Una serie di ricerche, cominciando da quella ben nota di Wallerstein della Menninger Foundation (1986), e di autori come Luborsky (1984), Pine (1985), Gabbard (2000) ecc., sostengono la compresenza in ogni terapia analitica di un polo espressivo e di un polo supportivo in dosi e modalità variabili a seconda delle esigenze del paziente e l’utilità o la necessità degli interventi supportivi anche nel favorire l’insight. Cremerius afferma a questo proposito che si tratta di tecniche che, pur indispensabili, non hanno una solida base teorica nella psicoanalisi e si chiede se la terapia debba attenersi solo a strategie teoricamente fondate. Questa tematica è chiaramente collegabile alle argomentazioni che egli svolge nell’articolo su “La regola psicoanalitica dell’astinenza”, nel quale critica il concetto di una neutralità che si attiene alle regole e prende invece posizione a favore di “tecnica attiva che lavora con rappresentazioni scopo-mezzi” (1985, p.29). Mi pare tuttavia, come Cremerius stesso suggerisce, che la formula creativa e liberatoria di operare secondo rappresentazioni scopo-mezzi abbia bisogno di essere ancorata a una teoria di base e a una teoria della tecnica che, per quanto sempre da interpretare di volta in volta, da un lato indichino lo scopo da raggiungere in un certo momento della terapia non ottenibile con la pura interpretazione, a volte è addirittura controproducente, e dall’altro quali siano i mezzi non-interpreativi più opportuni, senza naturalmente venir meno al principio dell’astinenza. Nel capitolo di esame critico della tecnica adottata da Kohut nelle due analisi del sig. Z Cremerius, dopo aver messo in evidenza come il successo della seconda analisi non sia legato ai nuovi concetti della Psicologia del Sé, ma ad un uso relazionale e interattivo dei concetti di transfert e di controtransfert (1991, p.136-137), sottolinea come la teoria di Kohut reifica il Sé come homunculus nella psiche (Freud aveva fatto la stessa cosa rispetto alle istanze psichiche) e il modello di pensiero rimane centrato su una metodologia algoritmica, cioè su “un sistema di regole, con cui si sa in anticipo che cosa si fa e che cosa si farà”: il modello di psiche è ancora improntato alle scienze naturali (la stessa critica è svolta da Eagle rispetto al Sé considerato come principio sovraordinato -1984). Allo stesso modo recentemente si esprime Aron (1998), un intersoggettivista il quale, rispetto alla diatriba Kohut-Kernberg sull’idealizzazione dell’analista ad opera dei pazienti narcisisti, scrive che non dobbiamo fare appello a un altro “libro delle regole” per quanto raffinato, ma di volta in volta vedere, tenendo conto anche delle caratteristiche idiosincratiche dell’analista ma non perciò nevrotiche, se permettere alle idealizzazioni del paziente di svilupparsi (Kohut), oppure interpretare sistematicamente l’idealizzazione (Kernberg), oppure fare prima una cosa e poi l’altra o viceversa, come io tendo a fare nella linea flessibile e adattabile di Cremerius.
Tornando ora al problema delle difficoltà che Cremerius aveva rispetto ai fondamenti teorici dell’attività non-interpretativa, attualmente abbiamo a disposizione una serie di scoperte di grande importanza dovute alla ricerca neuroscientifica e al cognitivismo, anche se non permettono a tutt’oggi di costruire una teoria psicoanalitica di base unitaria e comprensiva. Faccio brevemente riferimento alle principali: in primo luogo i processi di pensiero sono intimamente connessi all’attività motoria e il sistema nervoso, non essendo passivo, non ha bisogno di liberarsi inesorabilmente della tensione (come Freud riteneva, per cui la scarica motoria avrebbe impedito l’emergenza dei ricordi del paziente); la psicoterapia viene oggi considerata per una parte rilevante, non unica per altro, come una nuova relazione di attaccamento, una relazione con un nuovo oggetto, la quale è in grado di ristrutturare la memoria procedurale implicita, che è connessa peculiarmente con le modalità di attaccamento all’oggetto (Amini 1996, Fonagy 1999, Gabbard 2000); secondo Lyons-Ruth (1998) e Stern (1998) la conoscenza relazionale, attivata da “momenti di incontro” tra analista e paziente, svolge un ruolo terapeutico importante, che per altro a mio parere non dobbiamo sopravvalutare. Inoltre, da un punto di vista più strettamente tecnico, la stessa attività interpretativa può essere considerata alla stregua di un’“azione”, nel senso che opera un’influenza affettiva sul paziente o veicola messaggi che vanno ben al di là della pura e semplice componente di disvelamento dei contenuti inconsci e, nell’ottica intersoggettiva del processo, gli enactment del paziente vengono oggi messi in relazione con i corrispondenti e sempre presenti enactment dell’analista e viceversa. Queste concettualizzazioni e proposte tecniche favoriscono una posizione più aperta, coinvolta, spontanea dell’analista e forniscono una base teorica sostenibile a una serie di interventi che Cremerius, come abbiamo visto sopra nel caso di Paula, faceva sulla base di un modello interattivo della terapia e secondo un’interpretazione in parte intuitiva dell’ottica mezzi-scopo. Se ora consideriamo i dieci punti fondamentali dello “scambio clinico” formulati da Lichtenberg et al. (1996) nell’ambito dell’attuale Psicologia del Sé, troviamo che la gran parte di questi interventi fanno già parte del bagaglio tecnico di Cremerius, sia che siano o non siano da lui chiaramente esplicitati: creare una cornice amichevole in un clima di sicurezza (vi ricordate quando diceva che il paziente si deve trovare con noi come il pesce nell’acqua?); il messaggio contiene il messaggio, cioè le affermazioni del paziente non vanno viste con sospetto, ma accettate nella loro componente di “verità”; indossare le attribuzioni del paziente cioè cercare di vederci come il paziente ci sperimenta; le resistenze sono atteggiamenti o comunicazioni che vanno esplorate, non affrontate, come qualsiasi altro messaggio; l’importanza dei “coinvolgimenti spontanei disciplinati”; valutazione attenta degli effetti degli interventi, considerando le sequenze della seduta e le risposte del paziente. Tuttavia la differenza fondamentale tra Lichtenberg e Cremerius è che dal primo questi principi tecnici vengono fatti discendere da una teoria del Sé che considera quest’ultimo come centro di esperienza e di motivazione, con il rischio di farlo diventare il principio sovraordinato del comportamento, mentre viene messa del tutto in secondo piano la teoria del conflitto e quindi l’interpretazione in particolare delle pulsioni aggressive e delle resistenze come espressione delle difese. È chiaro che da queste differenze teoriche discendono da fondamentali divaricazioni dal punto di vista tecnico, al di là di alcuni aspetti condivisi. Da un punto di vista generale, per Cremerius si tratta di muoversi su una linea, per quanto possibile, di consapevolezza da parte dell’analista dei fenomeni transferali e controtransferali che, pur dando grande importanza alla relazione, non la consideri di per sé l’elemento centrale dell’attività terapeutica: l’elemento centrale resta la chiarificazione e l’emancipazione non solo per il paziente, ma anche per l’analista. I mezzi non interpretativi a cui Cremerius fa riferimento hanno lo scopo, oltre che di favorire lo sviluppo della relazione e la modificazione del paziente, di incentivare le sue capacità di insight in un processo a feed-back.
