Ancora nel XVIII secolo le condotte che contravvenivano alle norme erano per la maggior parte considerate peccaminose, frutto di una volontà debole e socialmente moleste. In queste prospettiva l’eccesso nel consumo di sostanze era soprattutto interpretato come una cattiva abitudine, un vizio, e chi le assumeva era visto come un depravato, un trasgressore delle norme morali, un edonista alla ricerca esclusiva del piacere.
A partire dalla seconda metà del XIX secolo, in seguito ad un notevole sviluppo delle scienze naturali, la medicina ha mutato una serie di concetti e di metodologie che si erano sviluppate soprattutto nell’ambito di scienze come la fisica e la chimica ma che, nonostante questo, si tentava di applicare al comportamento umano. Così dalla concezione di peccato volontario si è passati ad una deterministica, «secondo la quale ogni evento, ogni pensiero ed ogni azione umana ha una causa e compito della scienza è eminentemente di individuarne i fattori soggiacenti» (Ravenna, 1997).
In questo quadro, molti dei concetti nati in ambito medico hanno cominciato ad essere applicati anche a quei fenomeni e a quelle questioni che fino a quel momento appartenevano alla sfera etica, tra cui molte condotte “socialmente indesiderabili” che iniziarono così ad essere spiegate come sintomo di un qualche malfunzionamento fisico o psichico (la malattia mentale), nel caso non fossero rintracciabili evidenti cause organiche.
A causa dell’adozione del modello medico si iniziò ad interpretare anche l’uso e l’abuso di droga come una malattia, sollevando in questo modo l’assuntore da ogni tipo di responsabilità circa il proprio stato e dunque sottraendolo alla stigmatizzazione sociale e a interventi di tipo punitivo per affidarlo invece a trattamenti di tipo medicale. Ciò era avvalorato dal fatto che il consumatore, assumendo una certa droga, immetteva nel proprio corpo una sostanza in grado di alterarne il naturale equilibrio interno.
Questa transizione dal modello morale a quello medico è avvenuta in modo graduale e in un certo senso anche parzialmente: infatti, in alcune teorie odierne è rintracciabile qualche traccia evidente dei vecchi riferimenti di tipo etico (Mc Murran, 1994).
Le teorie attualmente esistenti sull’uso e l’abuso di droghe sono molto numerose e diversificate tra loro, ma è possibile raggrupparle in due grandi paradigmi teorici: il paradigma «disease», che collegandosi strettamente al modello medico, spiega la tossicodipendenza solamente in base a cause intraindividuali (organiche o psicologiche) e il paradigma «adattivo» che al contrario la interpreta in base alla continua e reciproca interazione tra l’individuo e il suo ambiente di vita.
Secondo il primo paradigma, l’addiction nasce da una predisposizione individuale con base biologica e/o psicologica e si manifesta come conseguenza dell’esposizione dell’individuo alla droga.
L’idea di base è quella che il tossicodipendente sia diverso dalle altre persone, perché affetto da certe anomalie biologiche o psicologiche già presenti prima dell’incontro con la sostanza o che essa ha contribuito a rendere evidenti.
Il tossicodipendente è così ridotto ad un “malato” con ridotte o nulle capacità di intraprendere azioni autonome, integrate e funzionali, perché guidato, in ogni suo pensiero e comportamento «da una forza psicologica irresistibile, da un bisogno urgente e pressante » (Ravenna, 1997), detto «craving», alimentato dai sintomi astinenziali.
L’individuo assume la droga in base ad un qualche meccanismo su cui non esercita nessun tipo di controllo e che lo induce a farlo, il suo comportamento è esclusivamente funzione di forze esterne e non di motivazioni e scelte personali. Essendo un malato, il tossicodipendente va trattato e curato come tale da esperti, attraverso forme di intervento basate sul controcondizionamento e terapie farmacologiche.
Al contrario, il paradigma «adattivo», che costituisce la sintesi di varie teorie sviluppate in ambito psichiatrico, psicologico e sociologico, interpreta il ricorso alla droga come il risultato di un complesso intreccio di fattori biologici, cognitivi, motivazionali, interpersonali e situazionali. In questa prospettiva l’abuso di droga è visto come «una strategia disfunzionale utizzata per il tentativo di fronteggiare disparate esperienze e situazioni di disagio» (Ravenna, 1997).
Secondo questo paradigma le azioni ed i comportamenti del soggetto sono autodirette e guidate da scopi spesso non consapevoli; Alexander (1990), l’esponente più autorevole del modello, parla di «ricerca e scelta», per spiegare che l’individuo sceglie intenzionalmente tra diverse alternative, non in base ad una «libera volontà», ma in relazione a vincoli ed influenze personali, interpersonali e culturali.
La aderire a l’uno o all’altro modello implica necessariamente differenze fondamentali anche nella scelta dei tipo di trattamento e più in generale nelle linee di politica sociale da seguire, in quanto cambia il modo di valutare il consumo ed i problemi ad esso associati: intendendo la dipendenza come una malattia, questa sarà curata attraverso interventi di tipo medico; al contrario, se si ritiene che essa sia il frutto di un complesso percorso di costruzione, saranno necessarie strategie di intervento volte a promuovere processi di cambiamento sia a livello personale che sociale.
Inoltre, seguire un modello entro il paradigma adattivo rispetto ad uno appartenente al paradigma disease, ci da anche la possibilità di studiare quei fattori che rendono diverso un consumatore rispetto ad un altro, come le credenze e le aspettative, che consideriamo in questa ricerca.
Entro il paradigma disease, infatti, i fattori comportamentali non vengono considerati come potenziali cause di malattia e per questo non vengono neppure valutati nel processo diagnostico; concentrandosi esclusivamente sulle cause biologiche della malattia, il modello medico trascura il fatto che la maggior parte di esse è in realtà il risultato di un’interazione di fattori sociali, psicologici e biologici.
La logica conseguenza è che i medici non hanno bisogno di occuparsi degli aspetti psicosociali della dipendenza (e in generale della salute), dato che questi vanno al di là della loro responsabilità e competenza.
Tale modello, quindi, non può dare un contributo significativo alla linea della prevenzione che tende a ridurre l’incidenza della tossicodipendenza (e delle malattie croniche) attraverso la modificazione di atteggiamenti, credenze, aspettative e dei comportamenti rilevanti per la salute.
Alla luce di questi problemi, Engel (1977) ha proposto un’estensione del modello medico che includa anche i fattori psicosociali nella comprensione scientifica della salute. Il modello biopsicosociale afferma che sia i fattori biologici sia quelli psicologici e sociali sono importanti nel determinare lo stato di salute e di malattia. Secondo questo approccio, la diagnosi medica dovrebbe sempre prendere in considerazione l’alterazione di tutti questi fattori per valutare correttamente lo stato di salute e prescrivere quindi il trattamento adeguato (Stroebe e Stroebe, 1997).
Il paradigma adattivo non interpreta l’abuso di droga come una sorta di malattia, di patologia o di disordine, ma come il risultato del tentativo di far fronte a diverse situazioni (i compiti di sviluppo particolarmente impegnativi, eventi stressanti, stati di disagio) tramite l’uso di certe sostanze.
I fondamenti teorici di questo orientamento sono rintracciabili nella teoria dello stress, in quella psicoanalitica ed evoluzionistica, in quella del ciclo di vita di Erikson e nei vari contributi più recenti proposti dalla teoria dell’apprendimento sociale e dalle varie teorie cognitivo-comportamentali, che sottolineano la centralità dei processi cognitivi (aspettative, distorsioni, attribuzioni) e delle cause situazionali rispetto a quelle disposizionali, nell’uso e nell’abuso di droghe.
Certamente è riconosciuto un ruolo importante anche a tutti i fattori biologici, ma si postula che questi siano in continua e reciproca interazione con quelli propriamente psicologici.
In questa rassegna delle varie teorie circa il consumo di sostanze ci occuperemo soltanto di quelle che nascono all’interno del paradigma adattivo e che si ispirano alla teoria dell’apprendimento sociale e a quelle cognitive, proprio perché solo all’interno di tali prospettive acquista un senso studiare quei fattori individuali che spingono una persona a far uso di una certa sostanza.
In particolare, idea di fondo dell’approccio cognitivista è che il consumo e gli effetti percepiti di una sostanza siano fortemente influenzati da fattori cognitivo-motivazionali; solo in questa cornice assumono quindi un ruolo di rilievo le motivazioni, le credenze, gli atteggiamenti e, oggetto privilegiato di questa ricerca, le aspettative circa gli effetti di una sostanza.
MODELLI DI COMPORTAMENTO: I MODELLI TEORICI DELLA SOCIAL COGNITION
L’approccio della social cognition, nato all’interno della psicologia sociale, sostiene che le persone sviluppano rappresentazioni mentali o cognitive della realtà. Queste “cognizioni” sono costruite e modificate attraverso l’apprendimento sociale ed influenzano il modo in cui le persone si comportano. Inoltre, i resoconti verbali delle persone riflettono idee e convinzioni sottostanti che sono quindi rilevabili attraverso strumenti come i questionari.
Secondo i modelli teorici ispirati alla social cognition sviluppati all’interno della psicologia della salute, alla base dei comportamenti rilevanti per la salute vi sono particolari credenze o atteggiamenti individuali. L’idea è quella che un essere umano che elabora razionalmente le informazioni disponibili, calibra costi e benefici di un suo potenziale comportamento e poi decide come agire.
I molteplici fattori che spiegano come e perché le persone si comportino in modo da proteggere o danneggiare la propria salute saranno chiamati “fattori predittivi” (o “predittori” o “determinanti”), pur tenendo presente che a volte è difficile accertare se abbiamo un reale effetto causale o se invece siano concomitanti o conseguenti all’assunzione del comportamento.
Il presupposto secondo cui le credenze e gli atteggiamenti sono le determinanti principali del comportamento è condiviso da vari modelli di comportamento, tutti in qualche modo ispirati alla teoria dell’apprendimento sociale, da ciascuno dei quali possono essere derivate delle predizioni circa il comportamento rilevante per la salute e quindi anche riguardo all’uso e all’abuso di droga.
Queste teorie appartengono alla famiglia dei modelli aspettativa-valore: questi modelli ipotizzano che le decisioni su cosa fare, e quindi anche nel caso delle decisioni riguardanti i comportamenti legati all’assunzione di droghe, si basino su due tipi principali di processi cognitivi:
- la stima soggettiva della probabilità con cui una determinata azione condurrà ad un insieme di risultati previsti; nel caso dell’assunzione di droga, si tratta quindi della stima della probabilità con cui tale assunzione (a seconda della quantità e qualità della sostanza, o del contesto in cui viene assunta ecc.) condurrà ad un insieme di effetti previsti.
- la valutazione dei risultati dell’azione; nel caso dell’assunzione di droga si tratta della valutazione degli effetti ottenuti.
Le persone sceglieranno, tra i vari corsi di azione alternativi, la condotta che ha maggiore probabilità di condurre a conseguenze positive o di prevenire il verificarsi di conseguenze negative.
Quindi, nel caso dell’assunzione di una sostanza psicoattiva, la persona sceglierà di assumerla o meno e, se si, in quale quantità, in quale contesto, in compagnia o da sola ecc..a seconda della stima soggettiva della probabilità con cui tale sostanza produrrà effetti positivi (euforia, rilassamento, socievolezza…) o diminuirà/eviterà stati o effetti negativi (tristezza, depressione, astinenza..).
I modelli che verranno descritti in questo paragrafo elaborano il modello di base specificando i tipi di convinzioni e di atteggiamenti che dovrebbero essere utilizzati per predire una particolare classe di comportamenti e/o includendo variabili ulteriori, come le norme soggettive o la percezione del controllo, allo scopo di predire il comportamento. Gli studi che hanno valutato empiricamente questi modelli, esaminando la misura in cui i vari fattori proposti da essi influenzano il comportamento, non solo ci danno informazioni sulle possibilità che abbiamo di predire il comportamento in un determinato ambito, ma forniscono anche preziose opportunità di capire come fare a modificare tale comportamento Ad esempio, se emergesse che il comportamento in un determinato ambito è solo debolmente connesso con gli atteggiamenti, ma è fortemente correlato con le norme soggettive, i tentativi finalizzati alla modificazione di tale comportamento dovrebbero concentrarsi sulla modificazione delle norme soggettive piuttosto che sugli atteggiamenti.
E’ necessario sottolineare che tutti questi modelli sono nati nell’ambito della psicologia sociale e della salute e quindi sono generalizzabili a tutti quei comportamenti che sono in qualche modo collegati a quest’ultima: nel nostro caso i modelli sono perfettamente compatibili con il comportamento di assunzione di sostanze, ma sono estendibili ad altri comportamenti rilevanti per la salute come ad esempio il controllo dell’alimentazione o i comportamenti legati all’attività sessuale o a quella fisica.
LA TEORIA DELL’APPRENDIMENTO SOCIALE
Secondo la teoria dell’apprendimento sociale, il comportamento delle persone è il risultato di un’interazione tra processi cognitivi ed eventi ambientali. L’individuo è motivato ad ottenere il massimo dei rinforzi e il minimo della sanzioni (punizioni) dall’ambiente circostante; tuttavia non è guidato soltanto dalle contingenze attuali ma è in grado do posticipare le gratificazioni e di pianificare attivamente alcuni obiettivi comportamentali a breve e a lungo termine, soppesando le diverse alternative, scegliendo obiettivi sulla base dei comportamenti altrui e degli standard normativi o morali. Bandura, il massimo esponente di questo approccio, sostiene che il comportamento è orientato da obiettivi e che la motivazione e le azioni umane sono in gran parte regolate dalla previsione.
Le scelte comportamentali si basano su due tipi principali di aspettative:
- le aspettative relative al risultato (outcome expectancies), il grado in cui i soggetti credono che un’azione porti ad un particolare esito e il valore attribuito a quell’esito;
- le aspettative relative all’efficacia personale (self-efficacy expectancies), il grado in cui i soggetti son o convinti delle proprie capacità di eseguire le azioni necessarie a raggiungere un risultato desiderato.
In conformità a questa visione delle decisioni umane, le aspettative relative al risultato e all’efficacia personale sono importanti determinanti del comportamento relativo alla salute: i soggetti perdono peso, hanno rapporti sessuali protetti, evitano di usare droga o cercano di limitarne il consumo, se sono convinti degli effetti positivi di queste loro decisioni, se li valorizzano e se si ritengono capaci di adottare tali pratiche con continuità e competenza.
Le aspettative relative al risultato possono essere classificate secondo gli ambiti di effetto dell’azione, che possono essere fisici (“se smettessi di fumare marijuana riuscirei a studiare di più e ad avere più concentrazione”), sociali (“mi sentirei a disagio con gli amici”) e di autovalutazione (“mi sentirei più fiero di me stesso”).
Le aspettative relative all’efficacia personale (o autoefficacia) si possono suddividere in generali e specifiche del comportamento.
L’efficacia personale generale (ad esempio “sono una persona sicura di se stessa”) è importante in particolar modo quando il soggetto si confronta con una decisione nuova, mentre le aspettative specifiche possono mostrare una variabilità intraindividuale nei diversi comportamenti (“sono fiducioso nel riuscire a smettere di fumare cannabis ogni giorno” oppure “non mi sento convinto di poter rinunciare alla marijuana quando sono in compagnia degli amici che la fumano”) e come tali rappresentano determinanti più potenti del comportamento.
In entrambi i casi, l’autoefficacia gioca un ruolo principale nel miglioramento del funzionamento mentale: chi ha un’autoefficacia alta persevera nei tentativi di raggiungere un obiettivo, attribuisce l’eventuale insuccesso allo scarso impegno o a condizioni avverse, è capace di affrontare gli stressor ambientali, ha obiettivi ambiziosi, ha bassi livelli di stress ed è poco vulnerabile alla depressione.
Possiamo distinguere, secondo Marlatt, cinque tipi di aspettative specifiche di efficacia, se si considerano le diverse condizioni di un soggetto alcol/tossicodipendente:
- l’autoefficacia di resistenza riflette la fiducia soggettiva nel riuscire a d evitare totalmente l’uso della sostanza (“sono convinto di non iniziare a fumare cannabis”);
- l’autoefficacia di riduzione del danno riguarda l’abilità personale a ridurre i rischi una volta iniziato il consumo (“sono capace di non mettermi al volante dopo aver fumato marijuana”);
- l’autoefficacia di azione si riferisce alla fiducia nel raggiungere l’astinenza o un uso controllato della sostanza (“sono convinto di riuscire a moderarmi fumando cannabis solo nel week end”);
- l’autoefficacia di fronteggiamento (coping) riguarda la capacità di evitare la ricaduta (“riuscirò a resistere anche se i miei amici mi offriranno uno spinello”);
- infine l’autoefficacia di guarigione riflette l’abilità a riprendere l’astinenza dopo la ricaduta (“anche se mi è capitato di fumare di nuovo, sono convinto di riuscire ad astenermi in futuro”).
Secondo questo approccio, gli individui possono migliorare o peggiorare il proprio livello di autoefficacia e modificare le proprie convinzioni sulle conseguenze del proprio comportamento attraverso l’esperienza; in particolare, interventi esterni orientati alla sperimentazione di abilità collegate alla situazione specifica e alla continua autovalutazione riescono a rafforzare la fiducia di riuscire ad attuare un determinato comportamento.
Secondo Bandura, la maggior parte dei comportamenti umani è il frutto di un processo di apprendimento e di esposizione a modelli comportamentali esterni; l’apprendimento può verificarsi attraverso l’esperienza diretta (detta anche “learning by doing”) o indirettamente, osservando e modellando le proprie azioni su quelle di altri su cui ci si identifica (ciò è detto anche “apprendimento vicario” o “modeling”). Le aspettative riguardo ai risultati e all’efficacia si originano dall’esperienza vicaria fornita dall’osservazione di modelli anche senza un’esperienza diretta del soggetto.
