mercoledì 12 settembre 2007

Il rischio: limite o risorsa dell’adolescente?

La trasformazione adolescenziale implica un salto qualitativo complesso: “è un tempo di grandi metamorfosi, di alchimie complesse e di trasformazioni continue nel quale in ognuno vi è tutto e il contrario di tutto”.



“Né carne né pesce”, “né bruco né farfalla”; sono queste le affermazioni che si sentono spesso dire a proposito di un’età  che, vista in questa prospettiva, non può che essere “ingrata”, così spesso definita per quello che non è o che non ha. 

La psicoanalista francese Dolto ha evidenziato la possibilità di ritenere gli adolescenti come le aragoste: nel momento un cui perdono la corazza e si sta formando un nuovo guscio, attraversano un periodo delicato in cui sono deprivati della protezione; cambia improvvisamente il proprio corpo, e di conseguenza cambiano i sentimenti verso se stessi e verso gli altri. È invece un momento delicato in cui tener vivi sia i ricordi del passato che i progetti del futuro. 



Con le frequenti tensioni intrapsichiche e relazionali che l’adolescenza comporta con tempi e ritmo diversi per ciascuno, ragazzi e ragazze crescono procedendo per “oscillazioni”; si alternano fasi di enfasi evolutiva a fasi di regressione momentanea che permettono però di recuperare l’equilibrio e tra questi il “rischio” è il fattore che all’età adolescenziale risulta maggiormente connesso. Ma cosa può rappresentare veramente per l’adolescente questa parola e cosa significhi per lui rischiare - se una necessità o un passatempo - dipende sicuramente dal valore che l’adolescente in prima persona riconosce al rischio stesso.


Rischiare o non rischiare?



Per molto tempo si è pensato che gli adolescenti indulgessero in comportamenti non salutari perché non assumevano una prospettiva orientata al futuro e quindi non riuscivano a prefigurarsi la possibilità di farsi del male o di morire, sottostimando, quindi, ogni tipo di rischio.



A tal proposito molte ricerche hanno messo in luce quanto sia infondata l’idea del cosiddetto “mito dell’immortalità” e che i ragazzi sono del tutto consapevoli dei rischi che corrono, addirittura sovrastimandoli rispetto agli adulti. La differenza che li contraddistingue da questi ultimi, però, è il fatto di soffermarsi a soppesare i benefici derivanti da quel determinato comportamento; da questo calcolo possono deliberatamente ritenere che i benefici superano i rischi; benefici quasi sempre di tipo emotivo e legati al piacere.



Diventare grandi dunque, da questa prospettiva, non significa affatto diventare più riflessivi, ma al contrario diventare più intuitivi, automatici e, in un certo qual senso, più “irrazionali” se intendiamo con questo termine un “decision making” meno mediato dal ragionamento.

È necessario, quindi, concentrare l’attenzione sulla dimensione soggettiva del rischio che differenzia non soltanto l’adolescente dall’adulto ma anche gli adolescenti tra di loro, operando una distinzione a livello teorico tra la percezione del rischio - riferita ai processi cognitivi -, assunzione del rischio - riferita ai comportamenti nocivi per la salute - e propensione al rischio - intesa come tratto della personalità, alla base del quale si presuppone l’esistenza di differenze individuali che orientano sia la percezione che il comportamento nei suoi riguardi (Zani, 1999).



Il rischio, in ogni caso, non è solamente sinonimo di condotte problematiche dagli esiti negativi per il benessere e la salute, ma può essere affrontato anche in maniera positiva grazie all’intervento di fattori protettivi che agiscono direttamente, prevenendo le conseguenze negative, o indirettamente, come moderatori dell’esposizione a fattori di rischio (Jessor et al., 1995); esso costituisce una scommessa sul futuro in una società proiettata verso l’avvenire che, per alcuni versi, vede nel rischio un possibilità di autorealizzazione



Rischiare per “sentire”.



Nella prima adolescenza, l’adozione di comportamenti irregolari ed il desiderio di rischiare si manifestano con particolare ripetitività ed intensità, sia per le caratteristiche dell’età che per la complessità del contesto sociale in cui l’adolescente è inserito (Bonino S., Cattelino E., 1999). In questa fase, i soggetti evidenziano differenti valutazioni dei comportamenti a rischio, mostrando una tendenza a sottostimarlo con la crescita; ciò potrebbe essere associato alla maggiore esperienza ed a una migliore comprensione del rischio stesso.



