L’alcool (o etanolo) è una sostanza psicoattiva che come tale produce effetti sia a livello fisico che psicologico.
Nonostante le bevande alcoliche siano diverse tra loro per gusto, metodo di produzione (fermentazione o distillazione) e gradazione, l’etanolo è sempre uguale in ciascuna di esse e produce quindi i medesimi effetti.
L’alcolista che sostiene di non essere in pericolo perché non beve mai superalcolici è in errore, in quanto non esistono diversi tipi di alcool con diverse controindicazioni, non esistono bevande più o meno nocive: un litro di birra è molto più dannoso di un bicchierino di whisky.
Il metabolismo dell’etanolo avviene soprattutto a livello epatico da parte di alcuni enzimi presenti nel nostro corpo (non in quello dell’adolescente però, che deve ancora svilupparli) che scompongono la molecola principale in elementi più semplici. Il più importante di questi è sicuramente l’acetaldeide, tossico per il nostro organismo, che viene poi ulteriormente trasformato in acido acetico e successivamente, attraverso il ciclo di Krebs, scomposto in acqua e anidride carbonica.
Gli effetti dell’alcool si possono osservare già per modeste assunzioni: intorpidimento, rallentamento dei riflessi, sensazione di calore, euforia, distraibilità elevata e scarsa consapevolezza del pericolo.
Aldilà degli sensazioni che gran parte delle persone possono aver provato dopo un’assunzione esagerata di alcol, interessa qui soffermarsi su quei casi in cui l’abuso diventa continuativo e indispensabile per il soggetto: non più una serata di eccessi isolata dal contesto quotidiano ma la giornaliera necessità di superare il limite.
Nonostante i diversi tentativi di indicare le ragioni che portano alla dipendenza alcolica, pare essere sempre più chiaro il fatto che ogni soggetto ha la sua storia, ognuno cerca nell’alcool qualcosa di così personale e diverso che è difficile stabilire cause comuni.
Un importantissimo passo avanti è stato fatto (ed è ancora in corso) allorché la dipendenza alcolica ha cominciato ad essere considerata una malattia vera e propria e non un vizio: è da qui che ci si è potuti rivolgere con atteggiamento diverso rispetto al passato, tentando di comprendere le cause, le motivazioni, i fattori i rischio, che possono portare a questa patologia, non abbandonando a sé stesso chi ne soffrisse, come se fosse egli stesso causa del suo male.
Facendo riferimento alla psichiatria ci sono alcune patologie che paiono più predisponenti ad un rapporto insano con l’alcool: i disturbi affettivi (depressione), la nevrosi isterica, i disturbi d’ansia, i disturbi di personalità (borderline, antisociale); e altre che paiono essere invece più distanti: la schizofrenia fra tutte. In questi casi si parla quindi di alcolismo secondario: esso insorge in seno ad un'altra patologia che deve quindi essere affrontata prima di occuparsi della dipendenza.
In assenza di patologie psichiatriche molte persone cercano nell’alcool quello che pare renderli più felici, cercando di compensare le mancanze sperimentate in alcune situazioni; altre possono anche utilizzarlo come mezzo di protesta (almeno inizialmente), per cercare di richiamare attenzione su di sé o per trasmettere una richiesta di aiuto che altrimenti non saprebbero inviare.
Da queste situazioni, e da moltissime altre, è facile cadere nel vortice della dipendenza, dove non si è più in grado né di decidere di smettere né di limitare l’uso della sostanza e tanto meno di chiedere aiuto.
La storia di abuso di molti alcolisti comincia magari con un evento drammatico che segna la loro vita rendendoli più fragili e incapaci di reagire: la perdita di una persona cara, del lavoro o una relazione affettiva finita male.
All’inizio l’eccesso può apparire il metodo migliore per dimenticare, per andare avanti nella vita quotidiana (ci sono molti etilisti che bevono al mattino prima di recarsi al lavoro perché credono così di avere l’energia necessaria), per prendersi una pausa dalla realtà.