LA TEORIA DEL COMPORTAMENTO PROBLEMATICO
La teoria è stata sviluppata da Jessor e Jessor (1980) per spiegare alcuni comportamenti problematici (come l’uso di droghe illecite, di alcolici, fumo, esperienze sessuali precoci, ecc.) diffusi tra gli adolescenti. Dalle ricerche realizzate da questi studiosi, emerge che tali condotte tendono a presentarsi in cluster, e cioè il coinvolgimento in una di esse generalmente si associa al coinvolgimento in altre. E’ emersa una correlazione positiva significativa tra uso di alcolici, uso di droghe illecite lecite e illecite, abitudine al fumo, rapporti sessuali non protetti e atti devianti di vario genere.
La teoria è centrata su tre sistemi di influenze psicosociali: personalità, ambiente percepito e comportamento. In ognuno di essi sono presenti sia istigazioni a comportamenti problematici, sia controlli in grado di evitarle o ridurle che insieme producono uno stato definito come «disponibilità al comportamento problematico» (Jessor e Jessor, 1980). Poiché istigazioni e controlli variano tra gli individui, anche il grado di disponibilità al comportamento problematico varia in modo “idiosincratico”. Inoltre, visto che in rapporto ad ogni persona sono possibili continui cambiamenti in ognuno dei tra sistemi, la disponibilità a comportamenti problematici non è statica nel tempo.
La combinazione che si crea tra disponibilità personale, ambientale e comportamentale genera una condizione di “disponibilità psicosociale” che equivale ad una condizione di rischio. Il grado di disponibilità a intraprendere comportamenti problematici si colloca su un continuum che va dalla convenzionalità alla non convenzionalità.
Il sistema di personalità comprende le strutture motivazionali-istigative (ad esempio il significato ed il valore che il soggetto attribuisce agli scopi che intende perseguire e le aspettative che ha sulla loro realizzabilità), quella delle credenze (relative a sé e alla società) e quella dei controlli (il grado di religiosità, di tolleranza verso la devianza e di discrepanza tra le ragioni a favore o contrarie ad un certo tipo di comportamenti).
In relazione a questo sistema, la disponibilità a intraprendere un comportamento problematico si evidenzia in rapporto alla minor importanza attribuita alla riuscita scolastica rispetto all’autonomia personale, allo scarso interesse per la dimensione religiosa, a posizioni critiche verso la società, a bassi livelli di autostima, ad un orientamento esterno di locus of control e ad una certa tolleranza alla devianza.
Il sistema dell’ambiente percepito comprende sia variabili prossimali che influenzano direttamente il comportamento (il grado di approvazione dei familiari e del gruppo dei pari relativamente ai comportamenti problematici, i modelli di condotta da essi proposti) sia distali e indirette (il sostegno, il controllo l’influenza dei genitori e degli amici). Da questo punto di vista gli autori sostengono che quanto più l’adolescente è orientato verso i pari rispetto ai genitori e non accetta le norme sociali condivise, tanto minore sarà il controllo sociale verso la trasgressione e tanto maggiore la sua disponibilità verso comportamenti problematici. Inoltre, tali comportamenti, si producono di più quando il sostegno ed il controllo della famiglia sono scarsi, quando c’è maggior conflittualità tra le posizioni dei genitori e quelle dei pari e quando l’adolescente sente maggiormente l’influenza di questi ultimi.
Il sistema del comportamento comprende la struttura dei comportamenti problematici (uso di marijuana, uso e abuso di alcolici, esperienze sessuali, devianza, protesta politica e sociale) e quella dei convenzionali (partecipare alla vita religiosa, alle attività scolastiche).
In sintesi, secondo Jessor e Jessor, la probabilità che un adolescente intraprenda una condotta problematica dipende dal tipo di combinazione che si crea tra i diversi fattori a rischio compresi nei tre sistemi indicati dal modello. I diversi comportamenti problematici sono, in tale prospettiva, intercorrelati tra loro e strettamente intrecciati allo stile di vita dell’adolescente. Ovviamente, la loro genesi ed il loro mantenimento sono anche influenzati da fattori macrosociali quali, ad esempio, povertà, ineguaglianza, discriminazione (Ravennna, 1997).
IL MODELLO DELLE CREDENZE SULLA SALUTE
Questo modello è stato formulato originariamente dagli psicologi sociali dell’US Public Health Service nel tentativo di comprendere il motivo per cui le persone non adottavano comportamenti preventivi o non si sottoponevano ad esami di screening per l’individuazione precoce delle malattie non associate, perlomeno nelle prime fasi, a sintomi evidenti. Successivamente, il modello è stato applicato anche alle risposte dei pazienti ai propri sintomi e alla compliance o all’adesione al regime terapeutico prescritto (Rosenstock, 1974; Janz e Becker, 1984).
Secondo il modello delle credenze sulla salute, la probabilità con cui una persona adotta un determinato comportamento rilevante per la salute è una funzione 1) della misura in cui essa ritiene di essere personalmente suscettibile al rischio di contrarre la malattia in questione e 2)della percezione della gravità delle conseguenze che ne deriverebbero. La suscettibilità e la gravità determinano, congiuntamente, la «percezione di minaccia» (Rosenstock, 1974), alla quale ci si riferisce talvolta, con l’espressione “vulnerabilità”. Ad esempio, un fumatore di mezza età, in soprappeso e con la pressione alta, potrebbe essere consapevole di correre un rischio elevato di malattia cardiovascolare (percezione della suscettibilità) e di poter restare gravemente menomato o anche morire a causa di ciò (percezione della gravità).
Ammesso che venga percepita la minaccia per la salute, la probabilità di adottare un determinato comportamento rilevante per la salute dipenderà anche dalla misura in cui la persona crede che l’azione conduca a benefici maggiori degli ostacoli associati all’azione, come i costi, la difficoltà o la sofferenza.
Sempre secondo Rosenstock (1974), inoltre, potrebbe essere necessario uno stimolo all’azione per innescare un adeguato comportamento rilevante per la salute: potrebbe trattarsi di uno stimolo interno, come un sintomo fisico, o di uno esterno, come una campagna dei mass media, un consiglio medico o la morte di un coetaneo che conduceva uno stile di vita analogo al proprio.
Secondo il modello delle credenze sulla salute, possono esserci molte ragioni per cui le persone non modificano il proprio comportamento rilevante per lòa salute anche nel caso in cui la loro vulnerabilità effettiva sia elevata. Esistono numerose prove di una tendenza generale a sottostimare i rischi per la propria salute rispetto a quella degli altri (Weinstein, 1987).
Così, ad esempio, anche se si accetta l’idea che fumare marijuana accresca il rischio di contrarre malattie a livello polmonare, ci si potrebbe sentire protetti da una costituzione particolarmente solida e, sentendosi dunque meno vulnerabili nei confronti di tali patologie, si continuerebbe ad assumere la sostanza. Ma anche se si percepisse realisticamente una minaccia, non si avrebbero grandi probabilità di adottare misure di protezione della salute se si dubitasse della loro efficacia o se si ritenesse che lo sforzo richiesto sarebbe eccessivo.
Quindi, qualsiasi campagna dei media finalizzata alla modificazione del comportamento rilevante per la salute (nel nostro caso la campagna sarebbe finalizzata alla modificazione dei comportamenti riguardanti il consumo di cannabis) dovrebbe avvalersi di argomenti che persuadono le persone del fatto che:
1) è probabile che si verifichino serie conseguenze per la salute se non vengono modificati determinati aspetti dello stile di vita (ad esempio se non si smette/riduce il consumo di marijuana);
2) che l’adozione di certi comportamenti salutari ridurrebbe considerevolmente tale rischio.
Valutazione empirica del modello
Janz e Becker (1984) hanno analizzato una rassegna di 46 studi basati sul modello delle credenze sulla salute, dei quali 18 adottavano un disegno prospettico e 28 retrospettico. Allo scopo di valutare la validità del modello, i ricercatori hanno messo a punto un “quoziente di significatività” per ogni dimensione, costituito dal rapporto tra il numero di risultati positivi statisticamente significativi, relativi ad una determinata dimensione del modello, per il numero totale di studi che riportano livelli di significatività relativamente alla stessa dimensione. I risultati emersi furono i seguenti: ostacoli (89%), suscettibilità (81%), benefici (78%) e gravità (65%). Secondo gli autori, questi risultati confermano sostanzialmente il modello (Stroebe e Stroebe, 1999).
Implicazioni per la pianificazione degli interventi
Le implicazioni del modello delle “credenze” per gli interventi orientati a influenzare i comportamenti rilevanti per la salute si possono capire dai risultati di uno studio che ha applicato il modello all’uso del preservativo tra gli adolescenti (Abraham, 1992).
Questo studio, condotto su un campione di 300 adolescenti scozzesi sessualmente attivi, ha indagato sulla relazione tra le varie componenti del modello delle credenze sulla salute e l’intenzione di tenere con sé e utilizzare i preservativi, evidenziando che la percezione della gravità dell’infezione da HIV, la percezione della vulnerabilità all’infezione da HIV e la percezione dell’uso del preservativo erano solo debolmente connesse con tale intenzione.
Viceversa, la percezione degli ostacoli all’uso del condom (ad esempio il fatto che riduca il piacere sessuale, la scomodità nell’indossarlo ecc.) risultava essere in stretta relazione con l’intenzione di portarsi dietro e utilizzare il preservativo.
Questi dati suggeriscono che per gli interventi futuri potrebbe essere più efficace concentrarsi sugli ostacoli costituiti dall’accettabilità sociale piuttosto che enfatizzare la vulnerabilità dei giovani all’infezione, la sua gravità e l’utilità del condom, come invece è stato fatto fino ad oggi nella maggior parte degli interventi.
LA TEORIA DELLA MOTIVAZIONE A PROTEGGERSI
Per la versione originaria della teoria (Rogers e Mewborn, 1976), la motivazione a proteggersi (cioè la motivazione ad adottare un qualunque comportamento di protezione per la salute) dipende da tre fattori:
1) la percezione della gravità dell’evento nocivo;
2) la stima soggettiva della probabilità del verificarsi dell’evento, o percezione della suscettibilità;
3) l’efficacia della risposta consigliata per prevenire l’evento nocivo.
Secondo tale modello, ad esempio, la reazione di un adolescente che fuma abitualmente marijuana esposto ad una campagna che enfatizza la responsabilità della sostanza nello sviluppo di malattie polmonari, dipenderà dalla sua risposta alle seguenti domande: “Quanto è brutto avere il cancro ai polmoni?”, “Che probabilità ho di ammalarmi di cancro ai polmoni?”, “Smettere di fumare marijuana, di quanto diminuirà il rischio di contrarre la malattia?”.
Il modello, parte dal presupposto che i tre fattori si combinano in modo moltiplicativo per determinare l’intensità della motivazione a proteggersi.
Valutazione empirica del modello originario
Rogers e Mewborn (1976), hanno testato le predizioni derivate dalla teoria della motivazione a proteggersi in tre esperimenti, in cui veniva fatto uso di messaggi che facevano leva sulla paura relativamente al fumo, alla sicurezza stradale e alle malattie veneree. I messaggi comunicativi manipolavano ognuna delle tre variabili cruciali della teoria ai due seguenti livelli: elevata vs. bassa nocività dell’evento rappresentato; elevata vs. bassa probabilità del verificarsi dell’evento; elevata vs. bassa efficacia della risposta di fronteggiamento consigliata.
I risultati emersi dagli esperimenti non hanno portato ad una conferma univoca del modello e soprattutto non è emersa alcuna prova dell’interazione a tre vie (percezione della suscettibilità x percezione della gravità x percezione dell’efficacia del coping) che ci saremmo dovuti aspettare sulla base della combinazione moltiplicativa dei tre fattori, ipotizzata dal modello.
Secondo quanto rilevato da Sutton (1982), l’insuccesso dello studio di Rogers e Mewborn (1976) può essere dipeso dal fatto che la percezione dell’efficacia e la suscettibilità non sono indipendenti, a differenza di quanto ipotizza il modello. L’azione consigliata è percepita come efficace nella misura in cui la si ritiene capace di ridurre il rischio del verificarsi dell’evento nocivo. Quindi, la percezione dell’efficacia non può mai essere maggiore della percezione della suscettibilità.
Il modello rivisto
In una revisione della teoria Rogers (1983; Rippetoe e Rogers, 1987), abbandona l’idea che i vari fattori si combinino moltiplicativamente ed ha ampliato la teoria per aggiungervi ulteriori determinanti della motivazione a proteggersi. Probabilmente la variabile più importante che doveva essere aggiunta era l’autoefficacia (Stroebe e Stroebe, 1999). Il concetto di autoefficacia si riferisce alla convinzione di una persona di essere in grado o meno di eseguire una determinata azione (Bandura, 1986). Poiché le persone potrebbero non essere motivate a smettere di fumare m, marijuana o a rinunciare all’alcol, nonostante un atteggiamento negativo verso questi comportamenti (perché ne sono dipendenti o si sentono troppo deboli per farlo), l’inclusione de4llautoefficacia in un modello del comportamento di protezione della salute dovrebbe migliorare le predizioni. La revisione ha introdotto anche il concetto di ostacolo (denominato “costo della risposta”), mutuato dal modello delle credenze sulla salute, e ne ha aggiunto uno ad esso connesso, cioè gli incentivi associati con le risposte “disadattive” (ad esempio il piacere che deriva dal continuare a fumare marijuana).
Il modello rivisto asserisce che la motivazione a proteggersi da un pericolo è una funzione lineare positiva di quattro credenze:
- la minaccia è grave;
- ci si considera vulnerabili;
- si possiede la capacità di eseguire la risposta di coping;
- la risposta di coping è efficace nel ridurre la minaccia.
La motivazione a eseguire la risposta adattiva è influenzata negativamente dai costi di tale risposta e dai vantaggi potenziali associati con le risposte disadattive. Più specificatamente, Rogers suddivide queste sei variabili in due classi: la valutazione della minaccia e la valutazione del fronteggiamento.
Ciascuna di queste classi è ulteriormente suddivisa in due componenti: per esempio, la risposta disadattiva è suddivisa nella componente “vantaggi estrinseci” e in quella “vantaggi intrinseci” mentre, nel caso della valutazione di minaccia, le sue due componenti sono rappresentate da “vulnerabilità” e “gravità”. Rogers ritiene che le variabili all’interno di ognuna di queste due classi esercitino un effetto additivo sulla motivazione e sull’intenzione a proteggersi. Comunque, vengono postulati effetti di interazione tra le classi della valutazione della minaccia e della valutazione del coping.
Implicazioni per gli interventi
Queste considerazioni hanno implicazioni importanti per la pianificazione degli interventi. Per esempio, se l’autoefficacia circa un determinato ambito comportamentale si è dimostrata relativamente elevata in una popolazione campione (cioè la maggior parte delle persone si sente capace di impegnarsi nell’azione consigliata di protezione per la salute), il fatto di fornire informazioni che accrescono la vulnerabilità o la gravità dovrebbe aumentare la motivazione a proteggersi e, quindi, l’intenzione di agire.
In queste condizioni, le persone dovrebbero avere probabilità tanto più elevate di intraprendere l’azione quanto più è elevato il rischio che percepiscono per sé stesse. Tuttavia, quando l’autoefficacia è bassa, cioè quando la maggior parte degli individui sente di non essere capace di impegnarsi in una determinata azione (o non intraprenderla nel caso ad esempio di non assumere droghe e smettere di fumare marijuana), all’aumento della vulnerabilità non dovrebbe conseguire un analogo aumento delle intenzioni. In questi casi, piuttosto che enfatizzare il rischio potrebbe essere più utile fornire alle persone informazioni in grado di aumentare la loro autoefficacia (Stroebe e Stroebe, 1999).
LA TEORIA DELL’AZIONE RAGIONATA
Uno dei modelli più generali del comportamento tratti dalla psicologia sociale, cioè la teoria dell’azione ragionata (Fishbein e Ajzen, 1975), è stato studiato ampiamente e si è dimostrato efficace nel predire un’ampia gamma di comportamenti, tra cui quello del consumo di sostanze psicoattive.
Il modello
La teoria dell’azione ragionata predice l’intenzione comportamentale e parte dal presupposto che l’attuazione di un determinato comportamento sia una funzione dell’intenzione di eseguirlo. Un’intenzione comportamentale è determinata dal proprio atteggiamento verso l’esecuzione del comportamento e da norme soggettive. Perciò l’intenzione di smettere di fumare cannabis, ad esempio, dipenderà dall’atteggiamento soggettivo nei confronti dello smettere di fumare marijuana e questo atteggiamento, a sua volta, sarà il risultato delle credenze circa le conseguenze dello smettere di fumarla. L’atteggiamento di una persona vero lo smettere di fumare cannabis sarà una funzione della stima soggettiva della probabilità che la cessazione sia associata a certe conseguenze, come avere una salute e una forma migliori, avere ridotto il rischio di soffrire di problemi cardiaci o di averne con la giustizia (nel caso si venga scoperti in possesso di marijuana), o ancora l’avere maggior disponibilità di denaro (perché risparmiato non comprando più la sostanza).
E’ importante notare che la percezione delle conseguenze del fumo dovrebbe influenzare l’intenzione di smettere solo qualora le persone ritenessero che le conseguenze negative del fatto di continuare a fumare le interessassero personalmente (Stroebe e Stroebe, 1999). Se un fumatore è convinto che, nonostante la cannabis sia in generale dannosa per la salute, la propria probabilità di soffrire di conseguenze negative è bassa (ad esempio grazie ad una particolare buona costituzione familiare), le convinzioni generali non influenzeranno l’atteggiamento di questa persona nei confronti della messa in pratica di quel comportamento.