Con i pazienti più regrediti, border-line o psicotici, nei quali i ricordi fondamentali sono legati all’esperienza preverbale o anche ad esperienze non-verbali, la psicoterapia deve consentire agli schemi senso-affettivo-motori legati alla memoria procedurale implicita o al codice subsimbolico della Bucci (1997) di essere messi in azione (Stern 1993) o, a mio parere, di essere in certi casi stimolati a manifestarsi. “Le azioni affettive di soddisfacimento protosimbolico o presentazionale” da me descritte (1996) tendono ad integrare consapevolezza e spontaneità da parte dell’analista, allorché in questi pazienti dobbiamo a volte porci lo scopo di stimolare il transfert positivo o anche erotico, a volte di dare senso a un transfert erotizzato, a volte di fornire una risposta e un significato concretisticamente comprensibile all’aggressività confusiva e ingestibile del paziente.
Metapsicologia ed epistemologia
Ho già fatto precedentemente riferimento alle critiche convincenti che Cremerius rivolge alle conclusioni di Kohut rispetto alle due analisi del sig. Z e alla teoria del Sé, in quanto il Sé viene reificato come un homunculus nella psiche allo stesso modo delle istanze freudiane e in particolare dell’Io, e il modello di psiche resta improntato a quello delle scienze naturali (1921, p.136-137). Voglio solo accennare in questo contesto anche alla dura critica di Cremerius nei confronti di Kohut, perché questi nelle sue opere, in una sorta di solipsistico narcisismo, non riconosce di fare riferimento e di attingere ampiamente alla prospettiva relazionale che, iniziando con Ferenczi e passando per autori come Balint e Nacht, arriva a Winnicott, e nei confronti di tutti quegli autori che con scarsa onestà intellettuale non riconoscono il debito verso i loro predecessori. Ben diverso – voglio sottolinearlo – è l’atteggiamento di Cremerius, che si pone criticamente in una posizione dialettica nei confronti del pensiero freudiano e riconosce tutta l’importanza per lui degli autori relazionali, quali Ferenczi, Balint, Fairbain, Racker, ecc., dei quali per altro mette in evidenza gli aspetti deboli.
Per quanto concerne il problema della scientificità della psicoanalisi, Cremerius dichiara in molti articoli e nelle prospettive che traccia nel suo ultimo libro per la psicoanalisi futura (2000, p.180-184) che questa deve accentuare gli sforzi, già intrapresi seppure con esitazione e lentezza, per diventare una “scienza normale”, cioè entrare in un processo di sviluppo nel quale i dogmi e le affermazioni apodittiche del tipo “noi possediamo la verità” vengano messe in discussione. A questo proposito egli ribadisce la necessità che la ricerca empirica permetta di avvalorare o ricusare enunciati clinici e teorici dati per scontati e che il confronto reciproco con le scienze affini diventi più ampio, favorendo un’integrazione laddove possibile. È sua profonda convinzione che la psicoanalisi, in quanto bene che appartiene a tutti gli uomini, non può essere monopolizzata da nessuno, siano individui, associazioni o scuole e, in quanto scienza, debba sempre essere messa in discussione in modo da poter generare nuovo sapere. L’invito al confronto e all’integrazione viene oggi rivolto e tentato da autori quali Bucci (1997), Kandel (1999), Fonagy (1999), Gabbard (2000), ecc. L’ultimo Cremerius (2000) pone, finalmente, anche la metapsicologia tra i concetti vaghi tramandati tradizionalmente, allorché afferma che non è stata ancora sufficientemente smitizzata e si richiama a Holt (1994) nella sua devastante critica a questa parte del pensiero freudiano; pure criticata è la posizione di Wallerstein (1998), allorché questi considera i concetti metapsicologici come utili metafore di cui ci serviamo nella prassi, e viene nuovamente sottolineata la babele linguistica e concettuale che caratterizza ancora il campo delle teorie psicoanalitiche. La critica di Cremerius alla metapsicologia freudiana arriva, almeno in forma così esplicita, solo alla fine dei suoi scritti: in effetti egli non si è mai occupato in maniera particolare della teoria di base della psicoanalisi e della sua incompatibilità, soprattutto nel suo impianto economico o energetico, con le acquisizioni neurobiologiche degli ultimi trent’anni e con la visione tecnica e teorica di tipo relazionale che egli stesso aveva abbracciato. Nell’articolo del 1985 sulla regola psicoanalitica dell’astinenza afferma chiaramente (p.23) che un atteggiamento di astinenza da parte dell’analista produce un danno al paziente, poiché la libido è alla ricerca dell’oggetto, come Fairbain e Balint ritengono, piuttosto che in prima istanza alla ricerca del piacere come formulato da Freud. La posizione clinica e teorica di Cremerius era avanzata