A questo punto il soggetto è pienamente convinto di poter smettere quando vuole e può anche non nascondere il suo eccesso ai familiari, che spesso non si preoccupano, aspettando che il momento passi.
La convinzione più diffusa di chi si trova in questo stato è comunque che quello sia l’ultimo bicchiere, che in fondo la sua vita non pare essere così menomata dalle varie sbronze, che alla fine si riesce in ogni caso ad andare a lavorare, ad uscire per le commissioni, a far le faccende domestiche. È la fase degli autoinganni, della negazione del problema.
Con il passare delle settimane la quantità di alcool ingerita deve però essere sempre maggiore: non bastano più i due bicchieri di vino alla sera, ne servono altri anche al pomeriggio, e poi a pranzo, e anche la mattino.
L’alcool comincia a diventare un pensiero ossessivo, il pensiero dominante della giornata, ciò che accade attorno all’individuo sembra non essere più così importante, tutto ruota attorno alla ricerca della sostanza: è il primo pensiero al mattino, il primo della pausa dal lavoro, quando non si vede l’ora di fare una visita al bar lì vicino. È questo lo stato che può essere identificato come dipendenza psichica.
Aumentando le dosi (e la frequenza di assunzione) l’individuo comincia a perdere di vista alcune delle priorità giornaliere: si dimentica dei fatti importanti, fa fatica a recarsi al lavoro, i familiari cominciano a lamentarsi e di rimando egli comincia a nascondere il suo bisogno di alcool.
Alcuni sostengono che la dipendenza cominci proprio qui: quando si inizia a nascondere la bottiglia.
Altri, invece, sottolineano maggiormente la differenza che esiste fra bevitori “normali” ed etilisti: i primi berrebbero per ciò che la bevanda è, per il suo gusto, per il piacere magari di abbinarla ad un buon piatto; i secondi berrebbero per ciò che la bevanda fa, per i suoi effetti sull’umore, per le sue proprietà euforizzanti e ottundenti.
Aldilà degli aspetti più teorici risulta chiaro come gli alcolisti spesso si vergognino della loro condizione e tentino di celarla agli occhi altrui (ma sotto molti aspetti anche ai propri) e allo stesso tempo è un fatto provato che alcuni di essi sostengano di non amare per nulla l’alcol per il suo gusto e di non avere nessuna preferenza in merito a ciò che bevono, si tratti di vino, birra o superalcolici.
Procedendo nel proprio percorso, l’alcolista si trova sempre più solo, la famiglia comincia a diventare ipercritica nei suoi confronti, spesso si perde il lavoro ed ecco che l’unico sostegno pare essere di nuovo la bottiglia. L’alcol ha portato l’individuo ad una situazione precaria e dolorosa ma allo stesso tempo pare essere l’unico rimedio possibile.
Il soggetto comincia a comprendere di non poter smettere, si rende conto di non poter realmente risolvere i problemi usando l’alcool ma non è in grado di farne a meno.
Questa situazione crea un certo rapporto di odio-amore verso la sostanza, ma l’indifferenziazione dei rapporti affettivi, unita alla perdita di una visione critica, porta inevitabilmente l’individuo ad amare l’oggetto che oramai è diventato il suo confidente, “l’altro” con cui dialogare, e ad odiarlo allo stesso tempo, perché visto come possessivo e invadente.
Il bevitore adesso sa che ciò che sta facendo è sbagliato, ma non riesce a reagire; sa che deve smettere di bere e resistere alle tentazioni, ma appena si presenta l’occasione cede e ricade nell’errore; comprende di essere in pericolo di vita ma non afferra fino in fondo la sua posizione, ha una visione particolarmente superficiale e poco consapevole di sé stesso.
L’etilista conosce il suo obiettivo (l’astinenza) ma non si sofferma sui mezzi con cui perseguirlo, non è in grado di resistere al desiderio perché manca di una concreta pianificazione, di progettazione. Viene meno la capacità di aspettare e ogni bisogno (principalmente quello di bere) deve essere soddisfatto immediatamente: si tratta di un infantilizzazione, dove l’individuo non è più in grado di dominare la propria necessità e vuole tutto e subito.