Le norme soggettive consistono invece nelle credenze circa le aspettative delle persone a noi care riguardo al nostro comportamento. Per esempio, un adolescente potrebbe credere che i propri genitori non vogliano che fumi marijuana. Comunque, il fatto che queste credenze normative influenzino le intenzioni oppure no, dipenderà anche dalla dalla volontà personale di accondiscendere a queste norme. Quindi, le norme soggettive sono credenze normative associate alla motivazione ad accondiscendervi.
Il modello qualifica queste credenze normative moltiplicando la stima soggettiva della probabilità che un importante “altro” (il referente, nel nostro esempio i genitori) ritenga che la persona debba eseguire il comportamento, per la motivazione della persona ad accondiscendere all’aspettativa del referente. Questi prodotti sono analoghi ai prodotti aspettativa x valore calcolati in riferimento alle credenze comportamentali sommate tenendo conto dei molteplici referenti importanti. Poiché sia gli atteggiamenti sia le credenze normative riflettono le aspettative circa le conseguenze di un dato comportamento, associate alla valenza di queste conseguenze, anche il modello dell’azione ragionata è riconducibile alla classe dei modelli aspettativa-valore.
Implicazioni per gli interventi
Stando a quanto afferma il modello, l’efficacia delle strategie finalizzate alla modificazione di un comportamento rilevante per la salute dipende dal successo della modificazione degli atteggiamento verso il comportamento specifico e delle norme soggettive relative. Un modo per codificare gli atteggiamenti è quello di persuadere le persone del fatto che il loro comportamento attuale li espone al rischio di conseguenze negative per la salute (e anche altri tipi di conseguenze, nel caso di consumo di droga, come ad esempio quelle legate al piano psicologico e sociale), che potrebbero essere evitate attraverso un cambiamento del comportamento.
Gli atteggiamenti possono essere anche modificati agendo sull’ambienet, in modo tale da far aumentare i costi del comportamento dannoso per la salute (come, nel nostro esempio, maggiori sanzioni penali per chi è trovato in possesso di marijuana). Il fatto di far aumentare i costi di tale comportamento dannoso, comunque, influenzerà il comportamento solo se le persone sono chiaramente consapevoli di questi cambiamenti e se i costi sono sufficientemente elevati da annullare i vantaggi della mancata adozione dei provvedimenti. Nel nostro esempio, l’introduzione di maggiori sanzioni a livello penale per chi colto in possesso di marijuana, influenzerà il comportamento relativo solo se la persona viene a sapere che la legge è stata modificata in quel senso, se pensa che le probabilità di essere colto in fallo siano elevate e se ritiene che la sanzione sia abbastanza pesante da risultare più svantaggiosa del fatto di non poter più fumare.
Valutazione empirica del modello
Il modello dell’azione ragionata si è dimostrato utile nel predire un’ampia gamma di comportamenti: è stato applicato, ad esempio, alla donazione di sangue, alla pianificazione familiare e, molto importante per il nostro studio, all’uso di droghe leggere.
In un’ampia meta.analisi della ricerca sul modello, basato su 113 articoli, Van den Putte (1991) ha riportato le seguenti stime delle varie relazioni del modello basate su 150 gruppi di rispondenti: la correlazione multipla media per la previsione dell’intenzione a partire dagli atteggiamenti e dalle norme soggettive era pari a 0.68 e la correlazione media per la previsione del comportamento in base alle intenzioni risultava di 0.62. Quindi, gli atteggiamenti e le norme soggettive hanno spiegato circa il 46% della varianza delle intenzioni e il 38% della varianza del comportamento. Van den Putte ha trovato inoltre che la relazione tra l’intenzione e l’atteggiamento era più forte della relazione tra l’intenzione e le norme soggettive
Critiche rivolte al modello
Nonostante il successo nella previsione dell’intenzione e del comportamento, il modello è stato criticato da alcuni ricercatori, secondo i quali le intenzioni e le azioni sono influenzate da una quantità di fattori che non sono stati inclusi nel modello dell’azione ragionata. La più interessante di queste determinanti aggiuntive nel contesto dell’analisi del comportamento rilevante per la salute è il comportamento passato.
In una valutazione della teoria dell’azione ragionata che è servita al self-report sul consumo di alcolici, marijuana e droghe pesanti come misure dipendenti, Bentler e Speckart (1979) hanno riscontrato che i resoconti del comportamento passato miglioravano la predizione del comportamento futuro anche quando l’intenzione veniva controllata statisticamente.
Questo risultato è stato ritrovato ulteriormente in numerosi altri studi relativi all’esercizio fisico (Bentler e Speckart, 1981), all’uso del preservativo (De Wit et al. 1990) e delle cinture di sicurezza (Sutton e Hallet, 1989). Anche in questi ultimi studi, le analisi di regressione multipla hanno dimostrato che la predizione del comportamento risultava migliorata dall’aggiunta del comportamento passato, superando in qualità la predizione ottenuta sulla base dell’intenzione.
Il problema del controllo volontario
Il fatto che le misure del comportamento passato migliorino la predizione del comportamento futuro anche quando le intenzioni vengono controllate statisticamente potrebbe essere la dimostrazione dell’esistenza di una quantità di fattori che influenzano il comportamento, ma dei quali non si tiene conto nella teoria dell’azione ragionata.
Quando interpretiamo questi risultati dobbiamo ricordare che la teoria fornisce una spiegazione teorica dei fattori che determinano le intenzioni: queste, riflettono solo la motivazione ad agire. L’esecuzione di un’azione non dipende soltanto dalla motivazione, ma anche dal fatto che il comportamento sia sotto il controllo volontario dell’individuo o meno.
Un comportamento si trova sotto il controllo volontario quando l’individuo può decidere, secondo la sua volontà, se eseguirlo oppure no. Quindi, il comportamento passato potrebbe riflettere l’influenza di fattori che non sono sotto il controllo volontario della persona. Dato il genere di comportamento cui si riferisce negli studi che hanno riscontrato un’influenza indipendente del comportamento passato su quello futuro, sembrerebbe plausibile che i due principali fattori riflessi nel comportamento passato siano l’abitudine e la mancanza di controllo.
Alcune azioni possono essere divenute talmente routinarie e abituali che le persone le eseguono senza neppure pensarci. Ad esempio, i fumatori di cannabis, potrebbero accendere lo “spinello” senza neanche avere l’intenzione di farlo o senza neppure accorgersi di farlo. Poiché anche il comportamento passato potrebbe essere stato influenzato dall’abitudine, il riferimento a esso, allo scopo di predire il comportamento futuro, migliorerebbe le predizioni anche quando le intenzioni vengono controllate statisticamente.
Anche problemi motivazionali potrebbero stare alla base del risultato che il comportamento passato migliora la predizione delle azioni future. Nel campo della salute esistono numerosi esempi di comportamenti che sono solo parzialmente sotto il controllo volontario dell’individuo: pensiamo alle persone che cercano di smettere di fumare o di assumere marijuana. Queste, raramente riescono a farlo al primo tentativo.
Il fatto che frequentemente le persone incontrino difficoltà a controllare il proprio comportamento potrebbe, almeno in parte, essere la ragione per cui è stato riscontrato che il comportamento passato migliora la predizione di quello futuro, specialmente quando si effettuano studi sull’uso di droghe, sul fumo e sul consumo di alcolici. Esistono molti fattori che potrebbero indebolire il controllo individuale sulle proprie azioni. Come è stato rilevato da Liska, 1984) in un’autorevole critica alla teoria dell’azione ragionata e al modello di Fishbein e Ajzen, la grande maggioranza di studi che portavano argomenti a favore della teoria dell’azione ragionata si occupa di comportamenti relativamente semplici, che non richiedevano granchè dal punto di vista delle risorse e delle abilità.
Fishbein e Ajzen (1975) erano consapevoli di8 questo problema ma sostenevano che le persone, nel formare le proprie intenzioni, tengono in considerazione la necessità di risorse o della cooperazione altrui. Quindi i cambiamenti nelle risorse hanno come conseguenza dei cambiamenti nell’intenzione (ad esempio, un adolescente che intende smettere di fumare cannabis, sapendo poi che il suo migliore amico ha appena acquistato della buonissima marijuana appena arrivata dall’Olanda, probabilmente cambierà la propria intenzione, magari pensando di rimandare la decisione). Tali cambiamenti inattesi nelle condizioni esterne costituiscono una delle ragioni per cui le intenzioni predicono il comportamento tanto meglio quanto più breve è l’intervallo temporale tra la valutazione delle intenzioni e quella del comportamento.
«Anche se questa posizione è ragionevole, la restrizione del modello dell’azione ragionata solo a quei comportamenti sottoposti ad un controllo volontario completo ne limita seriamente l’applicabilità. Un esame attento rivela che i comportamenti sottoposti esclusivamente al controllo volontario di un individuo sono veramente pochi. Anche l’esecuzione di un’azione semplice come lavarsi i denti è possibile solo se si possiedono spazzolino e dentifricio» (Stroebe e Stroebe, 1999).
LA TEORIA DEL COMPORTAMENTO PIANIFICATO
Il Modello
Questo genere di ragionamento ha portato Ajzen a modificare la teoria dell’azione ragionata e a formulare la teoria del comportamento pianificato (Ajzen, 1988). Il modello del comportamento pianificato aggiunge, come ulteriore elemento di predizione, la percezione di avere il controllo sul comportamento che deve essere predetto. La percezione del controllo di un comportamento può essere valutata direttamente chiedendo ai soggetti in che misura riescono a controllare l’esecuzione di un determinato comportamento. Il concetto è pertanto molto simile al costruuto di autoefficacia, il quale riflette il giudizio delle persone circa le proprie capacità di eseguire determinati corsi di azione richiesti per raggiungere i livelli di prestazione desiderati (Bandura, 1986).
Il modello del comportamento pianificato ipotizza che la percezione del controllo possa influenzare il comportamento indirettamente, attraverso le intenzioni. In certe condizioni esso può avere anche un effetto diretto sul comportamento non mediato dalle intenzioni.
L’ipotesi che la percezione del controllo influenzi le intenzioni è coerente con le teorie della motivazione di tipo aspettativa-valore. Le persone che non hanno la capacità p l’opportunità di raggiungere un determinato obiettivo adatteranno le proprie intenzioni di conseguenza, poiché le intenzioni sono in parte determinate dalla percezione della probabilità di essere in grado di raggiungere un obiettivo.
Per esempio, gli adolescenti che, in base all’esperienza passata (o a quella degli amici), sanno di non poter riuscire a smettere del tutto di fumare cannabis, probabilmente riformuleranno le loro intenzioni e i loro progetti circa il consumo di marijuana sulla base di aspettative più basse ma più realistiche: ad esempio decideranno (quindi formuleranno una nuova intenzione) di limitare il consumo della sostanza al week end, o solo dopo la scuola o dopo aver studiato. Il cambiamento delle intenzioni anche in questo esempio è dato dalla percezione della probabilità di riuscire a raggiungere un obiettivo che in questo caso è dapprima rappresentato dallo smettere di consumare cannabis, ma che in seguito, in base alla percezione di avere ben poche probabilità di riuscirci davvero, diventerà il riuscire a diminuire il consumo, limitandolo a particolari situazioni e contesti.
Una relazione diretta tra percezione del controllo e comportamento, non mediata dalle intenzioni, sembrerebbe meno plausibile, ma può essere illustrata dal seguente esempio. Un ragazzo a cui piace molto fumare marijuana ogni sera con gli amici può sapere che per alcune sere non potrà uscire a causa di una punizione datagli dai genitori, che non potrà andare dagli amici e che quindi non potrà fumare cannabis insieme a loro, perché gli è impedito dalla punizione.
Così, anche se avesse tutte le intenzioni di fumare cannabis ogni sera, dovrebbe anche ammettere di non essere pienamente padrone di farlo. La valutazione realistica delle proprie possibilità di controllare se potrà fumare marijuana tutte le sere oppure non costituirà, quindi, un elemento aggiuntivo di predizione del fumare cannabis, non mediato dalle intenzioni.
E’ importante notare che il legame diretto tra percezione del controllo e comportamento possiede uno status teorico in un certo qual modo differente da quello della relazione mediata dalle intenzioni. Mentre la percezione del controllo ha un’influenza causale sulle intenzioni, non è la mancanza di controllo percepita, ma quella effettiva a influenzare il comportamento in modo causale per via diretta (Stroebe e Stroebe, 1999). Perciò, nel nostro esempio, il ragazzo è ostacolato, relativamente al fumare cannabis, non dall’aspettativa che i genitori lo potrebbero punire impedendogli di uscire, ma dall’effettiva punizione dei genitori che gli vietano0 di uscire.
Questo ultimo0 esempio può essere anche utilizzato per illustrare come la percezione del controllo dovrebbe migliorare la predizione del comportamento (che è esclusivamente basato sulle intenzioni) se riflette realisticamente i livelli effettivi di controllo. Ammettiamo che si verifichi improvvisamente un problema sul posto di lavoro dei genitori del ragazzo e che quindi questi, dovendosi necessariamente assentare dopo l’ora di cena, non potranno controllare che il figlio rimanga a casa e non esca con gli amici.
Il ragazzo si troverebbe quindi ad avere molto più controllo sulla sua possibilità di uscire e di andare a fumare con gli amici di quanto non avesse previsto prima. E’ plausibile che, in queste condizioni, la percezione del controllo, per come era stata valutata precedentemente, non migliori le predizioni del comportamento.
Basandosi su queste ipotesi, Ajzen e Madden (1986) hanno riscontrato, in uno studio sui voti scolastici basati su ripetute prove d’esame, che il legame diretto tra percezione del controllo e comportamento emergeva solo quando il controllo veniva valutato dopo che gli studenti avevano svolto una delle prove d’esame. Probabilmente, il loro giudizio sulla loro possibilità di controllo dei voti era diventato più realistico in seguito alla prima prova.
Le determinanti della percezione del controllo
I fattori che influenzano la percezione del controllo possono essere interni o esterni all’individuo (Ajzen, 1988). Alcuni esempi di quelli interni possono essere: la conoscenza, le abilità, le competenze e anche i forti desideri e le compulsioni. Il nostro controllo sul comportamento viene spesso minato da quei fattori interni ai quali ci si riferisce collettivamente con il termine “forza di volontà”.
Quindi, nonostante che una persona sia ben decisa a smettere di fumare cannabis può sapere, in base all’esperienza passata, che probabilmente non tradurrà le intenzioni in azioni vere e proprie. Esempi di fattori esterni sono: il verificarsi dell’opportunità e la dipendenza da altri (Ajzen, 1988). Per esempio, noi sappiamo che domani riusciremo a fumare cannabis solo se riusciremo a trovarla e se i nostri genitori non ci impediranno di uscire con gli amici.
Valutazione empirica del modello
Il modello del comportamento pianificato è stato applicato a numerosi comportamenti, dalle prestazioni scolastiche al taccheggio (vedi rassegna di Ajzen, 1991). All’inizio dello studio è stato chiesto a delle studentesse di college di esprimere i loro atteggiamenti, le norme soggettive, la percezione del controllo e le loro intenzioni relativamente al dimagrire nell’arco di sei settimane. Inoltre, sono state valutate la misura in cui le partecipanti avevano formulato piani dettagliati per la riduzione del peso e vari tipi di atteggiamenti generali e fattori di personalità.
Coerentemente con la teoria, l’intenzione di perdere peso è risultata accuratamente predetta sulla base degli atteggiamenti, delle norme soggettive e della percezione del controllo. Quest’ultima, insieme alle intenzioni, comunque, non riuscivano a predire completamente la quantità di peso effettivamente perso nell’arco delle sei settimane (cioè il risultato) mentre la percezione del controllo risultava invece essere il predittore m migliore. Come previsto, è emersa anche un’interazione tra la percezione del controllo e l’0intenzione di perdere peso; una forte intenzione di dimagrire aumentava la perdita di peso solo per quelle partecipanti convinte che sarebbero riuscite a controllare l’apporto calorico nel caso in cui avessero voluto.
I soggetti che avevano predisposto un piano dettagliato all’inizio del periodo tendevano anche a dimagrire di più.
Tendenzialmente, in tutti gli studi effettuati dopo questo, i risultati confermano la predizione principale del modello del comportamento pianificato. Così, nella maggior parte degli studi, l’inclusione della percezione del controllo ha migliorato la predizione sia delle intenzioni che del comportamento.
IL MODELLO DELL’ELABORAZIONE SPONTANEA
I modelli di comportamento discussi fino ad ora raffigurano le persone come esseri che prendono decisioni in modo completamente razionale e che tendono a riflettere sulle azioni future per formare un’0intenzione comportamentale. Sebbene nessuno di questi modelli presupponga che gli individui debbano soppesare tutte le conseguenze delle alternative comportamentali in ogni circostanza, ma comunque implicano quasi tutti che ogni comportamento è mediato dalle intenzioni o che presupponga, come minimo, una certa riflessione.
Fazio (1990), ha invece sostenuto che gli aspetti essenziali di tale processo decisionale entrino in gioco solo quando le persone sono capaci e intenzionate a pensare e occuparsi delle azioni future. E’ più probabile che le persone siano cognitivamente impegnate nelle azioni se le conseguenze comportamentali sono per loro importanti e se hanno il tempo e la tranquillità necessarie per riflettere. In caso contrario, gli atteggiamenti potrebbero influenzare il comportamento attraverso una modalità di elaborazione spontanea.