rispetto a quella della psicoanalisi italiana di trenta anni fa e tendeva a integrare il pensiero freudiano soprattutto della teoria strutturale con la Psicologia bipersonale e tripersonale di Balint, utilizzando anche certi aspetti di scuola kleiniana successivi agli anni ‘50 soprattutto rispetto ai concetti di transfert e controtransfert (P. Heimann 1950, H.Racker 1957). Il riferimento fondamentale di Cremerius, oltre al pensiero freudiano, è costituito dal middle-group inglese, oggi chiamato dei British indipendents, che tendeva a integrare le formulazioni della Psicologia dell’Io, soprattutto di A. Freud, con alcuni aspetti del pensiero kleiniano, soprattutto rispetto alla teoria degli oggetti internalizzati; per altro egli era molto critico nei confronti degli assunti di base della teoria kleiniana soprattutto per quanto riguarda la concettualizzazione dell’Edipo. Anche da questo punto di vita egli è stato un anticipatore dell’attuale tendenza integrativa, sostenuta già nel 1985 da Thomae e Kächele e ripresa recentemente con particolare enfasi da Kernberg (2001) (in un articolo di cui pubblichiamo su questo numero di “Setting” la traduzione italiana) e da Wallerstein (2002). Da parte di Wallerstein viene messa in evidenza tutta l’importanza delle concettualizzazioni di Ferenczi, che “sono ora fatte oggetto di una vera e propria rinascita di interesse”, ma Cremerius fin dagli anni 70 ha rivalutato e riabilitato l’opera di Ferenczi, dedicandogli uno studio appassionato. Inoltre sia da parte di Kernberg che di Wallerstein viene messa in luce la grande importanza dei British independents, anche perché negli ultimi venti anni hanno favorito l’avvicinamento tra gli psicologi dell’Io e i kleiniani. Rispetto a questi sviluppi della tendenza integrativa da parte di massimi esponenti dell’I.P.A. viene tuttavia il dubbio che possano essere anche stimolati da ragioni “politiche”, nel tentativo di ovviare a quella confusione teorica, che dal punto di vista scientifico è uno dei talloni di Achille della psicoanalisi e contro la quale tante volte Cremerius si è scagliato nel suo impegno forte di fedeltà critica a Freud. Sorge anche il dubbio che questi tentativi di integrazione si risolvano in un ecumenismo di facciata, se non vi è l’impegno a costituire una teoria di base o una nuova metapsicologia, che dia un valido fondamento scientifico alla psicoanalisi. L’invito alla ricerca, ribadito anche negli ultimi scritti, e i suoi dubbi su integrazioni di carattere tattico, vengono ripresi in un recente articolo di Garza-Guerrero (2002) il quale, rifacendosi a Fonagy, sostiene che “la nostra pratica clinica non mantiene nessuna vicina o logica relazione con la molteplicità delle nostre teorie: ciascuna teoria genera tecniche differenti, e, a una volta, la stessa tecnica potrebbe essere giustificata da differenti correnti teoriche”; nello stesso contesto l’autore richiama la necessità di un’integrazione con le risultanze delle neuroscienze, della genetica, della psicofarmacologia, ecc. Si tratta evidentemente di un richiamo a quel modello definito da G.L. Engel (1982) come biopsicosociale, al quale è auspicabile che pure la psicoanalisi faccia riferimento. Del resto, in un quadro concettuale diverso, Freud si richiamava alla molteplicità e complessità dei fattori eziopatogenetici per le nevrosi con il suo concetto di sovradeterminazione.
Per riprendere il tema della metapsicologia appare sconcertante o contraddittoria la fedeltà di Cremerius al concetto economico di pulsione e la sua critica, per altro tardiva, alla metapsicologia freudiana. Mi sono spesso chiesto come mai si sia occupato così poco di un problema tanto importante come quello costituito dall’obsolescenza della teoria di base freudiana: la mia ipotesi, ricordando anche le risposte piuttosto vaghe che dava a certe mie domande nei seminari di teoria, è che il suo principale interesse fosse rivolto alla prassi, alle “cose” legate all’incontro “reciproco” tra analista e paziente e alla relazione stretta tra nevrosi e situazioni politiche, sociali ed economiche. Credo che non gli sfuggissero affatto i contorcimenti e le contraddizioni dovute all’impianto energetico-meccanicista o fisicalista della metapsicologia, che non fu mai adeguata o rivista da Freud alla luce degli sviluppi della biologia della prima metà del secolo. Del resto, nel commovente primo capitolo del suo ultimo libro (2002) dedicato alla franca analisi del suo rapporto con Freud e al passaggio doloroso dell’idealizzazione all’esame critico, egli conclude allo stesso modo del “Freud studioso” e non “dell’organizzatore del movimento psicoanalitico” (p. 47) che la validità delle teorie psicoanalitiche non è affatto dimostrata in modo certo.