Questo genere di comportamento si riflette però anche nelle relazioni interpersonali facendo si che i rapporti con gli altri diventino sempre più difficili e il dolore che deriva dal loro deterioramento peggiori la situazione psichica dell’etilista alimentando il senso di colpa che comunque l’individuo non può sostenere.
L’alcolista non può quindi che peggiorare la sua situazione, sia fisica che psichica, dal momento che la dipendenza non lascia più spazio a niente altro che non sia la sostanza: nessun tentativo autonomo (benché raro) di uscire da tale circolo vizioso ha esito favorevole perché manca la capacità di preparare e di sopportare una vita senza alcool.
La vita dell’alcool dipendente, a questo punto, è talmente impoverita che il proposito di smettere non è sufficiente: mancano gli strumenti per perseguirlo, la consapevolezza matura di malattia, la comprensione che è necessario sostituire la sostanza con qualcos’altro.
Da parte sua la famiglia inizialmente può ignorare il problema, scambiandolo con una crisi emotiva passeggera che il soggetto risolverà con il tempo, facendo finta di non vedere quel che sta accadendo: sia perché impreparata, sia per difendere la propria stabilità.
Successivamente invece, quando la dipendenza è oramai evidente, comincia una ricerca ossessiva delle ragioni per cui ciò è avvenuto e spesso si sente in colpa per non aver saputo evitare tale situazione.
Alternativamente ognuno dei componenti si fa carico della responsabilità del malessere del familiare cercando di modificare i propri comportamenti nella speranza di recuperare la passata serenità, controllando i propri atteggiamenti in modo quasi maniacale, cercando di prevenire con ogni mezzo la ricaduta alcolica e cadendo nello sconforto ogni volta che tali sforzi si rivelano inutili.
Col passare del tempo tali dinamiche logorano l’ambiente familiare che cerca di ristrutturarsi creando un nuovo equilibrio e si assiste ad una sorta di riorganizzazione della stessa, dove il ruolo dell’etilista viene ricoperto da un altro componente che ne fa le veci, isolandolo ulteriormente e suggerendo la sua inutilità.
Oramai il conflitto è aperto, il soggetto si sente insignificante e abbandonato, la famiglia sente di dover difendere il proprio stato e reagisce creando una nuova stabilità.
Raramente un soggetto alcool dipendente decide di farsi curare, più spesso sono i familiari a chiedere aiuto o i servizi sociali, che intervengono in quei casi in cui l’individuo abbia perso la casa e il lavoro.
Le cure prevedono in genere brevi periodi di ricovero in cui ci si occupa sia delle complicanze fisiche conseguite dall’abuso, sia dello stato psicologico del paziente.
Da quest’ultimo punto di vista, il tentativo mira in gran parte a far riconoscere al paziente la propria situazione, il pericolo che corre e soprattutto si cercano di fornire alcuni strumenti che possono aiutarlo a ristrutturare la propria vita senza la sostanza.
In primo luogo può essere utile indicare le difficoltà che inevitabilmente si dovranno superare, la necessità di sostituire l’oggetto-alcool con qualcosa d’altro e raccomandare un supporto che può essere fornito da psicologi, psicoterapeuti o da associazioni operanti nel campo (A.A., C.A.T….).
La cura da questo tipo di malattia non termina infatti una volta disintossicato l’organismo ma è un percorso faticoso e lungo che in un certo senso non finisce mai.
La possibilità di uscire dalla dipendenza può essere incentrata sul concetto di “interdipendenza”, dove con tale termine si intende la capacità di creare più rapporti con persone e attività che consentano si sostituire l’ “ossessione alcolica”.
Il soggetto viene spinto a costruire attorno a sé una rete, che lo protegga dalla tentazione di bere, costituita da occupazioni e bisogni che riempiano lo spazio che inevitabilmente l’alcool ha lasciato vuoto.
Di Amistà Elena
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