Il modello
Fazio e coll. Hanno ipotizzato che i comportamenti spontanei siano influenzati dagli atteggiamenti relativi agli oggetti o agli obiettivi piuttosto che dagli atteggiamenti relativi al comportamento (Fazio, 1986; 1990). Secondo il modello dell’elaborazione spontanea, la sequenza atteggiamento-comportamento prende avvio quando si ha accesso agli atteggiamenti in memoria a partire dalla percezione di stimoli connessi agli oggetti dell’atteggiamento. S presume che questo processo di attivazione sia automatico, nel senso che esse avviene relativamente senza sforzo e non mediato da un’attenzione attiva o da una riflessione consapevole.
La probabilità di un’attivazione automatica dell’atteggiamento a partire dalla sola osservazione dell’oggetto dell’atteggiamento è una funzione della disponibilità dell’atteggiamento stesso.
La disponibilità, o facilità di richiamo dell’atteggiamento, dipenderà dalla forza dell’associazione esistente in memoria tra l’oggetto dell’atteggiamento e la valutazione personale di esse. Solo nel caso in cui la valutazione sia fortemente associata con l’oggetto, la valutazione ha un’elevata probabilità di attivarsi spontaneamente in seguito all’osservazione dell’oggetto dell’atteggiamento.In caso contrario, la sequenza automatica atteggiamento-comportamento non si verifica.
Si suppone che, quando si è automaticamente avuto accesso ad un forte atteggiamento, esso eserciti una forte influenza selettiva sulla percezione dell’oggetto dell’atteggiamento da parte della persona. Tale selettività sta a indicare che le caratteristiche dell’oggetto dell’atteggiamento vengono percepite coerentemente con il proprio atteggiamento, una coerenza che potrebbe essere raggiunta a costo di una considerevole distorsione della realtà.
Quando vengono attivati degli atteggiamenti positivi, vengono attribuite all’oggetto dell’atteggiamento qualità positive, mentre l’attivazione di un atteggiamento negativo suscita l’attribuzione di qualità negative. Quindi, se il fatto di vedere qualcuno che fuma cannabis (e ride) potrebbe attivare pensieri positivi di divertimento e rilassamento in fumatori di marijuana, la stesso spettacolo potrebbe attivare un senso di disgusto e pensieri negativi tra le persone che sono contrarie all’uso di droghe.
Tali percezioni dell’oggetto dell’atteggiamento «determinano, almeno in parte, la definizione personale dell’evento» (Fazio, 1986). I fattori normativi (per esempio, le aspettative da parte degli altri, le norme circa il comportamento corretto) possono influenzare la defin izione dell’evento e, così, il comportamento stesso.
Valutazione empirica del modello
La ricerca di Fazio e coll. Si è occupata in primo luogo di due argomenti: 1) l’ipotesi che la disponibilità degli atteggiamenti rilevanti influenzi l’associazione tra atteggiamento e comportamento; 2) l’ipotesi che gli atteggiamenti forti esercitino un’influenza selettiva sulla percezione. Fazio e coll. Hanno valutato operativamente la disponibilità degli atteggiamenti misurandola attraverso la velocità con cui i soggetti rispondono alle domande sul loro atteggiamento.
Questo tipo di trasposizione del concetto in aspetti della realtà misurabili è basato sul presupposto che gli individui, i cui atteggiamenti sono più prontamente disponibili, mostreranno una latenza minore nella risposta valutativa a stimoli pertinenti all’atteggiamento rispetto alle persone i cui atteggiamenti sono menop disponibili. Tale presupposto deriva da un modello associativo dell’apprendimento che concepisce gli atteggiamenti come associazione tra oggetti dell’atteggiamento e valutazioni (Stroebe e Stroebe, 1999).
Una delle principali determinanti della disponibilità degli atteggiamenti, secondo il punto di vista di Fazio, è il genere di esperienza su cui si basa l’atteggiamento. Secondo il ricercatore, gli atteggiamenti formatisi sulla base dell’esperienza diretta piuttosto che indirettamente, dovrebbero essere più disponibili. E’ stato dimostrato attraverso diversi studi, sia quast’ultima ipotesi, sia che la correlazione tra atteggiamento e comportamento è maggiore quando gli atteggiamenti si sono sviluppati a partire dall’esperienza diretta piuttosto che indirettamente.
L’associazione tra una valutazione e un oggetto dovrebbe essere accresciuta anche dalla frequenza con cui l’atteggiamento è stato recentemente attivato. Coerentemente con questa ipotesi, Fazio e coll. (1986) hanno dimostrato che la frequenza con cui i rispondenti dovevano esprimere i loro atteggiamenti risultava correlata positivamente alla velocità di risposta e all’aumento della corrispondenza tra atteggiamento e comportamento.
Implicazioni per gli interventi
La teoria dell’elaborazione spontanea possiede alcune implicazioni sul piano degli interventi. Per esempio, il modello migliora la nostra comprensione delle situazioni problematiche in cui le intenzioni di abbandonare modelli comportamentali dannosi per la salute hanno una probabilità elevata di non poter essere tradotte in realtà. Molti comportamenti dannosi per la salute vengono messi in atto automaticamente. Salvo quando gli individui stanno consapevolmente tentando di modificarli.
Gli atteggiamenti dovrebbero quindi esercitare una forte influenza su questi modelli comportamentali. Pertanto, una persona molto interessata alla cannabis (per esempio un ragazzo per il quale gli stimoli legati alla sostanza attivano abitualmente un atteggiamento positivo, con evidenti implicazioni comportamentali) può essere incline ad agire sulla base di tale atteggiamento, a meno che le sue intenzioni di smettere di fumare cannabis non siano contrastanti con questo impulso originario. Tale contrasto cognitivo, comunque, richiede spesso un’elaborazione molto impegnativa. Pertanto, nelle condizioni in cui la capacità di elaborazione o la motivazione di una persona siano indebolite dallo stress o dal consumo di alcolici o altre sostanze, l’intenzione originaria può prevalere e provocare l’abbandono dell’intenzione di smettere di fumare cannabis. I programmi terapeutici potrebbero, pertanto, essere migliorati insegnando alle persone come gestire lo stress e avvertendole dell’opportunità di evitare gli alcolici durante la disintossicazione da altre sostanze.
Vengono definite psicoattive tutte quelle sostanze, naturali o di sintesi, capaci di incidere sul sistema nervoso, alterandone l’equilibrio biochimico, e di provocare quindi modificazioni nell’umore, nella percezione, nell’attività mentale e nel comportamento di una persona. Tra esse troviamo il tabacco, l’alcol e la marijuana. In particolare queste tre sostanze vengono consumate per la prima volta da molte persone negli anni dell’adolescenza e, sempre lungo questi anni, possiamo assistere ad un cambiamento di atteggiamenti nei loro confronti e ad una modificazione dello stile e dei contesti di assunzione.
Il consumo di droghe illecite durante l’adolescenza, è divenuto, negli ultimi decenni, talmente diffuso da essere incluso tra le problematiche, tipiche di questo periodo dello sviluppo. In particolare, il fumo di spinelli si è rivelato un comportamento tipicamente adolescenziale non solo perché generalmente viene attuato per la prima volta in questo periodo della vita, ma anche perché esso viene generalmente abbandonato con l’ingresso nell’età adulta (Cattelino, Bonino, Ciairano, 2003).
Gli effetti della marijuana, come di tutte le altre sostanze psicoattive, non dipendono soltanto dalla sua struttura chimica o dai suoi meccanismi di azione a livello cerebrale; tali effetti sono infatti strettamente associati anche a parametri oggettivi e soggettivi. I primi riguardano la via di somministrazione, la qualità e la quantità di sostanza utilizzata, l’occasionalità o la sistematicità del consumo, le caratteristiche fisiche del consumatore (genere, età peso ecc.); i secondi sono invece associati a caratteristiche personali dell’assuntore ed alle circostanze in cui avviene il consumo (Ravenna, 1997).
In particolare, le conoscenze di cui un soggetto dispone, le aspettative che ha ed il significato che egli attribuisce al consumo di una certa sostanza, influenzano e modificano le sue reazioni, il modo di percepire se stesso ed il mondo esterno: euforia, benessere, tranquillità interiore, disinibizione sono solo alcune delle possibili sensazioni esperibili. Ne deriva che l’esperienza soggettiva conseguente all’uso di sostanze diverse può essere sostanzialmente simile e che le stesse sostanze possono dar luogo, in soggetti diversi o in momenti diversi, a vissuti fortemente differenti. Le circostanze del consumo, così come vengono percepite dal soggetto, assumono anch’esse una grande importanza. Infatti, le caratteristiche fisiche e sociali dell’ambiente in cui avviene l’assunzione influiscono a loro volta sulla percezione soggettiva dell’esperienza e sulla funzione che ad essa viene attribuita.
Un altro aspetto che differenzia le sostanze psicoattive è la considerazione sociale di cui godono ed in particolare la loro distinzione in legali e illegali. Lo status di illegalità della marijuana riflette la valutazione negativa e l’elevato grado di pericolosità ad essa associato. Anche se all’interno delle droghe definite illecite, al fumo di spinelli viene riconosciuta una minore nocività, tanto da essere definito come una droga leggera e contrapposto ad altre droghe identificate come pesanti, quali l’eroina, la cocaina e l’LSD, da sempre i governi della maggior parte dei Paesi, europei e non, commissionano ricerche volte a sostenere l’ipotesi che vede nella canapa una droga pericolosa sotto tutti i punti di vista e, quindi, le politiche proibizioniste.
A questo proposito, Zimmer e Morgan (1997) hanno recentemente pubblicato un volume che, attraverso una ricca rassegna della letteratura circa le affermazioni e le ipotesi sulla pericolosità della marijuana, cerca di mettere in luce «le scorciatoie dialettiche usate da istituzioni come il Nida (National Institute on Drug Abuse) finanziato dal governo degli Usa, che invece di assolvere al proprio ruolo scientifico, hanno assunto un ruolo propagandistico nella “guerra alla droga”» (Corleone, 2005). Gli autori di questo libro, rifiutando la logica della forzatura dei dati allo scopo di fomentare l’allarmismo, parlano delle varie “leggende” sulla canapa, del motivo per cui sono nate e rimaste immutate nel corso dei decenni e del legame esistente tra questi “miti” e il proibizionismo.
Zimmer e Morgan partono «dall’assunto scientificamente inoppugnabile che la valutazione della “tossicità” delle cosiddette “droghe” non può essere assoluta: nel misurare l’impatto di una sostanza sui comportamenti e sulla salute di chi le usa, l’importante non è tanto appurare che tale sostanza sia genericamente “tossica”, quanto che possa esserlo nelle normali condizioni di consumo da parte degli esseri umani». Parleremo di questo libro in maniera più approfondita nei prossimi paragrafi soprattutto per riuscire ad avere un quadro generale sulle ricerche ed i Rapporti governativi e non, circa gli effetti della marijuana a breve e a lungo termine e per far luce sul dibattito tuttora in corso riguardante la sua “tossicità”, la sua presunta pericolosità ed i rischi, reali o meno, legati all’uso della sostanza.
Ma il coinvolgimento nell’uso di droghe, e qui ci occuperemo di quello relativo all’uso di spinelli, non è definibile semplicisticamente in termini di assunzione o non assunzione. Vi sono infatti diverse fasi che definiscono il processo di assunzione di droga e che regolano il rapporto tra consumatore e sostanza: la preparazione o avvicinamento, l’iniziazione e la stabilizzazione del consumo (Ravenna, 1997).
Infatti, perché un individuo decida di assumere una droga, occorre che abbia elaborato un orientamento favorevole al consumo e che consideri l’eventualità di provare un’esperienza che risponda a bisogni ed aspettative per lui rilevanti in rapporto a diversi ambiti, tra cui l’esperienza di sé, le relazioni con gli altri, lo stile di vita, tutti in rapporto alla fase di vita in cui si trova. Sono determinanti i significati attribuiti ad una droga, l’immagine della sostanza e dei suoi possibili effetti; questi rappresentano il frutto di un’elaborazione che le persone compiono nell’ambito delle relazioni con il loro ambiente di vita. Inoltre, un ruolo cruciale sia nella fase di avvicinamento che in quelle successive è esercitato dai fattori cognitivi (ad esempio il fatto di considerarsi meno a rischio o più immune da eventuali conseguenze negative, il sopravvalutare le proprie capacità di controllo o il sovrastimare l’entità della diffusione di fenomeni di consumo nel proprio ambiente sociale) e da quelli motivazionali.
Se si presenta l’occasione e il soggetto ha elaborato un qualche tipo di disponibilità decidendo quindi di “provare”, il soggetto in questione entra nella fase di contatto o «iniziazione». L’esperienza concretamente vissuta gli consente di valutare la quantità e l’entità degli effetti sperimentati, la loro congruenza con precedenti aspettative, il rapporto tra vantaggi e svantaggi implicati. Tutto questo, insieme alla possibilità di confrontare l’esperienza di sé dopo aver assunto la droga con quella che ne ha in condizioni di astensione, consente all’individuo di decidere se non assumere più la sostanza o, invece, di continuare. In questo ultimo caso, la persona si trova a dover anche a dover scegliere tra la possibilità di assumere la droga saltuariamente o regolarmente, attenendosi ad un certo stile di consumo piuttosto che ad un altro. In questa fase (di stabilizzazione) il soggetto può diventare un vero e proprio consumatore, apprendendo da persone più esperte la corretta modalità di assunzione della sostanza affinché questa produca gli effetti desiderati, diventando capace di discriminare tali effetti quando si verificano e mettendoli in rapporto all’assunzione della sostanza e, soprattutto, traendo piacere dalle sensazioni che prova, considerando che esse non sono necessariamente piacevoli (Ravenna, 1997).
La maggior parte delle ricerche che hanno studiato l’iniziazione si sono concentrate su soggetti adolescenti e tra i molteplici fattori in grado di favorire il primo contatto con la droga, «quelli relativi alle influenze i interpersonali sono indicati in modo univoco dalla letteratura come i più rilevanti» (Ravenna, 1993).
Risultano essere esposti ad un maggior rischio gli adolescenti provenienti da una famiglia in cui uno o entrambi i genitori fumano, beve alcolici, assumono altre sostanze o manifestano atteggiamenti particolarmente tolleranti verso l’uso di droghe. Sono inoltre influenti il clima familiare, lo stile educativo e i modelli proposti dai genitori, tutti elementi che hanno però un’influenza indiretta sullo stile di vita e quindi sul consumo di droga, andando ad incidere in modo considerevole sullo sviluppo psicosociale dell’adolescente.
Quanto più le relazioni familiari sono povere, inadeguate, neutre, indifferenti o conflittuali, quanto più i genitori non sono in grado di fornire all’adolescente né l’amore, l’attenzione, la valorizzazione di cui ha bisogno, né una base sicura per la sua crescita, tanto più «si crea una situazione di vuoto emozionale che egli può cercare di colmare orientandosi in modo preponderante ed esclusivo verso i coetanei» (Empey, 1975). Quanto più l’adolescente è orientato verso coetanei favorevoli alla droga, o che sono già consumatori, tanto più aumenta la probabilità che egli possa essere attratto dall’idea di provare una sostanza.
Becker (1953), nella sua famosa ricerca sui consumatori di marijuana, sostiene che l’iniziazione è il frutto di una successione complessa di esperienze psicologiche e sociali che consentono al soggetto di attribuire certi significati al consumo della sostanza, di valutarne rischi e conseguenze, considerandole come desiderabile. Sia che il soggetto abbia già strutturato un atteggiamento positivo che uno negativo o neutro, è comunque nell’interazione con gli altri consumatori che può rafforzare o modificare l’immagine della droga. Il gruppo per l’adolescente rappresenta, da questo punto di vista, il contesto privilegiato in cui il cui il soggetto riconsidera se stesso nel rapporto possibile o irreale con la sostanza.
L’iniziazione non è determinata, nella maggioranza dei casi, da disturbi psicopatologici strutturati, ma si associa piuttosto ad una serie di tratti nell’area della non-convenzionalità (tolleranza verso la trasgressione, scarso interesse o coinvolgimento per le mete di tipo educativo, comportamenti ribelli, impulsivi o volti a ricercare sensazioni ed esperienze diversificate e gratificanti) o stati emozionali negativi e temporanei (Kandel, 1978; Jessor e Jessor; 1980).
Gli studi volti a scoprire quali siano i fattori determinanti nel consolidarsi del consumo sono invece scarsi e frammentari o comunque si occupano quasi esclusivamente di soggetti adulti o già dipendenti più che di adolescenti. Rispetto all’iniziazione dove risulta determinante soprattutto l’influenza di altri significativi (la famiglia, il gruppo dei pari ecc.), ciò che conta in seguito è soprattutto il tipo di rapporto che si instaura tra sostanza e consumatore: dopo le prime assunzioni l’adolescente può valutare concretamente la qualità e la funzione degli effetti sperimentati e quindi elaborare credenze che si fondano sull’esperienza personale.
Si continua a far uso della sostanza quanto più si percepiscono gli effetti rinforzanti della droga, sia positivi (piacere, rilassamento), sia negativi (eliminazione del dolore o del disagio); quanto più si ottengono gli effetti cognitivi, affettivi e farmacologici che ci si aspettano; quanto più ci si convince che attraverso quella droga si può esercitare un maggior controllo sugli eventi della vita quotidiana. «Se si valutano i benefici associati a questo tipo di comportamento più elevati dei costi, aumenta allora la probabilità che si possa ripetere l’assunzione» (Smith, 1980).
Becker (1953) ha riscontrato che il consolidarsi del consumo dipende esclusivamente dai processi di apprendimento e di sperimentazione attraverso i quali l’assuntore modifica e ridefinisce l’immagine che precedentemente aveva della sostanza sviluppando nuove motivazioni, spesso anche molto diverse da quelle che avevano favorito l’iniziazione.