La messa in crisi di parte di Cremerius della metapsicologia è avvenuta, a mio parere, quasi controvoglia, perché egli voleva difendere tutta la centralità, nella teoria e nella prassi, del complesso edipico e del concetto di pulsione nel suo duplice aspetto sessuale e aggressivo e nel suo radicamento nella corporeità; inoltre per lui era di fondamentale importanza serbare alla pulsione tutta la sua valenza eversiva rispetto alle situazioni sociali. Nella concezione di Cremerius il rischiaramento o Aufklärung fa da contrappunto o si muove in parallelo, e potrebbe sembrare paradossale, alle vaste implicazioni della pulsione, per cui egli vede gran parte della attuale psicoanalisi appiattita, deistintualizzata e devitalizzata da un lato e svuotata di ogni spinta critica dall’altro. Cremerius non risparmia critiche anche ad esponenti, come Fairbain e Guntrip, della Teoria delle relazioni oggettuali, a cui per altro aderisce per molti aspetti, e alla teoria del Sé di Kohut (2002, p. 81-82), in quanto svalutano l’importanza del complesso edipico e della sessualità a favore della fase pre-edipica. È convinto insieme a Parin (1986) che nelle nuove teorizzazioni la psicoanalisi abbia subito una sorta di “processo di purificazione” come difesa dalla sessualità e una semplificazione e un impoverimento, in quanto l’eziopatogenesi viene ridotta alle difficoltà della prima infanzia e del rapporto madre-bambino e le condizioni socio-culturali perdono ogni rilievo causale. È con queste convinzioni che egli riafferma la sua fedeltà a Freud, ribadendo tutta la pregnanza e immutata attualità di concetti quali “pulsionalità, conflitti pulsionali, passione, angoscia di castrazione, desiderio di incesto”; (personalmente ritengo che la pulsione conservi tutta la sua capacità esplicativa anche se non viene più intesa nella chiave insostenibile dell’energia psichica). D’altra parte, l’atteggiamento di Cremerius nei confronti di Freud è aperto e dialettico perché sottopone a severa critica la contraddizione tra gli scritti tecnici (1911-14) nella loro metafora dell’analista come specchio o chirurgo e il suo operare relazionale nel vivo del rapporto col paziente; inoltre, mette in luce che Freud non interprava le conseguenze sul transfert delle “azioni” che metteva in atto (1985, p.187-188).
Si tratta di concetti che Gill ha estesamente sviluppato nel suo lavoro sull’analisi del transfert (1982), nel quale sottolinea pure che il transfert non è semplicemente la riedizione di un processo endopsichico, ma anche l’effetto di qualche percezione dello stato emotivo dell’analista: questa fondamentale modificazione della visione del rapporto transfert-controtransfert, presente anche nelle formulazioni di Cremerius (1991, p.150), sta alla base di molte attuali concezioni della prospettiva intersoggettiva e costruttivista. Questa concezione interattiva del transfert e del controtransfert trova la sua giustificazione teorica in quelle concettualizzazioni, che da Cremerius non vengono mai sviluppate sistematicamente, ma sono sempre inframezzate alle argomentazioni di carattere tecnico: mi riferisco ai concetti di amore primario, di difetto fondamentale e di “virtù terapeutica dell’oggetto” mutuati da Balint (1968) e alle vicissitudini introiettive e proiettive degli oggetti buoni e cattivi di derivazione kleiniana.
È chiaro quindi che dal punto di vista teorico Cremerius si muove su due piani disgiunti e paralleli, che peraltro riesce a integrare bene sul livello tecnico: quello delle pulsioni e quello delle relazioni oggettuali.
Voglio concludere questa seconda parte dell’articolo con qualche considerazione sulla posizione epistemologica di Cremerius, quale emerge soprattutto dal capitolo su “La costruzione della realtà biografica nel processo analitico” (1985). Dopo aver ricordato il percorso che dalla teoria del trauma sessuale portò Freud alla constatazione che la biografia raccontata dal paziente non ha spesso alcun riscontro nella “realtà materiale”, Cremerius contesta l’effetto terapeutico attribuito di per sé da Freud alle costruzioni e/o alle ricostruzioni terapeutiche e insiste sul fatto che l’analista deve prendere molto sul serio le costruzioni biografiche del paziente nelle quali le difese hanno un ruolo fondamentale, legando le capacità mutative ed epistemiche dell’analisi soprattutto all’interazione reciproca tra paziente e terapeuta e alla sua comprensione. Tuttavia, rimane altrettanto fondamentale per lui la scoperta della realtà biografica nascosta dietro quella raccontata: la realtà biografica ricostruita in analisi comprende non solo i desideri, le pulsioni e le nostalgie dell’infanzia, più tardi ricoperte dalla fantasia, dal romanzo familiare, ecc., ma “anche le condizioni reali, le situazioni storiche che condizionarono queste modalità di elaborazione” (1985, p.169).
La realtà biografica, che origina dal processo psicoanalitico, è dialettica nel senso che il suo valore epistemologico è legato sì alla ricostruzione di quanto il paziente stesso ha costruito o elaborato per via dei propri desideri e difese, ma anche di quanto è stato condizionato dalla realtà storica della sua vita, dalla situazione familiare, ecc., cioè da quanto è stato fatto all’Io. Cremerius considera come costruzione del paziente l’elaborazione successiva della realtà storica, che è a sua volta una realtà vissuta soggettivamente, una realtà psichica, e usa pure il termine di costruzione, una nuova costruzione, per quanto viene elaborato dal processo analitico, e non di ricostruzione, perché è protesa verso il futuro, contenendo in sé un nuovo progetto d vita, più realistico perché tiene conto dell’esame di realtà effettuato. Mi pare chiaro che egli anticipa concetti come quello di Sé narrativo e di narratività in analisi, ma senza scivolare verso posizioni coerentistiche o narratologiche o costruttivistiche estreme.
L’importanza dei traumi reali per la psicopatologia è stata ampiamente riconosciuta da tante ricerche degli ultimi venti-trenta anni, soprattutto nell’area della Teoria dell’attaccamento; sullo stesso piano si pone il richiamo di Pazzagli e Rossi Monti (1999) a una visione epistemologica “binoculare” della psicoanalisi che la “colloca al punto di intersezione tra mondo esterno e interno, tra realtà e fantasia”, citando una serie di autori (Miller 1981, Green 1990, Person e Klar 1995), che hanno deprecato la tendenza attuale a “una generica diffidenza per l’affidabilità di qualunque memoria storica”. E del resto in parecchi punti della sua opera Freud ha sottolineato la qualità dialettica della memoria come registrazione di fatti e di impressioni e come loro ricostruzione successiva.
