Da: Ricerca psicoanalitica, XII, 1, 2001, pp. 61-84
Spesso e volentieri negli ultimi decenni la Psicoanalisi è stata attaccata dall’epistemologia perché non rispondente ai canoni della “vera” scienza, fondata sull’osservazione, il metodo induttivo e la verifica empirica.
Ma la domanda che occorre porsi consiste nel chiedersi se questa sia la scienza o piuttosto uno dei modi per pensarla. Forse non esiste un unico e incontrovertibile concetto di scienza che valga per tutti i tempi e i luoghi e che pertanto sia assoluto. Piuttosto è più ragionevole pensare che esistano vari modelli di scienza che si avvicendano nella storia del pensiero e del costume (Kuhn, 1962). Secondo questa opinione, la scienza alla quale la Psicoanalisi si sarebbe dovuta uniformare, a detta del positivismo logico di Nagel e poi del neoempirismo di Gruenbaum, non è la scienza, ma un modello di scienza che nella storia dell’epistemologia è stato chiamato scientista. Questa posizione ha continuato ad esercitare la sua influenza non solo nell’ambito epistemico, ma anche nella cultura in generale, fino alla metà del nostro secolo. Questa concezione, definibile come scientismo, che rivendica legittimità scientifica soltanto alle “scienze dure” (fisica, matematica, chimica, biologia, ecc.), ha finito per svuotare di significato le Scienze umane , perché non empiricamente verificabili e al tempo stesso ha reso metafisiche le scienze della natura, nel momento in cui in esse ha depositato la verità assoluta. Il guaio è che non sia stata epistemicamente contemplata l’idea che la filosofia e la scienza fossero una cultura scientifica (Levine, 1987). Oggi possiamo criticamente chiederci con quale diritto e su quali fondamenti si è creduto che le scienze abitassero una zona franca, al di là delle coordinate culturali che delimitano un’epoca storica, con il risultato di attribuire solo alle Scienze della natura il monopolio della conoscenza. Ma la stessa filosofia e le stesse “soft sciences” sono state complici di questo “abuso” epistemico: esse hanno concesso molto alle “hard sciences”, facendosi condizionare dall’idea che fossero queste ultime a sapere tutto, delegando alle scienze il dominio della verità.
Con il tempo però è stata l’epistemologia stessa a demitizzare l’idea di una scienza pura e immacolata, incontaminata e assolutamente incondizionata. Così è caduto il miraggio di una scienza indipendente dal tempo, dalla storia e dalla complessità. Infatti, come asserisce Popper la scientificità di una disciplina non dipende dall’osservazione neutra dei dati e dal metodo induttivo, perché l’osservazione non è mai neutra, ma guidata dagli “a priori” e dai punti di vista dell’osservatore. In sostituzione Popper proponeva come garanzia di scientificità, comune ad ogni forma di conoscenza, le procedure di falsificazione di cui ogni teoria si dovrebbe dotare, sia essa appartenente alle Scienze della natura che alle Scienze umane. Per merito dell’epistemologia popperiana ci si riferì ad un’altra weltanschauung scientifica, che ricomponeva la scienza secondo un ordine unitario ( De Robertis, 1995, p.49 ). Pertanto, anche per impulso del popperismo, lo scientismo, in auge all’incirca fino al dopoguerra, è stato soppiantato da altri modelli di scienza rispetto ai quali il modello scientista detiene un valore eminentemente storico, non essendo più di rilevante riferimento nel panorama dell’epistemologia contemporanea .