I fattori di personalità che favorisco no il consolidarsi del consumo sono i tratti disfunzionali del sé più stabili e duraturi (ansia depressione, scarsa autostima). La ricerca longitudinale di Shedler e Block (1990) che ha studiato la relazione tra uso/astensione dalla droga e presenza/assenza di specifici tratti e caratteristiche personali in un campione di circa 100 soggetti, mostra, ad esempio, che i consumatori regolari, assai prima del contatto con la droga, presentavano già segni di sofferenza emotiva, quali alienazione, impulsività e stress sociale.
Questo tipo di adolescenti sono attratti dalla droga proprio perché questa è in grado di alleviare, almeno temporaneamente, il senso di isolamento, di inadeguatezza, di incapacità di conseguire delle gratificazioni più significative e durature.
Allorché è presa la decisione di continuare e l’uso si stabilizza, assumono notevole importanza anche i rinforzi sociali che le condotte di consumo ottengono nei contesti in cui so no messe in atto e la facilità/difficoltà nel procurarsi la sostanza.
Ad esempio, Jessor e Jessor, nel 1980, compirono degli studi su diversi campioni di consumatori, evidenziando che il gruppo incoraggia il soggetto ad interpretare positivamente la sua esperienza, lo aiuta a ridimensionare eventuali effetti negativi e si aspetta una certa disponibilità sia ad assumere la droga nelle circostanze adatte, sia a partecipare alla sua ricerca, imparando anche il gergo appropriato, i rituali ed i simboli condivisi dagli altri. Più che il soggetto si coinvolge e risponde positivamente alle aspettative del gruppo, uniformandosi alle sue norme comportamentali, più modificherà l’immagine che ha della sostanza e dei mezzi necessari per procurarsela, fino «al punto di considerare normale ciò che prima riteneva rischioso e di sviluppare un’identità personale e sociale di consumatore» (Ravenna, 1997). Successivamente, per poter condividere con altri la sua esperienza e per aver maggiore facilità di accesso al mercato, egli tenderà a scegliere nuovi amici solo tra i consumatori.
EFFETTI E CENNI DI FARMACOLOGIA DELLA CANNABIS
I benefici di qualsiasi sostanza devono essere confrontati con i rischi che essa comporta. Per quanto riguarda i potenziali rischi sanitari della marijuana, disponiamo di dati abbastanza esaurienti; questo è dovuto al fatto che tale sostanza è stata utilizzata per migliaia di anni da milioni di persone, ma anche perché il governo dei vari Paesi è stato sempre interessato a scoprire gli effetti tossici della cannabis ispirando così molte ricerche volte molto spesso a giustificare le politiche proibizioniste (Grinsoon e Bakalar, 1995).
Riguardo agli effetti ed ai suoi potenziali rischi esistono diverse questioni su cui si dibatte ancora oggi: a riguardo, Grinspoon e Bakalar, in un loro libro sull’argomento, affermano che «i potenziali rischi della marijuana quando la si consuma per piacere e la sua possibile utilità come medicinale sono questioni interconnesse dal punto di vista storico quanto da quello pratico: dal punto di vista storico, perché gli argomenti usati per giustificare la repressione dell’uso ricreativo hanno avuto un’influenza disastrosa sul modo di valutare le sue potenzialità terapeutiche; dal punto di vista pratico, perché è possibile che la marijuana sia innocua come medicina se è relativamente innocua come sostanza inebriante».
Gli studiosi continuano col dire che ormai le evidenze empiriche hanno reso sempre più chiaro il fatto che la cannabis è una sostanza relativamente benigna e che quindi sta diventando sempre più difficile negare che una valutazione rischi-benefici soddisfi tutti i requisiti per un suo uso medico.
Entrando nel merito degli effetti tossici di una sostanza, è importante ricordare che ne esistono di due tipi: gli effetti tossici classificati come acuti (derivanti da un’unica dose) e quelli cronici (derivanti da un uso prolungato). Inoltre è possibile distinguere tra effetti fisici e psicologici (o comportamentali) e va sottolineato il fatto che gli effetti intossicanti della marijuana, come per molte altre sostanze, dipendono in parte dalla sua concentrazione e dal dosaggio.
Effetti acuti
I più comuni effetti acuti di tipo fisico della marijuana e del THC (δ-9-tetraidrocannabinolo, principale agente chimico attivo della sostanza), sia che vengano fumati, sia ingeriti, sono una leggera iperemia congiuntivele (arrossamento degli occhi) ed una lieve accelerazione del battito cardiaco. Nessuno di questi effetti sembra essere spiacevole o pericoloso. Grinspoon accenna anche al fatto che, in cinquemila anni di uso della cannabis da parte di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, non è mai stata rintracciata una testimonianza credibile del fatto che questa droga abbia provocato anche un solo caso di morte.
Il potere letale delle droghe viene misurato di solito per mezzo di un indice chiamato LD50, la dose che farebbe morire il 50% degli animali o degli esseri umani che assumono una certa sostanza. La LD50 per la cannabis per gli esseri umani è però sconosciuta, visto che non esistono dati dai quali la si possa ricavare. Inoltre, la tossicità di una droga può essere stimata per mezzo di un numero noto come “rapporto terapeutico” o “fattore di sicurezza”, definito come il rapporto tra la dose letale e la dose efficace. La tossicità del THC, paragonata a quella dei barbiturici e dell’alcol è di molto inferiore, così come il suo fattore di sicurezza, estrapolato dai dati ottenuti da esperimenti sui ratti, è molto superiore (ad esempio, il fattore di sicurezza per l’alcol è compreso tra 4 e 10, quello del secobarbitale è compreso tra 3 e 50, mentre per il THC è circa 40.000). La marijuana nella sua forma naturale è probabilmente la sostanza terapeuticamente attiva più innocua tra quelle note all’umanità (Grinspoon e Bakalar, 1995).
Naturalmente la cannabis comporta anche degli effetti acuti di natura comportamentale e psicologica che possono destare preoccupazione. L’attenzione e la memoria a breve termine, la capacità di seguire un discorso o un ragionamento e la coordinazione possono essere indebolite sotto il suo influsso. Non è stato però accertato con chiarezza se questi effetti persistano anche quando la sensazione di ebbrezza è passata da un certo tempo. Da questo punto di vista, la marijuana presenta gli stessi inconvenienti di altre sostanze psicoattive usate come medicinali, come ad esempio le benzodiazepine, che i medici prescrivono mettendo sempre in guardia i pazienti dai pericoli riguardanti la guida e avvertendo che potrebbero sentirsi fiacchi e assonnati sul lavoro.
Riguardo proprio alla questione della guida sotto l’effetto della cannabis, gli studiosi hanno opinioni molto differenti: alcuni sostengono la pericolosità di guidare dopo aver assunto la sostanza in quanto, a loro avviso, essa riduce la prontezza di reazioni, l’abilità e la capacità di controllare l’interazione uomo-macchina. Al contrario, per altri ricercatori, hanno riferito che la marijuana induce a limitare la velocità di crociera e la propensione a guidare pericolosamente. A causa di queste incertezze, non è possibile valutare il contributo netto della cannabis come agente causale di incidenti stradali e, sebbene appaia probabile un certo aumento del rischio, l’ordine di grandezza di tale rischio rimane incerto (Grinspoon e Bakalar, 1995).
Passando a considerare gli altri effetti acuti della cannabis, quello di gran lunga più comune è lo stato di coscienza alterato, lo “sballo”. Coloro che ne fanno un uso ricreativo, riferiscono che tale condizione può durare dalle due alle quattro ore, nel caso in cui la cannabis venga fumata e dalla cinque alle dodici ore quando viene ingerita. Questo effetto consiste, nella sua forma più comune, in uno stato di tranquillità e di leggera euforia, nella quale il tempo sembra scorrere più lentamente mentre si accentua la sensibilità ai suoni, alle immagini ed al tatto. Il fumatore può sentirsi allegro o perfino esaltato; i suoi pensieri si susseguono più rapidamente mentre si indebolisce la memoria a breve termine. Possono esserci sottili cambiamenti nella percezione visiva e nell’immagine corporea di sé. «Spesso è come se l’adulto inebriato dalla cannabis percepisse il mondo con un po’ della meraviglia e della curiosità di un bambino; dettagli che di solito passano inosservati ora catturano l’attenzione, i colori sembrano più brillanti e intensi…alle volte, dopo un’ora o due, subentrano sonnolenza o assopimento» (Grinspoon e Bakalar, 1995).
Anche se ci sono persone che non gradiscono tali effetti la maggior parte dei consumatori li trova piacevoli e interessanti; la marijuana non solo è in grado di alleviare i sintomi di certe malattie, ma fa anche sentire meglio, in senso generale, i pazienti che ne fanno uso. Ad esempio, i soggetti sottoposti a chemioterapia, trattamento dagli effetti demoralizzanti come nausea e vomito, possono essere prevenuti grazie alla marijuana. Ciò è dovuto in gran parte alle condizioni di predisposizione psicologica, come le aspettative e l’umore, e al contesto sociale. Come vedremo più avanti, la descrizione degli effetti in situazioni di consumo ricreativo, non è applicabile necessariamente a contesti di tipo medico.
Dalla fine degli anni ’60, dozzine di studi hanno valutato la prestazione intellettiva delle persone dopo una o due ore che hanno fumato marijuana. Questi studio si svolgono in laboratorio ed utilizzano come soggetti dei fumatori esperti. I ricercatori somministrano marijuana ad alcuni e agli altri un placebo oppure alte dosi ad alcuni e basse agli altri. Poi entrambi i gruppi vengono sottoposti ad uno o più test cognitivi.
Gli unici test cognitivi che dimostrano in modo abbastanza sistematico un effetto a breve termine della marijuana sono quelli sulla memoria a breve termine: alcuni non sono per niente influenzati dalla sostanza in quanto, mentre sono sotto il suo effetto, le persone sono in grado di ricordare cose che hanno appreso prima di essere sotto tale effetto. Inoltre, quando alle persone vengono date da ricordare delle cose mentre sono “fatte”, esse riescono in seguito a riconoscerle (Miller et al., 1977).
Da altri studi emerge comunque che la marijuana riduce effettivamente la capacità delle persone di richiamare alla mente liberamente parole, disegni, storie o suoni che erano stati presentati in precedenza, durante il periodo di intossicazione (Miller et al., 1976).
Nessun altro test sembra però essere influenzato in modo consistente dalla marijuana: molti ricercatori hanno infatti osservato che essa non è in grado di influenzare la performance delle persone nei test sull’attenzione, sulla percezione, sull’elaborazione delle informazioni e sulla capacità di risolvere problemi (vedi ad esempio: Dornbush e Kokkevi, 1976).
Alcuni ricercatori hanno osservato piccole differenze in questi test e, inoltre, i risultati non sono coerenti tra uno studio e l’altro; questi risultati contraddittori potrebbero però essere dovuti a probabilità statistiche oppure, potrebbero presentarsi perché le reazioni individuali alla cannabis variano considerevolmente, soprattutto in queste ricerche dove vengono studiate soltanto alcune decine di soggetti. Lo hanno evidenziato Zimmer e Morgan, in un libro che hanno pubblicato allo scopo principale «di mettere in luce le scorciatoie dialettiche usate da alcune istituzioni finanziate dal governo degli USA, che invece di assolvere al proprio ruolo scientifico, hanno assunto un ruolo propagandistico nella “guerra alla droga”». In questo volume vengono appunto analizzati, attraverso un’ampia rassegna della letteratura sull’argomento, i vari “miti” e gli stereotipi legati da sempre alla marijuana e al suo consumo e si cerca quindi di mettere in luce i “fatti” reali.
Ad esempio, uno dei “miti” analizzati è quello che sostiene che la marijuana riduca la memoria e le capacità cognitive: secondo tale ipotesi, le persone che sono sotto l’influsso della sostanza non sarebbero in grado di riflettere in modo razionale e intelligente. Zimmer e Morgan, portando come prove i diversi esperimenti controllati sull’argomento, sostengono invece che «la marijuana produce modificazioni immediate e temporanee nei pensieri, nelle percezioni e nella elaborazione delle informazioni. Il processo cognitivo più chiaramente influenzato dalla marijuana è la memoria a breve termine» che comunque, come abbiamo visto, ne risente in maniera soggettiva e, mai, andando ad intaccare cose apprese precedentemente all’assunzione. Inoltre, questa ridotta capacità dura soltanto quanto l’intossicazione e, come vedremo più avanti, non ci sono evidenze convincenti che un uso intenso e a lungo termine di marijuana provochi un deficit permanente della memoria o di altre funzioni cognitive.
Come abbiamo accennato, la maggior parte degli studi sugli effetti cognitivi della cannabis, sono stati condotti in laboratorio e, come hanno notato Zimmer e Morgan (1997), «i risultati di questi studi di laboratorio probabilmente non riflettono in modo accurato gli effetti cognitivi della marijuana nei setting del mondo reale. E’ possibile che tali studi non registrino alcuni degli effetti della sostanza sulle capacità cognitive e ne esagerino altri». Fuori dal laboratorio, le persone riferiscono che l’intossicazione da marijuana rende per loro più difficile concentrarsi su una cosa, e sostenere associazioni di pensieri lineari.
Queste informazioni rappresenterebbero un sostegno per l’ipotesi che la marijuana porti a deficit della memoria a breve termine, idea coerente anche con diversi studi di laboratorio. Come approfondiremo più avanti, in ultima analisi, gli effetti della marijuana sulle capacità cognitive nel mondo reale dipendono dal momento e dal luogo che le persone scelgono per usarla, e dalle mansioni che stanno svolgendo (Zimmer e Morgan, 1997); questo spiegherebbe la mancanza di coerenza tra i risultati dei diversi studi.
Un altro effetto psicologico acuto della cannabis, molto meno comune ma comunque significativo, è uno stato di ansia a volte leggero ma altre volte accompagnato da pensieri paranoici che occasionalmente possono sfociare in un senso di panico tale da rendere temporaneamente incapaci di agire. «E’ un sintomo autolimitante, e semplici rassicurazioni sono la cura migliore» (Grinspoone Bakalar, 1995). L’ansia ed i pensieri paranoici hanno maggior probabilità di, manifestarsi nei consumatori occasionali o comunque inesperti, o quelli che la consumano in ambienti per loro ostili o poco familiari.
Da parte di commissioni governative che si sono occupate di studiare la cannabis, si è osservato ripetutamente che all’aumentare della familiarità con la droga, queste reazioni negative diventano sempre meno comuni, in quanto i consumatori esperti hanno imparato a riconoscere i propri limiti e sono in grado di dosare la quantità di marijuana assunta in modo da prevenire uno stato di alterazione eccessiva. Da uno studio recente di Heishman, Stitzer e Yingling (1989) è stata dimostrata l’esistenza di questa capacità dei fumatori esperti di cannabis: sono state fatte fumare a questi soggetti sigarette contenenti percentuali differenti di THC ed è risultato evidente che quando la dose era più forte, essi facevano tiri più brevi ed aspiravano meno fumo.
Per quanto riguarda la psicosi da cannabis, non è stato ancora chiarito se la manifestazione dei sintomi di tale psicosi sia dovuta ad un abuso prolungato della sostanza o se semplicemente si tratti di una slatentizzazione di sintomi preesistenti all’assunzione. In ogni caso le testimonianze e le segnalazioni di psicosi da cannabis sono poco numerose e per lo più provenienti da Paesi come l’India e il Nord Africa e non risulta quindi chiaro se tali sintomi siano effettivamente dovuti alla sostanza piuttosto che ad altri stati di tossicità acuta, compresi -specialmente in Marocco- quelli associati alla malnutrizione e alle infezioni endemiche.
Secondo l’esperienza clinica di diversi studiosi (ad esempio Grinspoon, 1995; Treffert, 1978) la cannabis può esacerbare le tendenze psicotiche di alcuni pazienti schizofrenici quando i disturbi sono altrimenti contenuti abbastanza bene per mezzo di farmaci antipsiciotici. Anche per questi pazienti è difficile stabilire se l’uso della marijuana faccia precipitare le psicosi o se sia semplicemente un tentativo di cura che il paziente stesso messo in atto alle prime avvisaglie dei sintomi (le due possibilità ovviamente non si escludono a vicenda); in ogni caso non ci sono prove credibili che la cannabis possa provocare o che contribuisca all’insorgere della schizofrenia in sé.
I rapporti governativi più recenti, come quello dell’ACDM (Advisory Council on the Misuse of Drugs) del 2002, o il Cannabis Report 2002, entrando nel dibattito, sostengono che ancora oggi non è stato dimostrato alcun legame causake tra consumo di marijuana e l’insorgere di malattie mentali come la schizofrenia o i disturbi paranoidei.
Come per altre droghe, la cannabis può provocare un delirio da intossicazione quando assunta in dosi molto forti, soprattutto per via orale. I sintomi possono essere confusione mentale, agitazione, disorientamento, perdita di coordinazione e a volte allucinazioni. Ma non si tratta di psicosi da cannabis, visto che il delirio persiste soltanto fino a che nel cervello sono presenti elevate quantità di droga. A differenza di altre droghe, il delirio provocato dalla sostanza non è associato a sostanziali modificazioni psicologiche e non è pericoloso per il fisico.
Un’altra reazione piuttosto rara alla marijuana è il flashback, ovvero il ritorno spontaneo dei sintomi della droga in assenza di ebbrezza. In realtà, secondo Grinspoon (1995), sembra che i flashback capitino soltanto a chi in passato a fatto uso di sostanze psichedeliche; per altri studiosi è invece possibile che capiti anche a persone che hanno assunto solo marijuana. Molte persone trovano che i flashback siano un’esperienza piacevole, mentre per altri sono preoccupanti ma, in ogni caso, questi vanno scemando col passare del tempo.