Al di là del pericolo di qualche confusione legato ad un uso non sempre univoco dei concetti di costruzione e ricostruzione, Cremerius abbraccia chiaramente una visione epistemologicamente dialettica del processo psicanalitico che, come ho cercato di mostrare (2001), si muove tra la ricostruzione o la scoperta di ciò che probabilisticamente è più aderente alle situazioni fattuali di carattere relazionale, pulsionale, familiare, sociale, economico, ecc. del paziente e la costruzione di elementi che appaiono probabilisticamente più ipotetici; inoltre egli dà al termine costruzione il senso del “nuovo” della relazione analitica, della non-ripetizione, della progettualità: per questi aspetti oggi si parla di co-costruzione.
Mi pare che sulla base di questo concetto di costruzione egli possa a ragione essere annoverato tra i precursori del “costruttivismo critico” o “moderato” come Gill (1994) e Hoffman (1998).
La società e l’Istituzione psicoanalitica
Quest’ultima parte dell’articolo riguarda l’insegnamento e il pensiero di Cremerius relativi al rapporto tra psicoanalisi e società e tra psicoanalisi e Istituzione psicoanalitica nella sua concreta realizzazione: il riferimento non è solo all’I.P.A., ma in generale anche agli altri istituti o società di formazione. Si tratta senza dubbio della parte più appassionata e appassionante del suo discorso, sulla quale sovente si tende a sorvolare o a considerarla come superata, perché si tratta di riflessioni critiche incisive, “perturbanti”, che possono mettere in crisi rispetto alla coerenza delle proprie scelte sociali e del proprio operare. Mi pare che il pregio più rilevante di queste sue osservazioni, che utilizzano lo strumento psicoanalitico nella critica della società e dell’Istituzione psicanalitica, sia la loro coerenza e stretta integrazione con aspetti fondamentali della tecnica e della teoria, per esempio riguardo alla sessualità; un altro elemento importante di unificazione tra i vari campi di ricerca è costituito dalla forte impronta di eticità di origine kantiana.
L’impegno etico della psicoanalisi è cominciato con Freud, allorché ha sottolineato in campo clinico l’esigenza della ricerca della “verità” nel paziente e il suo valore terapeutico ed emancipatorio e, rispetto all’eziopatogenesi delle nevrosi, ne ha messo in evidenza anche le origini sociali. Ma Cremerius – credo – rispetto alla coerenza tra vita e pensiero e alla costanza dell’impegno etico nei vari settori della sua ricerca è stato più consistente e congruente del Maestro, del quale mette in luce chiaramente, seppure dolorosamente, le contraddizioni, allorché dopo il 1910 Freud entra in conflitto “tra il mantenimento e la stabilizzazione di ciò che ormai era stato raggiunto e la revisione critica di esso” (1987). Infatti, per assicurare la sopravvivenza del movimento psicoanalitico e delle proprie idee, adattò un’istituzionalizzazione rigida della psicoanalisi e si orientò verso una politica di potere e un’organizzazione di tipo militare o chiesastico: per Cremerius la fondazione dell’I.P.A. segna la fine del pensiero scientifico di tipo liberale per la psicoanalisi. Attraverso una precisa e puntigliosa ricostruzione dei fatti, egli dimostra quanto Freud si sia adattato a una serie di compromessi di natura tattica e politica, cercando di coprire la storia d’amore di Jung con Sabina Spilrein, coinvolgendo la psicoanalisi nel trattamento delle nevrosi di guerra durante il primo conflitto mondiale, oppure accettando più tardi che le Istituzioni psicoanalitiche tedesche si adattassero alle leggi naziste allo scopo di salvarne la continuità. Implacabilmente egli dimostra come Freud abbia estromesso dall’Associazione i cosiddetti deviazionisti o dissidenti come Rank, Reich, Adler, ecc., per ragioni di supremazia e di potere: su questo punto meraviglia, ma poi non troppo, leggere ancora che l’I.P.A. si muove nella linea dell’autoritarismo, allorché un suo esponente, Wallerstein, recentemente (2000) giustifica Freud nei suoi atteggiamenti antiscientifici e parla di “successo … nello sradicare (sic!) i punti di vista di coloro che considerava dissidenti”. Ma Cremerius pone invece Freud fra i dissidenti rispetto a sé stesso (1983), in quanto la sua prassi clinica è molto diversa dalla tecnica indicata dalle metafore dello specchio e del chirurgo e deplora che, anche successivamente alla sua morte fino ai giorni nostri, le Istituzioni psicoanalitiche si siano adattate ad ogni sistema politico. Il suo atteggiamento critico radicale nei confronti dell’Istituzione psicoanalitica come verso tanti aspetti della tecnica freudiana e tante sfaccettature della società fa chiaramente riferimento al pensiero kantiano sia nella connotazione di imperativo etico che nell’uso critico, chiarificatore, della ragione “nella duplice accezione di esercitare la facoltà del pensiero razionale e di esprimere critica, dissenso, contestazione” (Meneguz 2000).