La filosofia della scienza contemporanea, anche se nei suoi molteplici e differenti schieramenti, ritiene insostenibile l’approccio corrispondentista che la filosofia occidentale ha sostenuto ( Maturana e Varela, 1980 ) almeno fino alla metà del nostro secolo. L’approccio corrispondentista riponeva fede nella “vera” conoscenza fondata sulla corrispondenza tra il pensiero e una presunta realtà esterna, posta “là fuori”, alla quale il pensiero aderisce ( De Robertis,1997). Si è molto discusso in che misura una simile concezione della conoscenza rinvii a concetti di Verità, Valore, Realtà, concepiti in modo assoluto e con carattere essenzialistico ( Rorty, 1979 ). Sicuramente la Psicoanalisi deve esibire le sue credenziali scientifiche; da questo punto di vista la critica degli epistemologi dagli anni ’50 ad oggi ha prodotto un effetto salutare. Il punto fondamentale è che nella ricerca di uno statuto scientifico la Psicoanalisi si allinei ai parametri di un’epistemologia ad essa contemporanea e non si allei con un’epistemologia scientista o corrispondentista che sta più in soffitta che sul mercato ( De Robertis e Tricoli, 1997 ).
Ma al di là di certe querelles non del tutto spente tra scienze della natura e scienze umane, oggi si assiste ad una caduta di demarcazioni scientifiche tra scienze “dure” e scienze umane nel momento in cui la pretesa di verità certe e inconfutabili, che caratterizzava le scienze “dure” e gli conferiva il ruolo di scienza, è venuta a cadere. Da ciò è conseguita una perdita di credibilità di quel concetto di oggettività che era l’espressione di una malcelata aspirazione metafisica verso il possesso dell’”assoluto”, e un conseguente spostamento verso il relativismo. Secondo quest’ultima prospettiva non esistono principi universali di razionalità che permettono di classificare e giudicare vera in assoluto e una volta per tutte una proposizione scientifica. La realtà non è preconfezionata nella conoscenza, non è oggettivamente data , ma è funzione dell’osservatore e del contesto , ossia dipende da come viene concepito il mondo e non da come il mondo è.
Stando così le cose è più opportuno considerare il vero ciò che permette di conseguire un valore cognitivo (Stich) e ritenere che la verità stia in ciò che “funziona” (Peirce). Viene proposto dunque un concetto di verità non ontologico, ma funzionale, un concetto non caduco, ma ridimensionato, secondo il quale la verità scientifica sta nel suo valore d’uso utile all’azione. Goodman e Quine, pur riferendosi a posizioni teoriche diverse, concordano nel respingere la concezione della scienza modellata sulla struttura assiomatica della matematica, modello che i positivisti avevano importato nella filosofia della scienza. Diversamente si va pensando che gli strumenti scientifici vengano confezionati con i valori, le credenze e le tendenze della società di cui gli scienziati fanno parte; le esperienze scientifiche non nascono “in vitro” o dal nulla, ma costruiscono mondi a partire dai mondi che l’esperienza prescientifica fornisce.
Il re del Siam, di cui Locke ci parla, riteneva il ghiaccio una cosa diversa dall’acqua, differentemente dagli europei per i quali l’acqua può presentarsi sotto forma solida o liquida. Allora, ne deduce Goodman (1983), la differenza è data dagli individui dai quali si origina il processo scientifico e non dalle proprietà dei sistemi all’interno dei quali gli individui si muovono. Ne consegue un’epistemologia per la quale la scienza è costruzione, nel senso che escogita una realtà che si adatti alla teoria: quando gli scienziati confermano le loro teorie attraverso la sperimentazione, in realtà hanno inventato metodologie e operazioni che ne comprovano la plausibilità.
Diversamente dall’idea che la realtà sia assoluta e oggettivamente osservabile, si fa spazio un’epistemologia “relativistica” fondata sulla considerazione che un osservatore, in connessione con il suo campo di osservazione, lo modifica mentre l’osserva.. Perciò, cambiate le mode epistemiche, il primato per cui rivaleggiano oggi le teorie non è la loro supposta verità, ma ben altro: ciò che preme è la loro capacità di fornire spiegazioni circa un determinato ambito di fenomeni e il loro successo nel prevedere eventi fino a quel momento sconosciuti. Guardando più a fondo, le conclusioni relativistiche a cui approda oggi l’epistemologia convergono con la filosofia ermeneutica che, in qualità di scienza dell’interpretazione, suggerisce che le teorie scientifiche sono il prodotto di un atto interpretativo effettuato sulla realtà. Perciò la scienza attuale non contrae pretese ontologiche, ma si calibra su finalità interpretative. Questo orientamento ha potuto creare tra scienza ed ermeneutica una disposizione condivisa, che, al di là degli specifici disciplinari, ne ha accorciato i distanziamenti.