Effetti cronici
«Grazie agli sforzi che il governo federale ha compiuto per dimostrare la nocività dell’uso ricreativo, oggi esiste una vasta letteratura sull’argomento» (Grinspoon e Bakalar, 1995).
A partire dagli anni ’70, dopo quasi venti anni di politiche intransigenti, di fronte al costante aumento del consumo di marijuana, inizia ad emergere «un moderato riformismo in Europa» (Zuffa, 2005), soprattutto perché diventa sempre più evidente che la pressione penale non aveva assolutamente risolto alcun problema. Inizia quindi in quegli anni a espandersi il dibattito sulle possibili riforme che si concentrano intorno alla depenalizzazione del consumo, in particolare di quello della canapa, favorita anche da un nuovo movimento di opinione che lottava per il riconoscimento delle proprietà terapeutiche della sostanza. Come avviene di solito in questi casi, i governi, prima di avviare dei reali cambiamenti, interrogarono gli esperti allo scopo di ottenere, attraverso la scienza, una certa credibilità.
Inizia così la nuova stagione di revisioni scientifiche partendo dalla canapa medica, con un rapporto della Camera dei Lord (1998) in Gran Bretagna. Sulla marijuana ad uso terapeutico. Il rapporto fa una distinzione tra uso ricreativo ed uso terapeutico, ma si limita ad analizzare soltanto il secondo rilevando, sulla base del lavoro della British Medical Association (1997), che mancano studi controllati e prove scientifiche incontestabili, circa il valore terapeutico della canapa. Tuttavia, già il documento della Bma nota che i cannabinoidi sono stati usati da moltissimo tempo e da un numero molto elevato di soggetti, senza dar luogo ad effetti tossici maggiori. Al contrario, «si sono rivelati sostanza notevolmente sicure con un profilo di effetti collaterali che li rende superiori a molti farmaci utilizzati per le stessi indicazioni cliniche». La Camera dei Lord auspica quindi l’avvio di sperimentazioni cliniche per confermare dei dati che finora sono stati soltanto “aneddotici”, e raccomanda al governo di consentire subito l’uso terapeutico della canapa, sotto forma di fumo e come farmaco «non registrato ad personam» (cioè un uso compassionevole).
Ma questo era soltanto l’inizio. Nel 1999, in Francia, il rapporto Roques dedica quaranta pagine alla trattazione della canapa (La dangerositè des drogues) e alla pericolosità di tutte le droghe, legali e illegali, mettendole a confronto analizzando mi principali fattori di pericolo (dipendenza fisica, dipendenza psichica, neurotossicità, tossicità generale e “pericolosità sociale”). Il rapporto stabilisce che la cannabis non possiede alcuna neurotossicità, differenziandosi per questo dall’alcol, dalla cocaina, dall’extacy e dagli psicostimolanti.
Ovviamente, una delle prime domande da porsi sulla cannabis, come per ogni altra sostanza psicoattiva, è se questa possa indurre dipendenza. Purtroppo, a questa domanda è difficile rispondere in quanto ancora oggi non esiste un accordo generale tra gli studiosi circa i termini “dipendenza” e “assuefazione”. L’assuefazione è riconoscibile dalla “tolleranza” e dai sintomi di astinenza, che raramente rappresentano un problema per i consumatori di marijuana. Durante le prime fasi del consumo di cannabis, le persone diventano addirittura più sensibili agli effetti desiderati; se in seguito le assunzioni della sostanza diventano più massicce, frequenti e continuative, allora si sviluppa la tolleranza sia agli effetti fisiologici, sia psicologici, nonostante questa possa variare in modo considerevole da persona a persona. Sono pochissimi i soggetti che hanno riferito di sentire l’esigenza di aumentare le dosi per ritrovare la sensazione originaria.
Quella che viene chiamata “tolleranza comportamentale” è probabilmente una questione di esperienza e serve a compensare gli effetti dello “sballo”: ciò potrebbe spiegare, ad esempio, perché gli agricoltori di certi Paesi del terzo mondo sono ancora in grado di svolgere tutta una serie di lavori manuali molto pesanti anche dopo aver assunto forti dosi di marijuana, oppure perché i malati di glaucoma che fumano fino a dieci volte al giorno possono ancora occuparsi di tutti gli aspetti della propria vita senza subire l’influenza negativa da parte della sostanza (Grinspoon e Bakalar, 1995).
Per quanto riguarda invece le reazioni da astinenza, ne sono state segnalate soltanto alcune, anche se molto leggere, in base ad esperimenti su animali e, apparentemente, su alcuni esseri umani che avevano consumato marijuana per lunghi periodi ed in dosi anche molto forti. I sintomi riportati dai soggetti degli esperimenti sono ansia, insonnia, tremori e brividi che possono durare la massimo un giorno o due. In ogni caso, per quanto possa esistere una reazione di astinenza, chiaramente non comporta problemi seri per i consumatori di marijuana, né può indurli a continuare ad assumere droga.
«Un significato più adeguato del termine “dipendenza” potrebbe essere: preoccupazione malsana e spesso indesiderata per una droga, a esclusione della maggior parte delle altre cose. Le persone che soffrono di dipendenza psicologica da una droga non fanno che pensare ad essa, consumarla o riaversi dai suoi effetti. Questo vizio danneggia la loro salute mentale e fisica e va a ricadere sul loro lavoro, sulla vita familiare e sulle amicizie. Spesso si rendono conto che stanno esagerando e, ripetutamente e senza successo, tentano di smettere o di ridurre il consumo» (Grinspoon e Bakalar, 1995). Ma questo tipo di problemi sembrano affliggere un numero molto inferiore di consumatori di marijuana rispetto alle persone che fanno uso di alcol, tabacco, eroina e cocaina e persino di benzodiazepine. Neanche i forti consumatori di Paesi come la Giamaica o la Costa Rica sembrano essere dipendenti in un modo così deleterio.
Anche il rapporto Roques (1999) si interessò al problema della dipendenza e, per quanto riguarda la cannabis, stabilendo che questa, pur essendo suscettibile di in durre dipendenza, «meno del 10% dei consumatori eccessivi diventa dipendente…non è trascurabile ma assai inferiore del rischio indotto dalla consumazione eccessiva di alcol e tabacco»; la percentuale scende ulteriormente, fino al 2%, se si considerano tutti i consumatori collocandosi così, secondo Zimmer e Morgan (1997), all’ultimo posto come potenziale di dipendenza.
E’ sempre difficile distinguere tra consumo di droga come causa di problemi e consumo di droga come effetto, ma nel caso della cannabis è ancora più difficile. Come vedremo più avanti, tra gli autori che si sono interessati a questo aspetto del consumo di marijuana, ci sono Shedler e Block (1990), che con la loro ricerca sono riusciti a provare che nella maggior parte dei casi, dietro ad un consumo fortemente problematico della sostanza, c’è un disagio antecedente e che quindi, l’abuso di marijuana non può essere visto come la principale causa di problemi psicologici e sociali ma, al contrario, come uno dei sintomi.
Inoltre, i consumatori moderati, risultano essere i soggetti con un adattamento sociale migliore, sia rispetto ai consumatori problematici che agli astinenti; ciò dimostra che il consumo di cannabis non può essere visto a priori come un problema e mette anche in discussione l’ipotesi “del trampolino”, teoria secondo la quale fumare marijuana sarebbe un primo passo verso l’uso di oppiacei e di altre droghe molto più pericolose. Infatti, solo una percentuale molto piccola dei consumatori di cannabis passa in seguito all’uso di altre sostanze più pericolose.
Certamente è vero che chi fa uso di una determinata droga ha maggiori probabilità di essere interessato anche alle altre, per ragioni analoghe; in particolare, le persone che fanno uso di droghe illecite hanno probabilità relativamente più elevate di trovarsi in una compagnia dove altre sostanze illecite siano disponibili. Ma niente di tutto questo dimostra che fare uso di una droga provochi o conduca al consumo di un’altra. La maggior parte dei fumatori di marijuana non fa uso di eroina o di cocaina, così come la maggior parte dei consumatori di alcol non fuma marijuana.
La teoria della cannabis come “droga di passaggio” è smentita anche dagli ultimi rapporti nati dalle conferenze internazionali, come il Cannabis Report del 2002, dove si evidenzia che dagli studi epidemiologici non risulta alcuna prova che le proprietà chimiche della sostanza spingano le persone ad usare altre droghe illecite. Alcuni studi registrano una relazione statistica tra l’uso di canapa e il successivo uso di altre droghe, ma il rapporto precisa che «la sola associazione statistica non è mai una prova di causalità. La gran parte dei consumatori di canapa non passa ad altre droghe».
Al di là della questione della dipendenza e della teoria “del trampolino”, l’idea che fumare marijuana, alla lunga, comporti qualche tipo di deterioramento fisico o mentale si è dimostrata radicata nonostante le evidenze empiriche a favore di questa ipotesi siano molto scarse. Già dagli studi commissionati dal governo britannico, alla fine del XIX secolo, all’ente chiamato Hemp Drug Commission, non emerse alcuna evidenza del fatto che un consumo moderato delle droghe a base di cannabis provocasse malattie o danni mentali o morali, o che tendesse a indurre agli eccessi più di quanto non facesse un consumo moderato di whisky (Report of the Indian Hemp Drug Commission, 1893-1894). Gli stessi risultati sono stati ottenuti da vari esperimenti controllati più recenti effettuati su consumatori cronici: non è stata data alcuna dimostrazione del fatto che la cannabis induca dei danni per via farmacologica.
Queste conclusioni sono state confermate da tre importanti studi condotti in Giamaica, Costa Rica e Grecia, sugli effetti a lungo a termine della marijuana dal punto di vista cognitivo. In questi studi sono stati messi a confronto forti consumatori abituali di cannabis con non-consumatori e sulla maggior parte delle misure cognitive, in tutti e tre i Paesi i ricercatori non hanno riscontrato differenze significative tra i consumatori a lungo termine di marijuana e i non consumatori. In sintesi, non sono stati riscontrati danni intellettuali né neurologici, né alcun tipo di modificazione della personalità o diminuzione della volontà di lavorare o di partecipare alla vita sociale. Anche in un’altra ricerca giamaicana, i ricercatori canadesi non hanno trovato evidenze di deficit cognitivi permanenti riferibili ad un uso frequente di marijuana e con forti dosi (Bowman e Phil, 1973).
Da ulteriori esperimenti condotti negli Stati Uniti, non è stato possibile dimostrare che un consumo anche piuttosto elevato di marijuana abbia alcun effetto negativo sull’apprendimento, sulla percezione o sulla motivazione, nemmeno nell’arco di un anno (Culver e King, 1974).
Più di recente sono stati confermati i risultati di questi esperimenti. Ad esempio, come abbiamo già visto, il rapporto Roques (1999) indica che la canapa non possiede alcuna neurotossicità e che le alterazioni della memoria e delle altre funzioni cognitive, come l’attenzione, o gli stati di sonnolenza indotti dalla canapa, sono disturbi «temporanei» e «dipendono dalla dose utilizzata».
Anche il rapporto dell’ACMD (Advisory Council on the Misure of Drugs) del 2002 propone la classificazione della cannabis tra le droghe meno pericolose (classe C), sottolineando che l’attuale classificazione non è proporzionata, né alla sua intrinseca tossicità, né a paragone delle altre sostanze attualmente collocate nella sua stessa classe (classe B), come le anfetamine. Il rapporto esamina la canapa suddividendo i rischi in «acuti» e «a lungo termine» sostenendo che questi ultimi sono principalmente gli stessi del tabacco: nonostante la cannabis abbia una concentrazione più alta di alcune sostanze cancerogene rispetto al tabacco, tuttavia ci sono fattori che limitano il rischio, visto che di solito i consumatori di marijuana fumano meno dei tabagisti e la gran parte interrompe il consumo entro i trenta anni. Inoltre il rapporto, nel rispondere alla dibattuta questione della presunta capacità della canapa di causare schizofrenia o altre malattie mentali, si esprime dicendo che ancora oggi non è stato dimostrato alcun legame causale.
D’altra parte, ci sono anche delle testimonianze cliniche di una particolare modificazione della personalità chiamata “sindrome amotivazionale”. La descrizione dei suoi sintomi comprende passività, senso di inutilità, pigrizia, apatia, mancanza di comunicazione e di ambizione. Alcune tra le spiegazioni proposte includono alterazioni ormonali, lesioni cerebrali, effetti sedativi o depressivi indotti dalla marijuana. Grinspoon e Bakalar (1995), parlando di questa presunta sindrome, evidenziano che questa sembra colpire soltanto persone istruite e specializzate, mentre non si manifesta tra i braccianti agricoli greci o caraibici.
Viene così di nuovo a galla il problema legato alla distinzione delle cause dai sintomi: alcuni consumatori di cannabis in India e in Medio Oriente, ad esempio, possono essere affamati, malati o disperati e possono cercare di alleviare la loro sofferenza attraverso l’uso della sostanza. Anche nella nostra società, i forti consumatori di droga sono spesso annoiati, depressi e indifferenti o alienati, cinici e ribelli; a volte può essere la droga a procurare questi stati d’animo negativi, ma in altri casi esse sono il risultato dei tratti della personalità che conducono all’abuso di droga (vedi paragrafo 2.3 sullo studio longitudinale di Shedler e Block del 1990). L’abuso di droga può rappresentare un modo di giustificare un insuccesso oppure una forma di automedicazione. A causa di tutte queste complicazioni e della mancanza di conferme ottenute da esperimenti controllati, l’esistenza di una sindrome amotivazionale prodotta dal consumo di cannabis deve essere considerata non dimostrata (Grinspoon e Bakalar, 1995).
Molta ricerca recente sui pericoli sanitari della marijuana riguarda i suoi effetti a lungo termine sul corpo. Studi specifici hanno preso in considerazione il cervello, il sistema immunitario, l’apparato riproduttore e i polmoni. Le indicazioni di effetti dannosi a lungo termine derivano quasi esclusivamente da studi su animali e da altri simili esperimenti di laboratorio e non hanno evidenziato alcun tipo di lesione funzionale al cervello causata dall’assunzione di marijuana. Ci sono però diverse testimonianze di danni alle cellule cerebrali derivanti da osservazioni sperimentali effettuate su consumatori abituali di cannabis, condotte nei Carabi, in Grecia ed in altri paesi che hanno rivelato rare patologie o malattie degli organi associate al consumo della sostanza (Carter e Doughty, 1989).
Per quanto riguarda il sistema immunitario, qualsiasi siano le sue potenziali alterazioni temporanee causate dalla marijuana, non risulta che esse possano accrescere il pericolo di contrarre malattie infettive o tumori. Grinspoon e Bakalar (1995) notano che «se ci fossero ripercussioni significative, potremmo aspettarci di riscontrare un’incidenza più alta di queste malattie tra le persone che erano giovani negli anni ’60, quando la marijuana diventò per la prima volta una droga popolare. Non ci sono evidenze di ciò». I ricercatori parlano anche di un grande esperimento di gruppo, coordinato da vari centri di ricerca sull’AIDS, che ha coinvolto un gruppo di quasi cinquemila omosessuali maschi tenuti sotto osservazione per diciotto mesi, senza evidenziare alcuna correlazione tra consumo di marijuana e condizioni del sistema immunitario. Inoltre, l’uso della cannabis ha mostrato di non avere alcun effetto sulla velocità con cui progredisce la malattia da virus dell’immunodeficienza umana o HIV (Kaslow et al., 1989).
Un’altra questione aperta è l’effetto della cannabis sul sistema riproduttivo. Nei maschi, una sola dose di THC è in grado di ridurre il numero di spermatozoi ed il tasso di testosterone e di altri ormoni ma, riguardo a questo effetto, si tende a sviluppare tolleranza, come risulta da studi condotti su consumatori abituali in Costa Rica (i consumatori frequenti e abituali avevano lo stesso livello medio di testosterone dei soggetti di controllo). Non c’è neppure alcuna evidenza del fatto che tale momentanea riduzione del livello di testosterone sia in grado di influenzare le prestazioni sessuali e la fertilità.
Dagli esperimenti su animali risulta che il THC può ridurre il tasso di ormoni femminili e disturbare il ciclo estrale. Esistono anche diverse testimonianze, seppur isolate, di nascite premature o di disturbi nel neonato ma la maggior parte degli esperimenti non ha riscontrato alcun effetto sul feto o sul neonato. Manca comunque una casistica di controllo e le circostanze esterne rendono difficile risalire alle cause.
Per riassumere tutta la letteratura riguardante i danni ed i rischi dati dalla cannabis, Grinspoon e Bakalar (1995) dicono: «siamo giunti alla conclusione che l’unico effetto deleterio ben documentato della marijuana sul fisico è il danno all’apparato respiratorio e ai polmoni. Il fumo restringe e infiamma le vie respiratorie e riduce la capacità polmonare; il fumo di marijuana grava sui polmoni con il triplo di catrame e il quintuplo del monossido di carbonio, rispetto al tabacco….D’altra parte, anche il più forte fumatore di marijuana difficilmente fuma quanto il fumatore medio di tabacco…non è stato mai segnalato in tutta la nazione un solo caso di cancro ai polmoni, di enfisema o di altre patologie polmonari rilevanti che fosse attribuibile al consumo di cannabis».