Riprendo ora il tema, centrale per Cremerius, della sessualità (anche del Super-Io per altro egli mette in luce l’aspetto socio-culturale e l’ambiguità nei confronti del potere): esso attraversa profondamente il suo pensiero, dalla tecnica alla teoria e all’esame critico di certi aspetti fondamentali della società. Ho già sottolineato come Cremerius rimproveri alle teorie relazionali e alla Psicologia del Sé di svalutare o non considerare l’importanza per la psicoanalisi della sessualità, del complesso edipico e dei desideri sessuali e aggressivi ad esso connessi, a tutto vantaggio dell’enfasi sulla fase preedipica e di aver fatto diventare la psicoanalisi una teoria che non dà più fastidio a nessuno. In questo modo la psicoanalisi perde di incisività e anche di prestigio in seno alla società e sembra andare a braccetto con la grande richiesta di medicalizzazione che aumenta sempre di più, contribuendo in questo modo alla copertura della conflittualità e del vuoto di partecipazione e di valori etici: così viene favorita la permanenza di un potere che, attraverso la manipolazione dell’immagine e delle parole e la somministrazione del nulla, cerca di perpetuarsi. È nel contesto di queste mie considerazioni che si colloca la domanda di Cremerius e di altri, in particolare dei rappresentanti della Scuola di Francoforte, Marcuse e Adorno, se la psicoanalisi abbia veramente liberato la sessualità e quale sia la sua posizione o significato nella società attuale. La risposta che è stata data è nel complesso negativa e pessimista: non si tratterebbe di una vera liberazione della sessualità, ma piuttosto di un suo uso di tipo pre-genitale a favore del mercato e quindi di interessi politici. Viene perduta la capacità della pulsione e del processo primario a cercare il nuovo, la creatività: si cade in un’oppiacea ripetitività sessuale addomesticata. “Proprio ciò che del processo primario non è indirizzato è l’unica cosa creativa della vita” (Morgenthaler 1993). Inoltre Cremerius, nella sua analisi della società post-moderna, che non è più la società gerarchico-autoritaria dei tempi di Freud basata su istanze o metanarrative come le chiama Lyotard (1981), cioè Stato, Chiese, famiglia, classe, ecc., sottolinea le molteplicità dei modelli e dei comportamenti e la conseguente accentuazione dei conflitti tra i vari ruoli e identificazione: è come se l’individuo dovesse continuare a inventarsi o riciclarsi.
Delle osservazioni di Cremerius sui grandi mutamenti avvenuti negli ultimi cinquanta anni rispetto ai ruoli del padre, delle donne, del rapporto genitori-figli, sottolineerò solo quelle che mi appaiono meno note e più importanti per la psicoanalisi:
1) l’identificazione oggi maggiore da parte dell’analista nel ruolo materno che in quello paterno va di pari passo o va collegata con la maternalizzazione dello stato e dell’assistenza sociale, con tutto il rischio di passivizzazione e di infantilismo dell’individuo;
2) la società richiede il rovesciamento della massima freudiana “dove è l’Io, deve subentrare l’Es” e al primato della genitalità deve sostituirsi quello della pre-genitalità;
3) la domanda più importante che Cremerius pone e si pone è se la psicoanalisi riuscirà a far fronte ai problemi e alle richieste dell’uomo di oggi: sarà in grado di promuovere riflessioni valide sulla teoria della tecnica e sulla teoria di base? Lo stesso problema rispetto ai soggetti “post-moderni” viene riproposta da altri analisti e filosofi: A. Honneth, direttore della Scuola di Francoforte, dà una definizione –mi sembra- condivisibile della società post-moderna (2000): “… vale la pena di conservare … l’osservazione che, di recente, almeno nelle società altamente sviluppate, c’è un aumento della tendenza dei soggetti a concedere e ad immaginare maggiori possibilità di identità interna rispetto a condizioni di attribuzione consequenziale di un ruolo e rigide aspettative di comportamento”. Altri autori (per esempio Giuffrida 2000) sottolineano anche la tendenza della personalità post-moderna all’indifferenziazione, non solo sessuale, in quanto le singole individualità, grazie alla comunicazione mass-mediatica, andrebbero verso l’omologazione e la cancellazione. Galimberti (1999) è pure molto critico verso la comunicazione “tautologica” che ha origine dallo strapotere dei mezzi tecnologici.
Senza assolutamente affrontare qui i problemi posti da Cremerius e da altri autori, vorrei semplicemente proporre qualche considerazione:
1) come fa notare Holt (2001), il post-modernismo, nei suoi riflessi sulla psicoanalisi, se da un lato costituisce nei suoi aspetti di relativismo estremo un grosso pericolo, dall’altro tende a mitigare la rigidità, il dogmatismo, l’autoritarismo degli istituti psicoanalitici, a modificare la freddezza delle formulazioni teoriche, a rivalutare l’importanza degli aspetti di realtà nella relazione analista/paziente;
2) il modello di personalità in psicoanalisi sembra molto cambiato da Freud agli esponenti della Teoria delle relazioni oggettuali (vedasi in particolare, ma non solo Winnicot, citato da Lingiardi e Girosi 2002), per cui il già citato Honneth scrive che “lo stato di maturità del soggetto non è più misurato … in termini di forza dell’Io, ma in termini di capacità di aprirsi ai molti lati della propria persona, come espresso nel concetto di vitalità”;
3) secondo Giuffrida (2002) le patologie attuali, caratterizzate soprattutto dalla difettualità di rappresentare e strutturare una realtà psichica individuale (A. Green 2000), potrebbero dare luogo a un nuovo modo di interpretare il mondo: perché questo avvenga, è però necessario che si adattino schemi nuovi per interpretare la patologia e forse il ruolo o la struttura stessa dell’inconscio: in effetti le attuali correnti intersoggettive e costruttiviste della psicoanalisi ci ammoniscono a tenere sempre presente quanto le nostre credenze e pregiudizi coscienti e inconsci, legati anche alla teoria che abbracciamo, condizionino il nostro atteggiamento verso il paziente;
4) una giovane donna, che ha un comportamento bisessuale e che mi è sembrata parecchio disturbata, mi ha salutato alla fine del primo colloquio dicendomi che non posso capirla perché ho dei valori diversi dai suoi. Si tratta di una immediata e forte resistenza all’analisi e alla relazione con me oppure del fatto che ha sentito che io non sono così aperto alla sensibilità post-moderna?