La vicinanza tra pensiero scientifico e pensiero ermeneutico è assai importante ai fini delle costruibilità di un discorso scientifico all’interno della Psicoanalisi, perché a me sembra l’unica strada percorribile affinchè la Psicoanalisi acquisti scientificità , senza dover rinnegare la sua natura interpretativa.
Infatti questo breve excursus sulle attuali proposte dell’epistemologia non era finalizzato a sottolineare l’evoluzione delle idee nella filosofia della scienza. Piuttosto è un modo per comprendere le esigenze e le possibilità che oggi, proprio al contrario di ieri, grazie ad un diverso pensiero che abita l’epistemologia, possono rendere scientifica la Psicoanalisi e possono permettere di parlare a pieno titolo di un’epistemologia psicoanalitica.
In epistemologia la virata costruttivista che vede nella scienza costrutti interpretativi e non rispecchiamenti della realtà, ha una ricaduta eccellente sulla Psicoanalisi, perché abbatte le pregiudiziali di tipo scientista che tenevano la Psicoanalisi fuori dai confini della scienza.
Le matrici e gli orientamenti relazionali e costruttivisti, che per varie traiettorie e “scuole” sono entrati negli ultimi anni nella Psicoanalisi, attestano che finalmente all’interno delle teorie psicoanalitiche si stanno applicando parametri conoscitivi in linea con le attuali formulazioni epistemologiche. Proprio su questo avvicinamento, a mio avviso, può fondarsi un’epistemologia psicoanalitica più rispettabile, diversa da quella che la Psicoanalisi ha maldestramente proposto, facendo propria una concezione del sapere spaccata tra scienze “dure” (le “vere” scienze) e scienze umane (le “pseudo-scienze” o “metafisiche”).Vivere il discorso all’interno di questa spaccatura ha fatto sì che la Psicoanalisi, ora secondo certi autori, Freud in testa, si proclamasse scienza della natura , e ora, secondo altri, si proclamasse scienza umana, sotto forma di ermeneutica.
A questo punto vorrei riprendere il discorso sulla crisi dell’oggettivismo nella scienza. Tanto il positivismo quanto il positivismo logico e anche la forma che oggi ne sopravvive sotto il nome di neoempirismo, hanno considerato la scientificità fondata su ciò che esiste nella realtà, ossia fondata sull’ontologia. Da ciò è derivata l’importanza della verifica empirica. Ma dopo la crisi di questo modello di scientificità cosa s’intende oggi per verifica scientifica, se quella empirica poggiava su un’epistemologia ormai dai più contestata? Oggi viene proposto che la convalida di una scienza, avviene sul piano linguistico. Ciò vuol dire che le argomentazioni della filosofia della conoscenza passano per il piano della discorsività e della matrice sociale del linguaggio: in altri termini
le teorie scientifiche dipendono dal contesto sociale, intendendo con questa parola la comunità degli scienziati operanti in quel dominio.
Anche la svolta sociologistica che si è prodotta negli USA a partire dagli anni ’60, ha contribuito alla diffusione dell’opinione che il carattere intrinseco di verità o falsità attribuibile ad una teoria scientifica consiste nell’accettazione da parte della comunità scientifica (Kuhn, cap. V, 1962).
Il passaggio è importante perché apre la scienza all’idea di condivisibilità sotto forma di controllo e verifica intersoggettiva. La verità scientifica poggia essenzialmente sull’accordo della comunità scientifica che a sua volta è essa stessa socialmente e culturalmente connotata. Chiedendoci se la verità poggia soltanto su una certezza interiore oppure su un’opinione condivisa, possiamo rispondere che la verità non è definibile solipsisticamente, ma in qualità di realtà intersoggettiva e bene comune.