1.3 EPIDEMIOLOGIA
Il National Institute of Drug Abuse (NIDA), un’agenzia federale incaricata di fare indagini sull’uso di droghe negli Stati Uniti, pubblica periodicamente i risultati di inchieste condotte su adolescenti tra i 12 e i 17 anni, su giovani tra i 18 e i 25 anni e sugli adulti, pone domande ai soggetti partecipanti circa l’uso di sostanze attuale e passato, sulla sua frequenza e sulla varietà di sostanze assunte. Da una lettura delle tendenze degli ultimi 25 anni emerge che3 l’uso di marijuana ha raggiunto il culmine nel 1979, è declinato nel decennio successivo e attualmente è di nuovo in aumento. Le percentuali di giovani tra i 12 e i 17 anni che hanno riferito di aver fatto uso di cannabis almeno una volta sono passate dal 14% nel 1972, al 31% nel 1979, al 24% nel 1985, al 13% nel 1991 fino ad arrivare al 28% nel 2000.
Anche in Italia la prevalenza dell’uso di marijuana è aumentata drammaticamente dalla metà alla fine degli anni Sessanta, con un picco nel periodo tra il 1978 e il 1980; da allora è costantemente diminuita fino a tornare in costante crescita negli ultimi dieci anni.
Seguendo le indicazioni fornite dall’Osservatorio europeo delle droghe e tossicodipendenze (O.E.D.T.), sono state attivate, nel 2003, dal C.N.R. –Sezione di Epidemiologia dell’Istituto di Fisiologia Clinica, due indagini nazionali:
- l’indagine IPSAD (Italian Survey on Alcool and Drugs) sul consumo di alcol, tabacco e sostanze psicotrope legali e illegali nella popolazione generale residente in Italia, di età compresa tra i 15 e i 54 anni;
- l’indagine ESPAD /European School Survey Project on Alcool and Other Drugs) sugli atteggiamenti, sulla percezione del rischio e sul consumo di alcol, tabacco e sostanze psicotrope legali e illegali nella popolazione giovanile secolarizzata, di età compresa tra i 15 e i 19 anni.
Da tali indagini è stato elaborato il. Primo indicatore epidemiologico standard dell’E.M.C.D.D.A, utile ai fini dell’orientamento conoscitivo alle azioni di Governo. Tutte le regioni italiane sono state coinvolte nel piano di campionamento degli studi ed il campione, costituito da 37.000 soggetti nel primo caso e da 28.000 nel secondo, è rappresentativo delle rispettive popolazioni di riferimento.
L’INDAGINE IPSAD
La sezione del questionario che più interessa il nostro studio, è quella, specifica e dettagliata, che riguarda le diverse sostanze illecite (cannabinoidi, oppiacei, cocaina, amfetamine, extacy, allucinogeni e solventi), dove sono poste alcune domande circa il loro consum o nella vita (LTE- life time experience), nell’ultimo anno (LYE- last year experience) e negli ultimi 30 giorni (LME- last month experience). Per leggere correttamente i dati riportati, si deve considerare che i valori relativi al consumo nella vita sono più elevati di quelli relativi all’ultimo anno, che a loro volta sono più elevati di quelli relativi all’ultimo mese, e ciò per ovvi motivi: chi ha consumato nell’ultimo mese deve aver necessariamente consumato anche nell’ultimo anno e nella vita, mentre non vale il contrario, in quanto alcuni soggetti potrebbero aver sperimentato la sostanza anni addietro, ma potrebbero non averla consumata in seguito.
Rispetto alle stime relative all’indagine precedente (2001), si registra un incremento nel consumo “almeno una volta nella vita” di tutte le sostanze citate; per lo scopo della nostra ricerca i dati che più ci interessano sono quelli relativi al consumo di Cannabis. Proprio riguardo a tale sostanza si nota come essa sia quella più diffusa in tutta la popolazione (in tutte le classi di età), che è stata consumata almeno una volta nella vita dal 22,4% del campione, contro il 21,9% dell’indagine precedente. Tale quota risulta più elevata per gli uomini rispetto alle donne sia tra i giovani che tra i meno giovani.
Interessante notare come per i maschi la classe d’età con la prevalenza d’uso più alta è quella 25-34, mentre le donne che riferiscono più frequentemente di aver consumato cannabis almeno una volta nella vita sono le più giovani (15-24): questo sta ad indicare un più recente accostamento delle donne, in particolar modo delle giovanissime, a questa sostanza, rispetto agli uomini. Il confronto tra i risultati delle due indagini, sebbene si riferiscano a campioni costituiti da soggetti differenti, evidenzia come tale fenomeno, per quanto caratteristico della popolazione giovanile, sembra in questi ultimi anni interessare anche i meno giovani: per i maschi di età compresa tra i 25-44 anni e per le femmi e di età compresa tra 15-34 anni si registra un discreto aumento nelle quote di assuntori, paria 6-7 punti percentuali rispetto al dato del 2001.
Anche il consumo di cannabinoidi nell’ultimo anno risulta elevato e con notevoli incrementi rispetto a quanto emerso dall’indagine precedente, soprattutto per quanto riguarda le donne più giovani (le 15-24enni in questi due anni passano dall’8,7% al 15,1%).
Il dato più evidente è che al crescere dell’età diminuisce, in modo abbastanza regolare, sia tra le donne che tra gli uomini, la quota di soggetti che hanno riferito un consumo di tale sostanza negli ultimi 12 mesi: confrontando l’uso nella vita con quello relativo all’ultimo anno, emerge come tra i 15-24enni più della metà di quelli che hanno riferito dio aver di aver utilizzato cannabis almeno una volta nella vita lo ha fatto anche nell’ultimo anno, mentre tra i 25-34enni meno di un terzo ha reiterato tale comportamento. Per i soggetti over 35 tale rapporto è ancora più basso.
Infine, l’ultimo aspetto esaminato, è il consumo delle diverse sostanze negli ultimi 30 giorni. La cannabis è ancora una volta la sostanza più diffusa all’interno di tutte la classi d’età e per entrambi i sessi: si registrano, anche in questo caso, valori più elevati per i soggetti di sesso maschile rispetto alle donne, e sensibili incrementi rispetto all’indagine del 2001.
Tra i soggetti che hanno dichiarato di aver consumato cannabinoidi almeno una volta nell’ultimo anno, la quota di quelli che lo hanno fatto, anche nell’ultimo mese, si aggira intorno ai due terzi, senza particolari differenze tra i due sessi e tra le diverse classi d’età.
L’INDAGINE ESPAD
Nel mese di aprile 2003, come ogni anno dal 1999, sono stati somministrati in un campione di 347 scuole secondarie italiane 28.395 questionari, ad altrettanti studenti, per la rilevazione della percezione del rischio e altre informazioni predittive della sperimentazione ed uso di alcol, tabacco ed altre sostanze illegali.
Attraverso un disegno campionario, che prevede una stratificazione a più stadi delle scuole secondarie italiane e come unità di rilevazione le classi di un ciclo di studi, dalla prima alla quinta, è stato raccolto un campione significativo della popolazione studentesca di età compresa tra i 15 e i 19 anni di entrambi i sessi.
La sostanza illecita più diffusa nel campione di studenti risulta essere, ancora una volta, la cannabis, con un tasso di prevalenza nella vita, che varia, per i maschi, dal 15,6% tra i quindicenni fino al 57,5% tra i diciannovenni, mentre per le femmine, rispettivamente, dal 12,1% al 43,3%. Soprattutto per i valori di prevalenza più alti si evidenzia, rispetto all’indagine precedente, una sostanziale stabilità della percentuale di utilizzatori tra le donne ed un leggero incremento tra gli uomini.
Anche tra gli studenti, come nella popolazione generale, si può notare che il consumo di cannabis (così come delle altre sostanze illecite) riguarda, in misura maggiore, i maschi rispetto alle femmine.
Si registra una situazione simile anche per il consumo della cannabis nell’ultimo anno: questi aumenta notevolmente ed in modo regolare al crescere dell’età per entrambi i sessi; tra i più giovani la differenza tra maschi e femmine è meno marcata rispetto agli studenti più grandi. Le variazioni, rispetto all’indagine del 2001, sono minime, fatta eccezione per i maschi di 19 anni per i quali la quota di consumatori passa dal 40% circa al 46%.
Infine, analogamente a quanto rilevato dall’indagine IPSAD sulla popolazione generale, anche in quella studentesca la cannabis risulta essere la sostanza illecita più diffusa per quanto riguarda il consumo recente. La proporzione di soggetti che ha riferito un consumo negli ultimi 30 giorni di tale sostanza sul totale degli studenti intervistati, varia, al crescere dell’età, per i maschi dal 9% (15enni) al 33% (19 enni), mentre per le femmine dal 6% al 19%. Non si rilevano particolari scostamenti rispetto a quanto osservato nel 2001.
L’USO MODERATO
Esistono in letteratura numerose evidenze empiriche a sostegno del fatto che l’uso di droga non induce necessariamente l’escalation e la dipendenza, ma può mantenersi ad un livello “controllato” o moderato. Già con gli studi epidemiologici realizzati alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti si è riusciti a dimostrare, ad esempio, che la modalità di consumo più diffusa della marijuana è occasionale e moderata piuttosto che intensiva e cronica. Norman Zimberg (1984), uno degli studiosi più autorevoli in questo campo, definisce l’uso controllato come quel tipo di consumo che è abbastanza frequente e prolungato da far escludere che si tratti un’esperienza occasionale e priva di significato per chi la attua, ma che non interferisce con i suoi rapporti familiari, sociali, produttivi e con il suo stato di salute (Ravenna, 1997).
Secondo Zimberg è soprattutto il contesto fisico e sociale in cui l’esperienza del consumo viene attuata che le persone elaborano le norme ed i modelli di comportamento rivolti a mantenere un uso controllato: ad esempio limitare l’uso di sostanze a particolari situazioni, al week end in modo da evitare che assunzioni più frequenti inducano dipendenza o interferiscano con le normali attività quotidiane; limitare l’uso a quelle situazioni che consentano di avere un’esperienza positiva e soddisfacente; cercare di prevenire gli effetti potenzialmente dannosi e indesiderati prendendo precise precauzioni.
Gli studi di Zimberg e Harding degli anni 1973 e 1978, contraddissero infatti i risultati delle ricerche svolte fino a quel momento e dimostrarono che è possibile raggiungere un livello di controllo rispetto alle sostanze stupefacenti, lecite e illecite. Mettendo a confronto consumatori moderati di marijuana, psichedelici e oppiacei, i dati rivelarono che i rituali e le prescrizioni sociali, promuovono il controllo individuale rispetto al consumo di queste sostanze in quattro modi principali:
- definiscono l’uso moderato e condannano quello compulsivo (ad esempio, solo nel week end);
- limitano e consigliano l’uso in determinati contesti fisici e mentali adeguati (ad esempio, solo in luoghi sicuri o solo quando si è psicologicamente sereni);
- identificano i potenziali effetti non desiderati e le precauzioni rilevanti da mettere in pratica prima e durante il consumo;
- favoriscono la creazione di comparti riservati al consumo, evitando di interferire con tutto ciò che non riguarda le sostanze (lavoro, relazioni sociali, obblighi, scuola, ecc.).
Per Maloff e collaboratori (1979) l’esperienza dell’uso controllato deriva soprattutto dalle prescrizioni sociali e culturali; Dipende cioè dall’interiorizzazione, da parte dell’individuo, dei limiti fissati dai gruppi sociali di appartenenza che egli utilizza come guide ragionevoli per le sue condotte.
In accordo con le posizioni di Zimberg, gli autori sostengono che è soprattutto nel contesto dei suoi rapporti sociali informali che l’individuo impara a valutare se la quantità di sostanza che intende assumere è adeguata o eccessiva, ad accettare certe regole e certe sanzioni, ad acquisire la capacità di riconoscere ed apprezzare gli effetti della droga.
Infatti, i fumatori “occasionali” di cannabis in genere la consumano in gruppo, nel quale il rituale della preparazione e del fumare il joint (la sigaretta alla marijuana) è parte integrante dell’interazione sociale: in ogni gruppo sociale esistono prescrizioni culturali precise che indicano quali sostanze possano essere assunte per ottenere certi risultati (attenuare l’ansia, avere più energia o sentirsi più socievoli e disponibili, ecc.).
Come vedremo più avanti, «assumere una droga nella convinzione che possa produrre un certo effetto innesca un processo di modellamento della percezione che aumenta la probabilità che l’assuntore riscontri realmente l’effetto atteso» (Ravenna, 1997). Se la droga produce i risultati per i quali è stata assunta, ciò conferma anche l’attendibilità delle predizioni relative a come e per quale scopo essa debba essere usata.
Altre prescrizioni indicano quando, dove, con chi è più opportuno che una sostanza sia assunta, quali metodi consentono di conseguire gli effetti desiderati ed i rituali che si associano all’uso; altre regole propongono prescrizioni in rapporto all’età, al sesso, allo status sociale dell’assuntore, come ad esempio il bere è ritenuto più adatto agli uomini e l’uso di psicofarmaci alle donne.
Negli ultimi anni sono continuate le ricerche volte ad indagare il consumo di cannabis tra i giovani, soprattutto per dimostrare se realmente la sostanza riesca ad indurre dipendenza, e quindi pattern di consumo eccessivi e maleadattivi o se, effettivamente, fosse possibile continuare a far uso della marijuana senza arrivare alla dipendenza, mantenendo pattern di consumo controllati e senza subire problemi dal punto di vista fisico, sociale e psicologico.
Le ricerche epidemiologiche più recenti indicano che la grande maggioranza delle persone che provano la marijuana non diventano consumatori frequenti e a lungo termine. Ad esempio, uno studio condotto da Grinspoon e Bakalar (Marijuana: the forbidden medicine, 1993), così come da altre ricerche precedenti (ad esempio: Slogan, 1979; Novak, 1980), risulta evidente che molte persone fumano marijuana regolarmente per anni senza avere conseguenze fisiche, psicologiche o sociali negative. Ad un certo punto, inoltre, la maggior parte dei consumatori frequenti di cannabis (e ad alti dosaggi), decidono di ridurre il consumo o di cessarlo completamente.
Nella maggior parte dei casi, questo processo sembra essere relativamente semplice. Ad esempio uno studio ha preso in considerazione degli uomini di ventotto e ventinove anni che, nel corso del decennio precedente, erano stati fumatori di marijuana con ritmo giornaliero (Kandel e Davies, 1992). Al momento della ricerca, l’85% di loro non utilizzava più la sostanza tutti i giorni, anche se quasi tutti continuavano a farlo occasionalmente.
Dai risultati della maggior parte delle ricerche risulta quindi evidente che la cannabis è una sostanza che molto raramente induce dipendenza e che, nei rari casi in cui compaiono sintomi di astinenza, questi tendono ad essere «leggeri e transitori» (Zimberg e Morgan, 1997). Sembra quindi evidente che è possibile usare una sostanza secondo pattern di consumo moderati e controllati e che, anche nei casi in cui il consumo sia frequente o comunque regolare, è possibile mantenere una vita “normale” da tutti i punti di vista, senza andare in contro necessariamente a problemi di ordine fisico, psicologico e sociale.
Prenderemo adesso in esame le diverse teorie sul consumo di sostanze, partendo dal modello medico, che vede nell’uso di droghe sempre e comunque un “problema” o addirittura una “malattia”, fino ad arrivare alle teorie che concepiscono differenti modelli di consumo, seguendo le evidenze empiriche di cui abbiamo appena parlato, che dimostrano invece che l’uso di una droga non è definibile solo in termini di uso e astinenza, ma che, al contrario, questi non sono altro che i poli estremi di un continuum in base al quale è possibile distinguere diversi pattern di consumo, da quelli moderati fino a quelli dipendenti e problematici.
Questo concetto costituisce le fondamenta di tutte quelle ricerche, e anche di questa, che vogliono indagare il ruolo delle credenze, delle aspettative, delle motivazioni e di tutti gli altri fattori che possono influenzare il consumo delle sostanze, ed in particolare, come nel nostro caso, della cannabis. Infatti, solo all’interno di una prospettiva che vede l’uso di sostanze come un continuum, all’interno del quale si possono “posizionare” diversi stili e pattern di consumo, è possibile studiare le differenze tra i consumatori.
.......Il problema legato alla distinzione delle cause dai sintomi, diventa molto sottile quando si parla dell’uso di marijuana. Nei paesi più poveri, ad esempio, molte persone, esse4ndo affamate, malate e disperate, possono cercare di rendere la realtà meno insopportabile attraverso l’uso della sostanza.
Anche nella nostra società, di solito, i forti consumatori sono annoiati, depressi, cinici, indifferenti, alienati o ribelli (Grinspoon e Bakalar, 1995). Ora, certamente a volte può essere la droga a determinare certi stati d’animo negativi, ma molto spesso questi sono il risultato dei tratti della personalità dell’assuntore che conducono all’abuso di sostanze.
Block e Block (1980) in un loro studio, che aveva come scopo indagare la possibile relazione tra caratteristiche psicologiche e uso di droghe, seguirono un gruppo di soggetti, tutti appartenenti all’area di San Francisco, partendo dal periodo in cui frequentavano l’asilo nido fino alla prima adolescenza e ebbero modo di riscontrare numerose relazioni tra le caratteristiche psicologiche valutate nell’infanzia e l’uso di droga nell’adolescenza.
Shedler e Block nel 1990 ripresero questa ricerca, studiando di nuovo, ma nella tarda adolescenza (cioè quando i soggetti avevano raggiunto i 18 anni) gli stessi soggetti. Nell’articolo “Adolescent drug use and psychological health” gli autori intendevano indagare ancora la relazione tra uso/astensione dalla droga e presenza/assenza di specifici tratti e caratteristiche personali, in questo campione composto da 101 soggetti (49 maschi e 52 femmine) al diciottesimo anno di età, quasi tutti appartenenti ad ambienti urbani ed eterogenei rispetto alla classe sociale di appartenenza e al tipo di educazione ricevuto dai genitori.