Sulla scia di Honneth, che prende posizione a favore della capacità della psicoanalisi nella versione della Teoria delle relazioni oggettuali ad affrontare “le nuove soggettività” (egli fa soprattutto riferimento a Loewald), a me pare che dal punto di vista tecnico l’approccio intersoggettivo, che costituisce uno sviluppo della Teoria delle relazioni oggettuali, sia particolarmente indicato a rispondere ai problemi dei soggetti “post-moderni”: la maggior messa in gioco dell’analista nella relazione affettiva con il paziente, la valutazione dell’importanza degli aspetti di realtà della relazione, la capacità di comprendere quanto avviene in questa mutua situazione possono favorire la costruzione o l’elicitazione di quegli schemi affettivo-cognitivi o affettivo-rappresentazionali che mancano al paziente. Si tratta a mio parere di un impegno ancora più complesso e delicato di quanto fosse in passato, in quanto occorre aiutare il paziente a costituire o a ricostruire un Sé che sia in grado di integrare le sue molteplici facce; da questo può svilupparsi la forza del Sé, intesa in senso diverso dal vecchio concetto di forza dell’Io, cioè come capacità di contenere ed articolare la complessità interna, senza che la sua vitalità e creatività ne risultino menomate.
L’ultimo punto dell’articolo concerne la posizione critica di Cremerius rispetto alla psicoanalisi istituzionalizzata: la tratterò solo per brevi flash e commenti, non perché non si tratti di un aspetto fondamentale del suo pensiero, organicamente correlato alle formulazioni tecniche e teoriche, ma perché non voglio far diventare troppo lungo questo scritto volto a ricordarlo con affetto e gratitudine, ma anche con la “leggerezza” che gli era propria, e anche perché mi sono occupato recentemente (2002) e precedentemente (1998) dello stesso problema su “Setting”.
L’importanza che Cremerius attribuiva a questa parte della sua ricerca è confermata dal fatto che sono almeno dodici tra i settantuno articoli, scritti o tradotti in italiano, quelli nei quali egli si occupa con grande passione di questo tema e nel mio ricordo sono molti i seminari del training nei quali ha svolto o fatto riferimento a questi problemi. Inoltre, molta parte dell’ultimo capitolo del libro del 2002 (pubblicato per la prima volta nel 1995 come articolo su “Psicoterapia e Scienze Umane”), che è una sorta di testamento spirituale sul “Futuro della psicoanalisi”, si occupa della preoccupante “situazione che minaccia le Istituzioni psicoanalitiche”.
L’attualità del suo pensiero anche su questo punto viene confermata dalla rilettura di questi suoi articoli ed anche da quelli recentemente pubblicati sullo stesso argomento (Körner 2002, Garza-Guerrrero 2002) in un numero dell’”International Journal”, sui quali mi soffermerò brevemente più avanti.
L’atteggiamento critico di Cremerius è radicale e si rivolge non solo all’I.P.A. ma anche alle Istituzioni psicoanalitiche in generale: le sue osservazioni sono improntate a un marcato pessimismo, ma la prognosi sul futuro della psicoanalisi e sulle se prospettive (tema sul quale negli ultimi venti anni sono stati presentati molti interventi e contributi in relazione alla diffusa sensazione che la psicoanalisi attraversi un periodo di crisi) in quanto idea rimane positiva, piena di speranza e di fiducia. L’analisi di Cremerius è in primo luogo storico-critica, in quanto parte dalla fondazione dell’I.P.A., da quel marzo 1910 quando comincia a determinarsi la scissione tra lo spirito emancipatorio-liberale e scientifico che aveva animato fino ad allora il suo fondatore e le caratteristiche autoritario-gerarchiche dell’Istituzione, alle quali ben presto furono sacrificate le idee innovative, il dibattito scientifico e la ricerca, l’atteggiamento critico verso la società: quest’ultimo dovrebbe avere per Cremerius la stessa portata rivoluzionaria nell’ambito delle idee di quella determinata dall’altro grande innovatore del XIX secolo, Karl Marx.
L’organizzazione chiesastica, il culto della personalità, il “movimento psicoanalitico” come strumento di potere hanno condotto a scissioni o all’emarginazione di tante personalità creative, che sono state considerate come dissidenti e i cui contributi sono stati spesso riconosciuti molti anni dopo dal cosiddetto mainstream (1983). Ma Cremerius nota acutamente che Freud diventò dissidente verso sé stesso non solo per quelle modalità tecniche da lui utilizzate nella prassi, ma neglette o rifiutate nei suoi scritti tecnici, ma anche dal punto di vista teorico: egli infatti con la formulazione della teoria strutturale nel 1922 “scivolò sempre di più verso una posizione dissidente” (1983, p.5) poiché la teoria strutturale non venne accettata da molti analisti. Ancora recentemente P. Gray (1994) e F. Busch (1995), neo-freudiani americani, hanno sottolineato che la teoria strutturale e quella dell’angoscia come segnale non sono state pienamente adottate e sviluppate nella tecnica.
I punti fondamentali sui quali si appunta la critica di Cremerius non riguardano i fattori esogeni della crisi della psicoanalisi, ma quelli interni, legati alla struttura ideologica e organizzativa dell’I.P.A.: si tratta del procedimento di selezione per l’ammissione, dell’analisi didattica e del programma del corso di formazione. Le caratteristiche autoritaristiche di questi tre strumenti fondamentali della formazione vengono a determinare quel tipo di sistema che egli definisce come ”chiuso”, contrapposto al “sistema aperto”: questa terminologia fa riferimento ai concetti di Popper (1942) di società aperta e società chiusa. Non voglio soffermarmi più di tanto sulle articolate riflessioni di carattere storico, pedagogico, psicoanalitico che Cremerius sviluppa rispetto agli effetti negativi di questi tre strumenti: in primo luogo il sistema di selazione dei candidati tende a preferire quelli “normopati“ o “di imitazione”, in secondo luogo l’analisi didattica omogenizza i candidati e li indottrina secondo un determinato credo, in terzo luogo l’indottrinamento è completato da programmi di studio unidirezionali e rigidi, rispetto ai quali i candidati non hanno possibilità di scelta. In questo modo non può essere raggiunto lo scopo principale della formazione psicoanalitica, cioè lo sviluppo di un Io forte e critico, capace non solo di far fronte alle situazioni relazionali che il rapporto analitico comporta, ma anche di porsi “criticamente nei confronti della società” (Freud 1910). Rispetto al sistema di selezione dei candidati, il suo parere (1991, p. 30) è che ci si limiti ad un solo primo colloquio che verifichi che il candidato non soffra di gravi disturbi psichici e che la motivazione sia adeguata. L’analisi didattica, che è una vera contraddizione in terminis perché non permette nessuna soluzione della conflittualità edipica e del transfert, va assolutamente sostituita da una normale, efficace, analisi personale con un analista scelto liberamente dal candidato anche al di fuori dei docenti di quella Scuola o Associazione.