In epistemologia un ulteriore contributo alla crisi della conoscenza oggettiva è stato fornito dall’approccio prospettivista. Il prospettivismo sollecita a pensare che la verità è relativa al ristretto settore di “oggetti” a cui una proposizione si riferisce e tali “oggetti” costituiscono sempre aspetti parziali della realtà (Agazzi, 1994). Le cose sono colte sotto un “certo” punto di vista per il fatto che ogni enunciato scientifico intenziona la realtà, ritagliandosi un dominio di cui indaga solo talune variabili. Non si può assolutizzare ciò che è solo un possibile sguardo sul mondo, così il valore probabilistico della conoscenza (Hutten) suggerisce di trattare l’enunciato teorico con valenza operativa e funzionale.
Il superamento del corrispondentismo ha permesso di avvicinare incredibilmente l’epistemologia e la filosofia della mente alle discipline psicologiche, proprio per il fatto che il problema della conoscenza è stato impostato non più in termini di rispondenza tra il pensiero e la realtà, ma in termini di processi di conoscenza in riferimento alla mente.
L’attuale sviluppo di questa prospettiva è oggi rappresentata dal costruttivismo sociale; esso esprime, al pari di altri orientamenti, un elemento condiviso dalla cultura epistemica e dagli studi sulla conoscenza a partire dal dopoguerra: il rifiuto di un’epistemologia realista per la quale la realtà che è unica e si trova “là fuori” non aspetta altro che essere colta così, a disposizione della comprensione umana. In opposizione al fatto che la realtà è oggettivamente colta e recepita, si suggeriva l’idea che la realtà sia interpretata e costruita. Gergen, padre del movimento, divulgò la formula secondo la quale l’impresa conoscitiva è un’impresa sociale (Gergen, 1982; Gergen e Davis, 1985). perché attraverso la partecipazione sociale il significato personale è reso pubblico e condiviso cosicchè le realtà costruite dagli individui costituiscono delle realtà sociali, negoziate in relazione agli altri. Il mondo “costruito” in cui si vive non è né dentro, “nella testa”, né fuori secondo qualche interpretazione “paleopositivista” ; piuttosto tanto la mente quanto il Sé fanno parte di questa realtà “distribuita” (Bruner, 1990).
Se la realtà intrapsichica del soggetto è il risultato di numerosi processi di costruzione, negoziati attraverso il veicolo dell’interattività culturale, la partecipazione dell’uomo al suo ambiente esterno, in altri termini alla sua “cultura”, e la realizzazione di se stesso attraverso questo ambiente, o questa “cultura”, rendono impossibile la concezione di una teoria psicologica con base puramente individuale. Come deducibile da questi enunciati, il costruttivismo sociale, che informa l’attuale psicologia e che è un’ottica emergente in Psicoanalisi, è una concezione sociale e non empirista della conoscenza, perfettamente solidale con gli assiomi di base delle epistemologie attualmente dominanti. Infatti pensare alla conoscenza in termini di costrutti sociali significa avere lasciato andare l’idea della conoscenza come corrispondenza tra mente e realtà, per abbracciare l’idea che la conoscenza è il frutto di una costruzione condivisa da una molteplicità di soggetti sulla base della collettività sociale. Infatti il costruttivismo sociale piuttosto che adeguarsi alla realtà (oggettivismo assoluto) o, all’estremo opposto, crearla (relativismo radicale), la interpreta (relativismo moderato) sulla base di un linguaggio socialmente condiviso. Quando viene affermato che la conoscenza non si produce tra mente e realtà, ma tra mente e linguaggio, il linguaggio occupa il ruolo di matrice mentale della conoscenza.
A questo punto ciò che interessa la nostra indagine consiste nel verificare la rispondenza tra i postulati dell’epistemologia e della filosofia e anche della psicologia, finora illustrati, e le svolte concettuali effettuate negli ultimi anni dalla Psicoanalisi.