Lo studio misurava il livello di coinvolgimento nell’uso di droga, attraverso interviste individuali, in cui venivano poste domande riguardanti il livello di scolarità, la qualità e quantità di relazioni con i pari, le dinamiche familiari, gli interessi personali ecc.. Inoltre ai soggetti veniva chiesto se avevano mai assunto marijuana (se fumata o assunta in altre forme) e, in caso affermativo, se ne avevano fatto uso una o due volte al massimo (punteggio=1), poche volte (=2), una volta al mese (=3), una volta a settimana (=4), due-tre volte a settimana (=5) o almeno una al giorno (=6). Inoltre, è elencata una lista con altre sostanze (inclusi inalanti, cocaina, allucinogeni, anfetamine, barbiturici, tranquillanti, eroina o altro) in cui soggetti dovevano indicare di quali avevano fatto uso almeno una volta.
In base al punteggio ottenuto dai diversi soggetti, vennero creati tre gruppi di confronto non sovrapponibili:
- astinenti;
- consumatori moderati e “sperimentatori” di canapa;
- consumatori frequenti di canapa e che usano più di una droga.
Oltre a misurare il livello di coinvolgimento nell’uso di marijuana, viene effettuata una valutazione della personalità dei soggetti attraverso il CAQ (California Adult Q-sort; creato da Block nel 1961), un questionario che da una valutazione della personalità globale attraverso 100 dichiarazioni che ne descrivono tutti i tratti principali (punteggio=1 se la dichiarazione non caratterizza per niente il soggetto fino ad un punteggio=9 nel caso in cui la dichiarazione caratterizzi appieno il soggetto).
Lo studio prende anche in considerazione le valutazioni di personalità dei soggetti, compiute nello studio di Block e Block del 1980, effettuate quando essi avevano 7 e 11 anni (attraverso l’uso del CCQ-California Children Q-sort) e le misurazioni della qualità delle relazioni madre-bambino e padre-bambino (qualità del “parenting”) sempre effettuate dagli stessi studiosi quando i soggetti avevano 5 anni.
Vennero così correlati il livello nel coinvolgimento nell’uso di marijuana, le caratteristiche di personalità dei soggetti (sia a 18 anni che da bambini) e la qualità del parenting, con lo scopo principale di dimostrare che le differenze psicologiche tra i consumatori frequenti di marijuana, gli sperimentatori (presi come gruppo di riferimento perché rappresentavano la maggior parte del campione) e gli astinenti, possono essere tracciate a partire dai primi anni dell’infanzia e correlate alla qualità della relazione avuta con i genitori in quel periodo.
Inoltre i ricercatori intendevano provare che il problema dell’uso di droga è un sintomo e non una causa di un cattivo adattamento personale e sociale durante l’adolescenza e che quindi, il significato dell’uso di droga, può essere compreso soltanto se si considera la struttura di personalità dell’individuo e il suo percorso di sviluppo.
I risultati della ricerca confermarono le ipotesi di Shedler e Block mostrando, ad esempio, che i consumatori regolari, assai prima del contatto con la droga e addirittura prima dell’adolescenza, presentavano già svariati sintomi di sofferenza emotiva inquadrabili in una sindrome coerente caratterizzata da alienazione, impulsività e stress sociale. Infatti, sia nella valutazione di personalità effettuata all’età di 18 anni che in quella compiuta all’età di 7 e 11 anni, emergono sempre le stesse caratteristiche tra cui intolleranza alle piccole frustrazioni, ostilità verso gli altri e mancanza di relazioni strette e profonde con i coetanei, bassi livelli di socievolezza.
Gli astinenti, invece, emergono, rispetto agli sperimentatori, come adolescenti (o bambini) fastidiosi, conservatori, conformisti, moralisti, ipercontrollati, emozionalmente costretti, ansiosi e non socievoli, tutti elementi raggruppabili, secondo il CAQ, in tre fattori principali: alienazione interpersonale, ipercontrollo degli impulsi stress psicologico e sociale.
La ricerca dimostra quindi che l’uso di droga, da parte dei consumatori frequenti(e quindi problematici) non è la causa dei problemi psicologici e sociali dell’adolescente ma, al contrario, ne è un sintomo. Infatti i consumatori frequenti, proprio perché incapaci di investire energie nelle relazioni interpersonali, nella scuola e nel lavoro, si sentivano infelici e inadeguati al punto di isolarsi progressivamente dagli altri. Lça mancanza di interesse e coinvolgimento nei diversi ambiti della vita innesca, secondo gli autori, una mancanza di stabilità emotiva e di progettualità «che aumenta la salienza di un agire che si basa su stati soggettivi momentanei. La droga attrae questi adolescenti proprio perché è in grado di alleviare, almeno momentaneamente, i sentimenti di isolamento, di inadeguatezza, d’incapacità di conseguire delle gratificazioni più significative e durature» (Ravenna, 1997).
Il risultato più importante che emerge da questo studio è il fatto che il secondo gruppo di soggetti, quello degli sperimentatori, è il gruppo più adattato socialmente e psicologicamente, ovviamente rispetto ai consumatori frequenti ma, cosa ancora più interessante, rispetto agli astinenti. Shedler e Block sottolineano l’importanza di considerare il significato dell’uso di droga e in questo caso di marijuana, nella cultura dei pari durante l’adolescenza. per poter comprendere il motivo di questo risultato. Negli Stati Uniti, dicono gli autori, i due terzi della popolazione adolescenziale, ha fatto uso di marijuana almeno una o due volte.
Questa prevalenza molto alta del consumo della sostanza è la manifestazione più evidente della sua accettazione nella popolazione giovanile: il fumare cannabis quindi non può essere considerato un comportamento deviante all’interno della nostra cultura e ancor di più all’interno delle sub culture giovanili di oggi. Considerando che l’adolescenza è un periodo di transizione e di profonda trasformazione sia dal punto di vista fisico e biologico che da quello sociale e relazionale: è il periodo in cui l’individuo cerca di distaccarsi dalla famiglia di origine ricercando una propria identità personale indipendente da essa. Questa ricerca delle propria identità si manifesta con l’esplorazione e la sperimentazione di esperienze e comportamenti sempre nuovi che spesso implicano un mettersi alla prova testando i propri limiti.
Questi comportamenti, come l’uso di droga e soprattutto di marijuana anche se sovente implicano un’assunzione di rischio, sono fondamentali ai fini dello sviluppo (Erikson, 1968) e quindi, durante l’adolescenza, vanno considerati comportamenti normali.
Questo studio, come altre ricerche precedenti (ad esempio Hogan, Mankin, Conway e Fox, 1970) mostrano che i consumatori moderati di marijuana, rispetto a quelli problematici e agli astinenti, sono più abili nelle relazioni sociali, sviluppano più interessi, sono più curiosi, avventurosi e in generale più portati a condividere esperienze e sentimenti con i coetanei.
Anche Bentler (1987) in una sua indagine riscontrò una piccola ma significativa relazione positiva tra un uso moderato di marijuana e lo sviluppo di concetto di sé positivo.
Un’altra importante conclusione dello studio di Shedler e Block è quella che la relazione tra uso di marijuana e salute psicologica non è una relazione lineare ma, a quanto risulta dall’analisi delle correlazioni, mista. Cioè, per quanto riguarda la relazione tra il livello di consumo di marijuana e il controllo degli impulsi, si tratta di una relazione lineare (quindi i consumatori frequenti hanno punteggi più alti rispetto agli sperimentatori in quanto ipocontrollati, mentre gli astinenti, risultando ipercontrollati, avranno punteggi significativamente più bassi) mentre, per quanto riguarda quella con la qualità delle relazioni interpersonali e lo stress psicologico e sociale, si tratta di relazioni a forma di “U” o di “U” inversa (cioè sia i consumatori frequenti che gli astinenti risultano avere entrambi punteggi significativamente maggiori o minori rispetto agli sperimentatori).
Infatti, secondo quanto sostenuto dal paradigma disease, essendo la relazione tra salute psicologica e livello d’uso di droga una relazione lineare, si ipotizza che anche la sperimentazione occasionale è psicologicamente problematica, anche se meno del consumo regolare. Al contrario, secondo Shedler e BlocK (così come per Newcomb e Bentler), tale relazione, non essendo lineare, comporta che il gruppo che manifesta una miglior salute psicologica e un miglior adattamento sociale, sia quello degli sperimentatori. Tale migliore salute psicologica si spiega, secondo gli autori, in riferimento al setting (cioè al significato del consumo di droga all’interno della cultura dei pari) e alla psicologia dello sviluppo degli adolescenti.
IL CONSUMO DI SOSTANZE COME ADATTAMENTO DISFUNZIONALE E MECCANISMO MALEADATTIVO DI COPING
Come già accennato nel primo paragrafo di questo capitolo, il paradigma adattivo, che si oppone a quello medico, non interpreta l’abuso di droga come una sorta di “malattia” o di “patologia”, ma come il risultato del tentativo di far fronte a diverse situazioni, come compiti di sviluppo particolarmente impegnativi durante l’adolescenza, eventi stressanti o stati di disagio, attraverso l’uso di sostanze. I fondamenti teorici di questo orientamento sono rintracciabili nella teoria dello stress, in quella psicoanalitica ed evoluzionistica, in quella del ciclo di vita di Erikson e nei contributi più recenti proposti proprio dalla teoria dell’apprendimento sociale e dalle varie teorie cognitivo-comportamentali di cui abbiamo precedentemente parlato e che danno particolare rilievo al ruolo dei processi cognitivi (aspettative, credenze, distorsioni, attribuzioni) e situazionali rispetto a quelli disposizionali.
Idea di fondo dell’approccio cognitivista è che i processi del consumo e gli effetti percepiti delle diverse sostanze sono fortemente influenzati da fattori cognitivi-motivazionali come gli atteggiamenti, le aspettative e le credenze.
Chi si accosta alla sua prima esperienza col tabacco, sostengono Eiser e Van der Pligt (1988) dispone in genere di numerose credenze quali, ad esempio, quelle che il fumo rilassa, aumenta la concentrazione, aiuta a diminuire la tensione, è difficile da interrompere e a lungo termine pericoloso per la salute. Tali credenze, apprese dalle persone nell’ambito dei loro rapporti sociali, forniscono un repertorio di spiegazioni che consentono di interpretare e giustificare i loro comportamenti di consumo; quanto più esse sono positive, tanto più aumenta la probabilità che le persone possano iniziare o continuare a fumare, a bere o ad assumere droghe.
Distorsioni ed errori cognitivi, attese irrealistiche relativamente a se stessi e agli altri, razionalizzare o minimizzare il significato e la portata di determinati eventi o situazioni sono altri fattori che possono contribuire ad incrementare il coinvolgimento del consumo (Ravenna, 1999).
Come abbiamo già visto nei modelli descritti precedentemente, è frequente che gli individui attribuiscano le loro condotte a cause ritenute erroneamente cruciali. Ad esempio, se una persona si convince che la droga esplica una funzione per lei indispensabile, potrà avere forti resistenze ad interrompere il consumo e, nel caso in cui smetta, è esposto a notevoli rischi di ricaduta.
Oppure, come già accennato, è possibile che una persona decida di provare una droga perché si considera meno a rischio e più immune da eventuali conseguenze negative rispetto agli altri individui (ottimismo irrealistico), perché sopravvaluta le sue capacità (vedi la teoria dell’apprendimento sociale e il concetto di autoefficacia) pensando di poter facilmente controllare la propria abitudine, o perché sovrastima l’entità della diffusione di fenomeni di consumo nel proprio ambiente di vita (effetto del falso consenso). In tal caso la distorsione cognitiva incrementa gli attributi di normalità e di attrattività di una certa condotta rendendola più accettabile.
Gli studi sulla rappresentazione del rischio hanno ad esempio evidenziato che le persone non si basano solo sulla frequenza con cui si verifica un certo evento negativo per valutare un rischio, ma utilizzano numerosi altri elemento, come la sua incontrollabilità, la sua conoscenza ed i suoi effetti. Esse tendono ad agire in base alla loro percezione di pericolosità e cioè al modo in cui si rappresentano il rischio (Savadori e Rumiati, 1996).
Grazie agli studi realizzati in ambito cognitivista è stato possibile mettere in discussione la posizione del modello medico a proposito della dipendenza (vedi ad esempio Jellinek, 1960). I più importanti sono ad esempio quelli realizzati da Marlatt (1973), Marlatt e Rohsenow (1980), Mann, Chassis e Sher (1987), Marlatt, Stacy e Widaman (1990) che descriveremo ampiamente nel capitolo successivo, dove parleremo specificatamente delle implicazioni delle aspettative e delle credenze sul consumo di sostanze. E’ importante però sottolineare fin da ora che i risultati di questi e molti altri studi sull’argomento compiuti successivamente hanno dimostrato in modo univoco che molte delle conseguenze dell’alcol sul comportamento delle persone sono dovute più alle aspettative che esse hanno circa gli effetti della sostanza che non agli effetti farmacologici della stessa.
La consapevolezza di aver assunto alcol, induce a disinibire comportamenti piacevoli ma trasgressivi, fornendo una scusa per tutte quelle condotte che in altre circostanze sarebbero considerate inappropriate.
La dipendenza da sostanze è anche interpretata come l’effetto di “decision making”, in cui il soggetto valuta le implicazioni positive e negative di diverse linee di azione (West, 1989); ognuna di esse ha un livello di “utilità” quantificabile che riflette la sua desiderabilità e salienza. Nel caso in cui le diverse opzioni comportino delle conseguenze negative per il futuro, esse sono valutate in base alla probabilità (percepita) del loro verificarsi. Se i processi di decisione richiedono all’individuo di optare per una linea d’azione per lui desiderabile, rispetto ad un’altra molto meno attraente, è possibile che egli giunga a scegliere la prima, distorcendo o omettendo certi aspetti della seconda.
In tale prospettiva, i consumatori di sostanze, sarebbero individui che lavorano su costi e benefici del loro comportamento e che, di volta in volta, prendono decisioni che possono indurli a mantenere, intensificare o interrompere il loro rapporto con la droga. «I fattori che essi considerano sono molteplici: i rischi per la salute, l’intensità dei sintomi di astinenza, il grado di fiducia in se stessi, la capacità di tollerare il disagio, le pressioni esercitate da altri significativi, la saturazione di certi bisogni» (Ravenna, 1999). Il diverso grado di utilità attribuito ai vari elementi può spiegare le differenze di comportamento tra consumatori e le loro diverse reazioni di fronte alla droga.
IL MODELLO ADATTIVO DI ALEXANDER
Per Alexander (1990), principale esponente delle teorie adattive sull’abuso di sostanze, i consumatori di oppiacei diventano dipendenti non solo perché fanno uso di queste sostanze ma perché sperimentano stati di disagio particolarmente gravi e di lunga durata e non hanno a disposizione strategie meno distruttive della droga per farvi fronte (Ravenna, 1999).
L’addiction si origina a partire da una combinazione di eventi che determinano un fallimento nell’integrazione sociale, quando il soggetto non riesce a raggiungere o a mantenere un equilibrio tra certe caratteristiche personali e le richieste che gli sono poste dal suo ambiente di vita, come acquisire e utilizzare competenze sociali, raggiungere un buon livello di autonomia, assumere con successo certi ruoli, essere accettato e valorizzato, solo per citarne alcune.
Tale fallimento ha un ruolo cruciale nell’addiction, mentre l’esposizione alla droga ha solo la funzione di introdurre la persona a un particolare tipo di adattamento sostitutivo. Se tale fallimento nell’integrazione, che può essere parziale o totale, avviene durante l’adolescenza, (fase in cui l’individuo è impegnato a raggiungere un’identità stabile) e se si protrae nel tempo, può creare una situazione di crisi assai grave che lo espone ad esperienze di isolamento sociale, di depressione e, nei casi più estremi, al suicidio. Praticamente, secondo Alexander, il soggetto ricerca forme alternative di adattamento nel tentativo di evitare o di proteggersi da esperienze così dolorose e spesso insopportabili.
«L’addiction è un tentativo di adattamento fallito per l’instaurarsi di un circolo vizioso in cui la droga crea il bisogno di continuare e di incrementare le assunzioni. Il problema centrale dell’addiction non è dunque l’uso di oppiacei, ma la condizione di disagio che lo precede» (Ravenna, 1999).
Anche Bakalar e Grinspoon (1984) si riallacciano a questo concetto chiave sostenendo che «chi ricorre in modo consistente alla droga lo fa per tentare in qualche modo di ridurre tutti i problemi della vita ad uno solo, per non dover più operare delle scelte fondamentali e per non essere più implicato nelle vicissitudini emozionali della sua esistenza». Il ricorso alla droga crea una sorta di stabilità fittizia e lentamente uno stile di vita. Il potere della sostanza non è tanto la sua azione chimica ma «è soprattutto dovuto alla proiezione su di essa di qualità che sono proprie del consumatore».
Anche se sono state rivolte diverse critiche a queste teorie, soprattutto per la mancanza di verifiche empiriche sistematiche, vanno considerate fondamentali per il rafforzarsi dell’opposizione al paradigma disease. Questa opposizione nasce soprattutto dal fatto che un’esposizione anche prolungata alla droga non induce necessariamente addiction. Ad esempio, Alexander e Hadaway (1982) riportano numerosi esempi a sostegno di questa posizione, in particolare gli studi di Zimberg e Harding (1979) sull’uso controllato e la ricerca di Robins e collaboratori (1979) sui veterani del Vietnam Come abbiamo visto nel primo capitolo questi ultimi hanno dimostrato in modo inequivocabile che il consumo di eroina non induce necessariamente l’uso compulsivo o la dipendenza e che, anche nel caso in cui si sia verificata un’eventualità di questo genere, esse si è rivelata una condizione più reversibile di quanto comunemente si riteneva (Ravenna, 1997).
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