Quanto all’organizzazione della formazione Cremerius auspica, ancora nel suo articolo del ‘95, che gli istituti psicoanalitici si diano un’organizzazione di tipo universitario, in cui si offra ai candidati “uno spazio libero e aperto” (2002, p. 182), in cui, oltre alle supervisioni cliniche e allo studio della psicoanalisi nei suoi vari aspetti, si possano seguire corsi sia delle varie materie umanistiche che delle scienze affini senza programmi rigidamente prestabiliti. Questo Centro psicoanalitico dovrebbe offrire la possibilità a quanti sono interessati alla psicoanalisi, al rapporto tra psicoanalisi e cultura, alla relazione tra psicoanalisi e società di poter frequentare dei corsi o seminari aperti a tutti. Al tempo stesso tale Centro dovrebbe porsi lo scopo di effettuare ricerca in ambito psicoanalitico.
Mi limiterò a qualche commento su queste posizioni di Cremerius. Le sue affermazioni o i suoi desideri sulla organizzazione di un Centro psicoanalitico aperto mi appaiono da un lato entusiasmanti e innovative, dall’altro utopistiche o almeno molto lontane dalla realtà italiana: un Centro psicoanalitico siffatto non potrebbe sostenersi economicamente senza il sostegno dello Stato, il rapporto eventuale con l’Università sarebbe problematico e potrebbe facilmente mettere in forse la sua autonomia. Inoltre, come sottolinea Körner (2002), l’insegnamento attuale della psicoanalisi deve rendere operativi i temi di studio e permettere il controllo dell’insegnamento stesso rispetto all’efficienza e ai risultati, abbandonando, almeno in parte, gli ideali dell’educazione liberale senza perdere di vista la natura particolare, soggettiva, profondamente umana della competenza psicoanalitica. Anche delle proposte di Garza-Guerrero (2002) sottolineerò quelli che mi appaiono più interessanti: 1) l’istituto psicoanalitico dovrebbe adottare un modello educativo universitario autonomo nello stesso senso dell’idea di Cremerius; 2) il sistema di accreditamento dovrebbe basarsi su controlli locali ed esterni, indipendenti dai docenti che hanno seguito il candidato nel training; 3) l’istituto dovrebbe avere una presenza viva e attiva nella comunità locale, lontana da un’aristocratica o timorosa chiusura.
Per quanto mi riguarda ho messo in luce (2002) i grossi ostacoli che devono essere ancora superati nella nostra Istituzione, fondata a Milano da Cremerius e da Benedetti, perché possa diventare una struttura a “sistema aperto”: il problema fondamentale mi pare costituito dall’assenza di un’integrazione democratica tra Scuola e Associazione, soprattutto per quanto concerne la scelta di nuovi Docenti della Scuola, nella quale l’Associazione deve poter far sentire la sua voce. Il rischio naturalmente è che il sistema gerarchico-autoritario di scelta porti alla designazione di colleghi omogenei e sottomessi, a tutto danno della creatività, dello spirito critico, della capacità di iniziativa della Scuola stessa. Il più grosso dono che possiamo fare a Cremerius è quello, già da me auspicato (2002), di una democratizzazione, condivisione e mutualità tra Scuola e Associazione; credo che in questo modo potremmo veramente fare nostra la speranza finale di Cremerius (2002, p.184):
Spero che la generazione che determinerà nel prossimo secolo il futuro della psicoanalisi non la riproduca in maniera missionaria e apostolica…, bensì la proponga come una scienza che non può essere monopolizzata, che ‘appartiene’ a tutti gli uomini…
Note
1 L’anno di pubblicazione e la pagina dei passi citati si riferiscono alle opere ed agli articoli in italiano, per facilitarne il reperimento.
2 Il riferimento è qui al capitolo “Freud al lavoro: uno sguardo al di sopra della sua spalla. La sua tecnica nei resoconti di allievi e pazienti” (1985).
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Sommario
L’articolo, dopo aver messo in evidenza il grosso debito affettivo e conoscitivo dell’Autore nei confronti di Cremerius, maestro e amico, e il lungo lavoro di training con lui, presenta alcune riflessioni sulla sua tecnica, sulle sue posizioni metapsicologiche ed epistemologiche, sulla sua acuta critica nei confronti della società e dell’Istituzione psicoanalitica. In particolare, vengono messe in luce l’attualità della sua posizione tecnica, che anticipa per certi aspetti le recenti formulazioni intersoggettivistiche, pur nella fedeltà ai fondamentali principi freudiani (l’Edipo, la sessualità, le “pulsioni”, ecc.) e la coerenza e la stretta integrazione tra elementi tecnici e teorici e la critica della società e dell’Istituzione psicoanalitica mediante l’ uso dello strumento psicoanalitico.
Summary
First, the article highlights the Author’s debt of gratitude and knowledge towards Cremerius, master and friend, and the long training under his supervision. Then, it presents some comments about his tecnique, his metapsychological and epistemological issues, his sharp criticism towards society and the psychoanalytical institution. Particularly, the following topics are highlighted: the relevance of his technical viewpoints, which anticipates, in some ways, recent intersubjective concepts, though remaining faithful to Freud’s basic principles (Oedipus complex, sexuality, “drives”, and so on); the coherence and the close integration between technical and theoretical elements; the criticism towards society and psychoanalytical institution using the psychoanalytical tool itself.
Ciro Elia
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