La dimensione relazionale che connota oggi larghe fasce della Psicoanalisi ha trasformato i processi intrapsichici da intrapersonali ad interpersonali. Queste posizioni sono in linea, anzi riflettono, non solo la dimensione sociale espressa da quella forma di filosofia sociale che è il costruttivismo, ma anche l’antirealismo conoscitivo che marca le attuali epistemologie.
Partecipi di queste tematiche, in qualità di analisti è opportuno chiedersi quali referenti epistemici ci siano dietro la considerazione che la realtà del paziente non si colga come se fosse lì, al di là del terapeuta, oggettivamente data, ma si costruisce in un lavoro collettivo e dialogico (ermeneutico) tra paziente e analista. Questa posizione presente oggi in Psicoanalisi è solidale con una concezione non corrispondentista e non obbiettivista della conoscenza, nell’ottica largamente condivisa dalle più autorevoli voci della filosofia della scienza, per la quale il sapere non è “preso”, ma socialmente interpretato e costruito. Un’ulteriore prova dell’avvenuta vicinanza tra i postulati dell’epistemologia e le riflessioni della Psicoanalisi sta nella grande attualità del discorso sulla “costruzione”. Infatti l’attività clinica viene concepita non tanto una ricostruzione della storia del paziente e dei suoi svolgimenti secondo la logica della corrispondenza, ma soprattutto una costruzione in atto durante la stessa narrazione, all’interno del “dire a”. Nell’epistemologia psicoanalitica si fa spazio l’idea per la quale gli enunciati dell’interpretazione, al pari degli enunciati delle altre scienze, non pretendono di porsi come “spiegazioni” del mondo, ovvero della realtà del paziente, ma come “costruzioni” ( Ambrosiano, 1998, p. 41 ).
La correzione che la Psicoanalisi postmoderna esercita su quella classica ha come asse il concetto di relazione. L'introduzione del termine relazionale ha significato includere nell'intrapschico - che rimane pur sempre la dimensione esclusiva – il parametro sociale, considerato una categoria della mente.
Da queste brevi note risulta evidente quanto l’approccio relazionale in Psicoanalisi sia debitore, e al tempo stesso partecipe, dell’orientamento che connota in maniera specifica la filosofia della scienza e il sapere del tardo novecento. Infatti l’evento che ha accorciato le distanze tra la Psicoanalisi e le epistemologie contemporanee è stata la “rivoluzione relazionale”. Analizzando il concetto di relazione, le sue implicazioni e il suo impiego clinico, ci si accorge che questo approccio è inseparabile dai concetti epistemico-filosofici a noi contemporanei.
Dai tempi della “svolta relazionale” degli anni ’80, che ha sostituito al paradigma della pulsione il paradigma della relazione, l’epistemologia di fondo della Psicoanalisi e i presupposti che informano la sua teoria della conoscenza sono diventati via via più in linea e più consoni con gli attuali concetti dell’epistemologia, della filosofia, della filosofia della mente, della filosofia sociale, ecc..