L’assunzione del rischio viene considerata come un comportamento naturale e quasi inevitabile: è un modo per mettere alla prova le proprie capacità e competenze, per completare le esigenze dello sviluppo legate alle necessità di padronanza ed individuazione. Ogni volta che un adolescente supera un’esperienza azzardata si sente definito come “persona”.



In una realtà in cui risulta impossibile trovare luoghi di senso, di emozione e di sfida, il rischio diventa una possibilità di guadagnare la legittimità della propria presenza nel mondo e il sentimento di esistere (Le Bereton D., 2003). La letteratura suggerisce che gli adulti implicati nei comportamenti azzardati tendono a sottostimare il rischio associato agli stessi comportamenti (Weinstein, 1984) ed è probabile che negli adolescenti si verifichi lo stesso fenomeno.



La ricerca estrema di sensazioni forti è una delle tante “finalità” che accompagnano l’intera vita dell’individuo ma, mentre nell’età adulta le sensazioni forti possono essere perseguite tramite il soddisfacimento di necessità più “raggiungibili”, in epoca adolescenziale e giovanile questa finalità porta il soggetto alla messa in atto di comportamenti rischiosi e di forte impatto emotivo.

Tale tratto, associato all’adozione di comportamenti spericolati e non consoni alla salvaguardia della salute, fa riferimento al bisogno, che alcune persone hanno, di sperimentare sensazioni nuove ed eccitanti, soddisfatto attraverso la ricerca attiva di situazioni ed esperienze anche pericolose. Per tali persone, esperienze meno intense e legate alla vita quotidiana risultano di fatto noiose, incapaci, cioè, di evocare livelli sufficienti di gratificazione e, talora, nemmeno livelli sufficienti di attenzione ed interesse.



Fu M. Zuckerman (1983)  a condurre interessanti studi sulla ricerca di sensazioni, definita Sensation Seeking (SS), ovvero "il bisogno di varie, nuove e complesse sensazioni ed esperienze, nonché la propensione ad assumere rischi fisici e sociali al solo fine di tale esperienza” (V. Lingiardi, 2001).

L’espressione inglese si riferisce, quindi, al perseguimento di nuove e intense sensazioni ed esperienze associate alla trascuratezza dei rischi conseguenti la loro ricerca. Il tratto comune di queste attività è il desiderio di novità, cambiamento ed eccitazione. Si va, ad esempio, dall'utilizzo di droghe, ad attività sportive estreme, ai viaggi esotici, agli stili di vita stravaganti, ai comportamenti disinibiti, ecc.



Dagli esperimenti di Zuckerman (1971) emerse il profilo del sensation seeker : soggetto relativamente giovane, con caratteristiche di personalità impulsive e a tratti aggressive, molto curioso, anticonformista e con livelli di ansia relativamente bassi (M. Bedetti, 2004).

In riferimento allo studio di tale fenomeno, alcuni psicologi e psichiatri attribuiscono serie responsabilità alla società odierna troppo spinta agli eccessi, altri sottolineano la presenza di elementi narcisistici nella personalità dei sensation seeker, altri ancora colgono nei loro comportamenti la ricerca di quella attenzione che il mondo relazionale e familiare non ha ad essi riservato.



I comportamenti del sensation seeker si caratterizzano, quindi, per lo scarso senso morale, l'indifferenza alle regole, l'inosservanza della sicurezza propria e di quella altrui. Tali comportamenti esprimono ostilità nei confronti dell'organizzazione del gruppo sociale di appartenenza. La spiegazione di questi atteggiamenti si ricollega al fatto che nel sensation seeker, il più delle volte, i comportamenti trasgressivi mirano a superare la noia di una vita senza valori. Nell'affrontare situazioni ad alto rischio, egli mette alla prova la propria capacità di controllo degli eventi. Aprire il paracadute all'ultimo momento, pigiare il freno della macchina pochi secondi prima del possibile schianto contro il muro, ad esempio, creano in lui un'eccitazione tale da renderlo appagato, almeno in quell'istante (Heinberg F., 1997).



