mercoledì 19 dicembre 2007

Lacan: la teoria dello specchio


La natura illusoria dell’Io è particolarmente evidente nella teoria della fase dello specchio in cui si descrive il processo con il quale nel bambino si produce l’illusione di un Io, di un Sé unificato e conscio attraverso l’identificazione con la propria immagine riflessa[1]riconoscimento dell’unità attraverso la visione della propria immagine, ma la costruzione dell’unità stessa, o, più precisamente, di un’illusione di unità. Il bambino vede l’immagine allo specchio e si riconosce in essa, ma ciò che è nello specchio non corrisponde, in effetti, al bambino reale: è solo un’immagine. Le altre persone – in particolare la madre - rinforzano questo falso riconoscimento che conduce il bambino a percepire l’immagine allo specchio come la somma fedele del suo intero essere, organizzato in questo modo in un tutt’uno completo. L’idea di unità e completezza che dà vita all’Io del soggetto, alla sua identità, è per Lacan totalmente illusoria e immaginaria, poiché non inerisce a una condizione interna preesistente all’immagine, ma si forma proprio grazie all’identificazione con essa. . È importante sottolineare che ciò che avviene in questa fase non è un

Oltre al carattere illusorio dell’Io viene così sottolineato la funzione morfogena dell’immagine: l’immagine è un elemento totalmente esterno ed estraneo al soggetto – sempre “altro” da esso[2]L’immagine non dipende tanto dalla facoltà soggettiva dell’immaginazione – non è costituita dal potere rappresentativo del soggetto com’è nella tradizione filosofico-psicologico classica – ma si svela piuttosto un potere di causazione del soggetto, una funzione, appunto, costituente proprio nella determinazione del soggetto. In questo senso bisogna sottolineare lo svuotamento operato sull’io di ogni contenuto ontologico-sostanzialistico”. - che ha il potere di costituirlo e di plasmarne l’identità. La funzione costituente dell’immagine, come spiega Di Caccia[3], riduce l’Io ad una “misera ombra”, ad un semplice “derivato” dell’altro, in completa opposizione alla tradizione essenzialista che lo interpreta, invece, come sostanza propria e specifica del soggetto, suo centro trascendentale e coordinatore della personalità: “

Lacan sostiene, dunque, la completa estraneità dell’immagine al soggetto: nella sua unità e stabilità, l’Io a cui essa da vita non potrà mai corrispondere all’intero essere che, al di qua dello specchio, rimane sempre frammentato e disperso. L’identità del soggetto altro non è che una finzione narcisistica[4] che tiene insieme, a livello immaginario, i pezzi frammentati del soggetto. “Il grande seminarista” coglie efficacemente nella famosa metafora della cipolla questa condizione:

 

l’io è un oggetto fatto come una cipolla, lo si potrebbe pelare e si troverebbero le identificazioni successive che lo hanno costituito[5]

 

Riassumendo, come abbiamo visto sopra e come osserva ancora di Caccia, l’Io stratificato come una cipolla mette in evidenza due grandi questioni: il carattere di finzione che contraddistingue l’identità, dovuto alla mancanza di una sostanzialità propria dell’Io, al suo disfarsi in molteplici identificazioni che impediscono di trovare un centro stabile, un “cuore della cipolla”. In secondo luogo, il carattere non autofondato del soggetto: nel meccanismo di identificazione l’Io non si costituisce come soggetto, ma piuttosto come oggetto composto dalle aggregazioni di identificazioni.

 







[1] Tra i sei e i diciotto mesi il bambino non ha ancora padronanza del proprio corpo; non ha controllo dei suoi movimenti e non ha la percezione del suo corpo come un’unità, un intero. Il bambino ha, piuttosto, esperienza di un corpo in frammenti,in pezzi: qualsiasi parte si trovi all’interno del suo campo visivo è lì finché lui la può vedere, ma scompare no appena il bambino non la vede più. Egli può vedere la sua mano, ma non sa che la mano appartiene a lui, la mano potrebbe essere di chiunque, o di nessuno. Però il bambino a questa età può immaginare sé stesso come un tutt’uno, perché ha visto le altre persone, e le ha percepite come esseri unitari. A un certo punto di questo periodo il bambino si vedrà riflesso in uno specchio. Guarderà la sua immagine riflessa, si volterà verso una persona reale – sua madre o qualsiasi altra persona – e riguarderà l’immagine allo specchio. Queste azioni gli conferiranno la sensazione che anche lui è un essere integrato, un intero. Si muoverà dalla percezione di un corpo frammentato a una visione di sé come un tutto integrato. Alla fine, ciò che il bambino vede nello specchio, questo essere unitario, diventerà un “Sé”, designato con la parola “IO”.



[2] In questo senso si può interpretare l’affermazione di Lacan “l’ego è sempre un alter-ego”. L’io si forma tramite l’identificazione con un’istanza esterna, con un “altro”, per cui l’io è l’altro, l’Io è basato su un’immagine, un altro. La condizione dell’Io è, dunque, quella dell’alienazione: “la stessa immagine che fornisce all’io la sua identità è ciò che lo aliena infinitamente da se stesso in quanto, appunto, ‘da sempre sottratta ’ e, proprio per questo, perché segno di una lacerazione non rimarginabile, indice della stessa significazione mortale del soggetto”. A. Di Caccia, M. Recalcati, Jaques Lacan, Paravia Bruno Mondatori Editori, 2000, p. 27



[3] Ibidem, pp. 24-25



[4] La natura narcisistica del processo è evidente nella fascinazione dell’immagine che cattura il soggetto nella promessa illusoria di unità e totalità.



[5] J. Lacan, Il seminario. Libro I, cit. in A. Di Caccia, M. Recalcati, Jaques Lacan...op. cit., p. 14



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