Testimonianze di queste rispondenze sono accertabili nel filone del costruttivismo sociale che ha i suoi rappresentanti più di spicco in Gill, Hoffman, Schwaber, Aron e recentemente anche in Lichtenberg, in quello intersoggettivo rappresentato da Stolorow, Atwood, Brandschaft, Orange, Burke e altri, in quello interpersonale portato avanti da un capo “storico” come Levenson, nella “two person psychology”, nel concetto di sistema diadico, nel bipersonalismo, nel concetto di “campo analitico” che connota una larga fetta della Psicoanalisi italiana (Balsamo, Napolitano, Chianese, Ferro, ecc.), e , per concludere, presente in tutti quegli autori che sono variamente assimilabili sotto l’estesa dizione di “relational track”. Sono queste le correnti che più si sono impegnate a riflettere sui referenti epistemici alla base del cambiamento di paradigma o del cambiamento di programma di ricerca che si è prodotto nel passaggio dal tracciato pulsionale a quello relazionale. La riflessione operata da alcune “postazioni” psicoanalitiche, non a caso le più critiche e aperte, ha approfondito i referenti epistemici del nuovo paradigma e la ricaduta che tali concetti producono nella prassi clinica. Mi soffermerò brevemente nell’evidenziare in che misura i referenti epistemici che si trovano a monte del concetto di relazione e del suo uso clinico prospettano un modo alternativo di concepire la realtà. Per realtà mi riferisco alla realtà dell’analista, del suo lavoro con il paziente e naturalmente anche alla realtà del paziente. Si tratta di frantumare l’idea che l’analista sia lo specchio neutro o lo schermo bianco della realtà del paziente, una credenza tipica di un concetto della conoscenza corrispondentista e assolutistico che attesta anche la natura asociale dell’esperienza psichica del paziente. Per lungo tempo la Psicoanalisi ha coltivato l’idea di un analista che non entra in relazione e che, in qualità di osservatore neutrale, ritiene pretestuosamente di essere in grado di restituire la realtà del paziente non solo per quella che è, ma anche rigorosamente prescissa dalla propria. Fa da contraltare a questa concezione il ruolo simmetrico di un paziente, altrettanto isolato e asociale, nella misura in cui non vede l’analista , ma, come se quest’ultimo non esistesse , riversa su un telone bianco proiezioni e deformazioni rigorosamente proprie. Uno che proietta tutto, l’altro che non proietta niente, cosicchè a ben vedere la logica del sistema è la stessa: ogni membro viaggia per conto proprio, finendo per ritrovarsi entrambi, con buona pace della teoria di riferimento, fuori dalla relazione.
La revisione critica di questa impostazione ha portato a correggere ilconcetto di transfert, il quale non nasce nel vuoto relazionale, ma viene costruito dal paziente, maneggiando delle inferenze plausibili basate su qualche indizio disseminato consciamente o inconsciamente dall’analista (Eagle, 2000), perché l’analista non è un osservatore neutro, ma ci mette del proprio. Insomma il transfert del paziente non è esente dalle influenze del transfert dell’analista e viceversa. In egual modo l’interpretazione dell’analista non è il risultato dell’osservazione di un oggetto univoco e ontologicamente dato, come di fatto veniva epistemicamente considerato il paziente nel transfert classico, ma è l’esito di un intreccio, di un sistema fatto di una rete sociale di cui l’analista fa parte in qualità di decodificatore partecipante. Proprio come è stato sgretolato il mito della conoscenza vera e assoluta (Putnam, 1984), sostenere l’indivisibilità tra osservatore e osservato è operazione utile ad abbattere il mito dell’oggettività dell’analista, mito che è servito ad alimentare le aspirazioni di autoidealizzazione proprio del terapeuta (Renik,1995).
A monte di questi nuovi discorsi, che solo abbastanza di recente la Psicoanalisi ha intrapreso, occhieggiano le nuove acquisizioni epistemiche che hanno aperto gli occhi su quanto non fosse più rispondente parlare di transfert e controtransfert e risultasse più consono parlare di due transfert: quello del paziente e quello dell’analista, in riferimento al sistema intersoggettivo d’influenza mutua e reciproca (Orange et all., 1997). Come del resto ho già menzionato, l’idea che l’osservatore sia dentro un campo di relazioni e dunque vi copartecipi modificandone le coordinate, è un’idea vecchia e non certo di copyright psicoanalitico. Del resto fu l’autorità di Hume a cominciare a infonderci il sospetto che ciò che la scienza pretende sia una legge iscritta nella natura, come ad esempio la causalità, altro non è che costruzione del nostro intelletto, fondata su abitudini psicologiche. Da Hume in poi, il principio di Heisenberg, le osservazioni su campo dell’antropologia, compresa gran parte del pensiero epistemologico del dopoguerra, si va facendo strada l’idea che l’osservatore, non essendo tale, non restituisca una lettura neutra della realtà, ma modellata in base al proprio pensiero e contestualmente al pensiero che mutua dalla rete storico- sociale.