La valutazione della minaccia che produce il brivido, quindi, dipende dalla stima che il soggetto compie delle proprie capacità. Dagli studi effettuati sul motociclismo e deltaplano (Kurz, 1988), la minaccia e il brivido sono percepiti come piacevoli soltanto finché il soggetto ha la sensazione di controllare il corso degli eventi. Gli sport estremi, perciò, possono essere ritenuti uno dei pochi modi che gli individui che li praticano hanno di sentirsi “vivi”, per non cadere in un senso di vuoto e noia dato da attività definite “normali”. Se questo è vero, un sensation seeker potrebbe tradurre la sua  motivazione nei termini “Sento, dunque sono” .



Il tratto di personalità “ricerca delle sensazioni” può essere misurato tramite la somministrazione di un questionario finalizzato a rilevare l’attrazione dell’individuo per il comportamento ad alto rischio, meglio conosciuto come Sensation Seeking Scale, i cui item riguardano le preferenze per l’intensità di alcune percezioni sensoriali (caldo, freddo, rumore, gusto, colori), per la familiarità in opposizione alla novità e per la routine in opposizione all’avventura.



Ogni individuo, quindi, ha delle soglie di attivazione le quali possono essere considerate per lui ottimali e che, nel corso della vita, subiscono una certa oscillazione. Quando si verificano scostamenti eccessivi, in un senso o nell’altro, quindi, il soggetto tenderà ad attivarsi al fine di riportare le stimolazioni sensoriali entro i giusti confini.

 

Il rischio: gioco di vita

 

“…l’inquietudine di chi si sente esposto ai pericoli di una trasformazione profonda di chi sa che non può e non vuol fermarsi”. 


L’adolescenza, finora definito un periodo di rapide trasformazioni, rappresenta una fase evolutiva fondamentale: molte sono le potenzialità e le risorse dell’adolescente, ma elevato è il rischio di perturbazioni sia intrapsichiche che interpersonali.



I comportamenti a rischio, assolvono spesso, a questa età, funzioni ben precise e, sebbene siano dannosi da punto di vista fisico, psichico e sociale, sembrano fornire all’adolescente una via di uscita alle insicurezze e alle incertezze sperimentate in  questa fase della vita. Tali comportamenti si configurano, pertanto, come una componente del normale sviluppo psicologico dell’adolescente stesso ed una espressione del suo bisogno di esplorazione.



Molte persone attribuiscono l’elevata incidenza di comportamenti a rischio in adolescenza alla immaturità cognitiva, ritenendo gli adolescenti meno capaci di comprendere le conseguenze delle loro azioni in seguito ad un’accresciuta percezione dell’invulnerabilità influenzata dal concetto di egocentrismo.

L’età della maturazione biologica, quindi, influenza le competenze cognitive, la percezione di sé, dell’ambiente sociale e i valori personali ed è possibile ipotizzare, perciò, che queste quattro variabili possano predire i comportamenti a rischio dell’adolescente attraverso la mediazione della percezione del rischio e delle caratteristiche del gruppo dei pari.



Poiché è stato ampiamente dimostrato che i comportamenti a rischio iniziati nell’adolescenza persistono per tutta la quarta decade della vita come causa di mortalità e morbilità, se si intende migliorare le condizioni di salute degli adolescenti e degli adulti è necessario prestarvi una maggiore attenzione.

Ritenere l’adolescenza la fase della vita a cui ricondurre l’insorgenza dei comportamenti rischiosi, quindi, sta a dimostrare la veridicità del fenomeno meglio conosciuto con il nome di Risk-Taking (RT). Questa generica definizione implica la partecipazione in attività dall’esito incerto, che possono essere potenzialmente compromettenti per il benessere del soggetto, che dimostra di avere scarsa o assente conoscenza delle conseguenze ad esse correlate (Pellai e Bonicelli, 2002).



Questi comportamenti a rischio, di natura prettamente intenzionale, possono essere considerati come il risultato dell’interazione tra le caratteristiche biologiche, psicologiche, sociali dell’individuo e il suo ambiente. Nel corso dell’adolescenza, gli evidenti cambiamenti che si verificano potrebbero rappresentare per il ragazzo degli stimoli molto potenti nel processo di assunzione e messa in atto del rischio.