Se l’osservatore è dunque entro il campo di osservazione e di conseguenza vi copartecipa, è gioco forza che l’analista produca una realtà che costruisce insieme al paziente L’idea di cocostruzione non ha affatto l’intenzione di disconoscere il valore e la portata della storia individuale. Il concetto di cocostruzione tende piuttosto a non tenere distaccata con mezzi artificiosi l’esperienza del paziente dalle variabili di personalità dell’analista e ribadisce la vicinanza sociale sotto forma di ricadute o ripercussioni che la partecipazione inconscia e la soggettività dell’analista (Fosshage, 1995), altrimenti detta “partecipazione osservata” e “partecipazione controtrasferale” (Hirsch, 1996)esercita. La considerazione che la Psicoanalisi ha fatto proprio il concetto socio-psicologico, filosofico e epistemico di socialità distribuita insieme ai concetti di un’epistemologia non fondazionista, ma relativista, ha impresso all’interno del lavoro analitico notevoli mutamenti. Ad esempio le nuove acquisizioni epistemico-filosofiche hanno fatto sì che non fosse più rispondente parlare di transfert e controtransfert e che risultasse più consono parlare di due transfert: quello del paziente e quello dell’analista in riferimento al sistema intersoggettivo d’influenza mutua e reciproca ( Orange et all., 1997). In modo analogo è stato abbattuto il mito dell’oggettività dell’analista, un mito responsabile di aver negato l’indivisibilità tra osservatore e osservato.
Ritornando al discorso sui rapporti tra epistemologia e psicoanalisi, non mi pare azzardato ammettere che all’origine delle nuove revisioni critiche prodotte in ambito psicoanalitico sono individuabili le filosofie della scienza che vedono nell’atto del conoscere un’interpretazione o costruzione della realtà. La rilettura del transfert, la riformulazione del controtranfert, l’entrata del concetto di cotransfert, il tema dell’enacment, le problematiche relative all’anonimato o all’autosvelamento dell’analista ne sono la testimonianza più diretta e verificabile. Tutto questo si è tradotto anche in un riformismo delle tecniche, ai fini d’impiegare strumenti di lavoro più consoni con il modello relazionale: perciò accanto alle libere associazioni, all’interpretazione, all’astinenza, strumenti per certi versi costruiti in rispondenza al modello pulsionale e unipersonale, si fanno spazio concetti tecnici più consoni al modello relazionale, fondati sulla costruzione, la negoziazione reciproca, la transazionalità, il contenimento, la sorpresa, ecc..
Queste revisioni attestano che le proposte psicoanalitiche più attuali partecipano ad un pensiero definito antiessenzialista che connota i costrutti epistemologici dei nostri tempi e testimoniano in che senso i parametri conoscitivi delle attuali epistemologie vengano applicati nel vivo delle conoscenze che l’analista fa del paziente.
Concludendo, con il presente lavoro si è cercato d’illustrare in che misura gli orientamenti psicoanalitici dominanti abbiano adottato parametri di riferimento in comune con l’epistemologia e le scienze affini, rompendo il solipsismo epistemico, in base al quale la Psicoanalisi per troppo tempo ha indebitamente creduto di poter fare “per conto suo”. Questo avvicinamento concettuale tra Psicoanalisi, epistemologia e scienze limitrofe attesta una condivisione concettuale nella quale, a mio parere, può risiedere la scientificità della Psicoanalisi. Ma è bene sottolineare in che misura questo avvicinamento, e di conseguenza questa scientificità, è stata favorita dall’entrata in campo del concetto di relazione. La relazione, enfatizzando la matrice sociale e interattiva, ha permesso di superare la logica della corrispondenza tra osservatore e realtà osservata, concetto che si era psicoanaliticamente tradotto nella figura dell’analista come garante di Verità. In questo modo, grazie anche ad una nuova episteme, si è potuto demitizzare il rapporto up-down che per lunghi anni nella storia della clinica psicoanalitica ha caratterizzato la relazione tra paziente e analista.
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