Ecco, quindi, che il concetto di risk-taking comprende molto più che la scelta di attuare comportamenti problematici, disfunzionali o dannosi (Zuckerman, 1979), ma costituisce una dimensione normale nell’arco del processo di crescita dell’adolescente. Pertanto, se il rischio fa parte del gioco della vita e della maturazione dell’individuo (Bastiani Pergamo e Drogo, 2002), è il modo in cui esso viene a volte sottovalutato e banalizzato dagli adolescenti ad essere potenzialmente pericoloso.



È di fondamentale importanza, inoltre, non tralasciare la dimensione emotiva. Stephen Lyng presenta, a tal proposito, una prospettiva sociologica sul RT, ponendo la questione delle similarità tra assunzione volontaria di rischio (ad esempio, nell’alpinismo) e le azioni criminali. Egli sostiene in maniera convincente la posizione secondo cui entrambi possono essere concepiti come comportamenti “al limite” (edgework), sebbene possano essere distinti in base alla dimensione ecologica vs interpersonale. Egli propone, inoltre, che i comportamenti “al limite” avvengono in risposta ai sentimenti di impotenza e di perdita di controllo personale, offrendo all’individuo rinnovati sentimenti di controllo e di auto-realizzazione.



Alla base del rischio come rimedio alla propria impotenza e al proprio mancato controllo personale, lo stesso ambiente sociale nel quale l’individuo si trova inserito, riveste un ruolo di fondamentale importanza.

Questo rimane uno dei principali fattori predittivi dei comportamenti a rischio in adolescenza compreso la scuola e le sua organizzazione. Deve essere inoltre riconosciuto il ruolo protettivo dell’ambiente: la famiglia e i coetanei rimangono elementi fondamentali  insieme allo stile educativo - rivelatosi un correlato importante nell’esordio dei comportamenti a rischio - e alla scuola.



Questa ultima, in particolare, gioca un ruolo fondamentale nella prevenzione del rischio soprattutto nel momento in cui gli alunni vengono resi protagonisti di una battaglia generazionale in difesa della salute, del benessere e del rischio calcolato, quello inevitabile ai fini della crescita (Giori F.,1998).


…allora rischiare per crescere


All’interno delle culture giovanili è possibile rintracciare diverse costellazioni tipiche di comportamenti di sfida, di ribellione e di iniziazione che diventano segni, modalità di espressione e di affermazione caratteristici della condizione adolescenziale e che consentono, al tempo stesso, di mettere alla prova le proprie abilità e competenze testando, così, i livelli di autonomia raggiunti.



Prevenire le condotte rischiose degli adolescenti non significa fermare il loro naturale bisogno di novità, la curiosità e l’attrazione per persone e luoghi sconosciuti, bensì evitare che l’evoluzione cognitiva ed emotiva dell’adolescente possa deviare verso comportamenti pericolosi.

Sì, quindi, alle esperienze che aiutano i giovani a valutare i propri limiti, a dosare l’assunzione dei rischi, contribuendo al raggiungimento di un obiettivo, all’autonomia, alla responsabilizzazione e alla capacità di scelta. No, invece, al rischio per sfogarsi, allontanarsi da se stessi e sfidarsi, sganciato da qualsiasi obiettivo se non quello di sentirsi “invincibili”.



Al fine di riuscire a creare e costruire insieme al soggetto le giuste conoscenze in modo da renderlo agente attivo nella comprensione del rischio nella propria vita, sarà opportuno trasformare semplici modelli informativi - inerenti metodologie di apprendimento centrati sulle competenze ascrivibili nell’area dell’intelligenza accademica - in modelli educativi - basati principalmente su un apprendimento fatto “proprio” e reso il principale fattore influente nell’approccio al rischio presente e futuro -. Pur ritenendo l'eziologia della maggior parte dei comportamenti a rischio l’effetto della «difficoltà di crescere» propria della adolescenza, un adeguato intervento educativo - al fine di trasmettere al giovane il valore della propria vita, della salute e la necessità di salvaguardarle -, consentirebbe di modificare il rapporto dell’adolescente con la realtà esterna, riconducendolo “alla vita” attraverso la ricerca di motivazioni valoriali atte a contrastare la diffusa stanchezza di vivere.


Fonte: opsonline.it

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